Uomini e topi: nessuna redenzione per l’essere umano

John Steinbeck ci descrive una lotta esistenziale che non si esaurisce nella «gioia promessa», ma sprofonda nel «dolore» e nella «pena»

Pubblicato in Italia nel 1938, con la traduzione di Cesare Pavese, “Uomini e topi” (1937), di John Steinbeck,  sembra essere un libro senza tempo, un libro in cui i fatti descrivono ogni luogo e ogni epoca.

 

Di per se la storia è molto semplice, l’azione è ambientata in una fattoria, dove giungono i due personaggi, George, il protagonista, e il suo amico Lennie, dalla forza smisurata, ma affetto da un ritardo mentale. Lennie, consapevole della propria inferiorità mentale, affida il suo futuro a George, con il quale condivide il sogno di poter un giorno comprare una fattoria. Altri protagonisti di questo romanzo-tragedia sono i “negro” Crooks, il vecchio Candy, il padrone, Curley, il figlio del padrone, e sua moglie, una donna sensuale e dall’animo insoddisfatto che è al centro dei desideri di tutti i maschi della fattoria e che finisce per attirare, tragicamente, anche le attenzioni di Lennie.

 

In tutto il testo, aleggia una concezione del destino totalmente negativa e ogni evento ci immerge in un’estrema solitudine che pervade gli animi dei personaggi; non c’è possibilità di compagnia, di dialogo o di comunione; significativo è anche il luogo in cui la storia è ambientata: «Poche miglia a sud di Soledad».

Anche l’origine del titolo del racconto è significativa, è tratta da una poesia di Robert Burns, poeta romantico vissuto tra il 1759 e il 1796. Il poema si intitola “To a Mouse. On Turning Her up in Her Nest with the Plough” (November 1785). Nel passo da cui è tratto il titolo, sembra esservi contenuto il messaggio che Steinbeck consegnerà poi a tutto il racconto:

«But Mousie, thou art no thy-lane,
In proving foresight may be vain:
The best laid schemes o’ Mice an’ Men,
Gang aft agley,
En’ lea’e us nought but grief an’ pain,
For promis’d joy!».

Ma topolino, non sei il solo, / A comprovar che la previdenza può esser vana: / I migliori piani dei topi e degli uomini, / Van spesso di traverso, / E non ci lascian che dolore e pena, / Invece della gioia promessa!».)

 

Quindi il titolo del romanzo riprende la similitudine tra uomini e topi istituita nei versi circa l’inutilità della loro previdenza: i loro piani sono destinati a fallire in una condizione di «dolore e pena» anziché portare la «gioia promessa».

L’ambiente d’azione dei personaggi di “Uomini e topi” è fatto di solitudine, incomunicabilità e legge del più forte, in cui  il male è la forza scatenante che alimenta gli eventi che aspettano i protagonisti. Il male viene introdotto dall’autore attraverso la presenza di un animale, il serpente, icona classica dei valori negativi di chiara provenienza giudaico-biblica. Sia nella prima che nella sesta parte del romanzo, infatti, una biscia scivola nell’acqua dell’ansa del fiume. Il male è dunque intorno a noi, celato dalla natura.

 

Ma nessuno dei due delitti, che danno corpo al romanzo, è causato da malvagità, cupidigia, invidia o altra motivazione di per sé condannabile; al contrario i due delitti sono causati dall’amore. Nel primo caso dall’amore che è stato negato a Lennie fin da piccolo, il cui bisogno si manifesta nell’ossessione a toccare qualcosa di morbido: velluto, topo, cane, coniglio o capelli di donna che siano; la sua paura, la sua forza e i suoi limiti intellettivi faranno il resto.

Nel secondo caso il delitto è causato dall’amore virile e responsabile che si manifesta nell’affetto sincero che George prova per Lennie; affetto che lo induce ad ammazzare consapevolmente l’amico come un cane (è proprio il caso di dirlo). Consapevolezza che risulta chiara dai suoi tentennamenti ma che sottolinea, d’altra parte, come la sua scelta di agire in quel modo trasformi l’atto delittuoso nel gesto di carità di un amico che ha optato per il male minore (a convincerlo di ciò è il pensiero dei patimenti di Lennie nel caso in cui venisse catturato da Curley). Nemmeno l’amore, comunque lo si intenda, può dunque portare sollievo all’uomo, può mitigare la sua condizione.

 

Steinbeck, con “Uomini e topi“, ci descrive l’alienazione di un’intera società attraverso le vicende di due semplici uomini. Dice della lotta dell’uomo contro un’esistenza dura; una lotta anche contro se stessi. Una lotta che non si esaurisce, appunto, nella «gioia promessa», ma fa sprofondare l’esistenza umana nel «dolore» e nella «pena».

Katia Valentini

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