Un’altra storia pulp

Racconto breve

“Dio merda”.
Queste le ultime indissolubili parole che pronunciò il vecchio Barba mentre veniva crudelmente impallinato fuori dalla discoteca SetteGalassie.
La raffica di proiettili gli aveva colorato il viso, poi lentamente lo aveva fatto scivolare nella pozzanghera di lacrime e di sangue.
Io ero in macchina e guardavo la scena a distanza di sicurezza.
Al posto di fianco al mio sedeva Carlo Palpito, l’avvocato genovese, il tombeur de femmes, imbottito di ansiolitici, sonniferi ed altra merda chimica.
Non era per cattiveria o per scarso attaccamento al vecchio Barba, ma non era il caso che io e Carlo provassimo a intervenire: quella non era una rimpatriata tra compari, era un cazzo di agguato a tutti gli effetti ed io non avevo intenzione di farmi scaricare un caricatore sulla pancia.
Si capisce, ci stavano aspettando, volevano farci fuori tutti e tre.
Non mi interessava troppo sapere chi fossero e perchè ci stessero alle calcagna: quando sei sul libro paga di chi in città gestisce locali, cocaina e prostitute minorenni, allora devi mettere sul conto che prima o poi potrebbe succedere qualcosa di storto, il resto sono soltanto domande irrilevanti.

Lo Studio Legale Barba&Associati aveva un solo cliente, un cliente molto importante.
Quando il vecchio Barba accettò di occuparsi della difesa legale di colui che poi sarebbe diventato il suo unico cliente, lo fece mentre due tizi in completo scuro gli sfregavano la canna delle pistole sulle tempie bagnate.
Un incarico professionale redatto in forma verbale che suggellava il libero incontro della volontà tra le parti.
Il cliente di cui parlo è colui che chiamiamo il “Santo”, il signore della criminalità organizzata giù in città.
Prima di mettere in moto e fuggire lontano dal SetteGalassie, lanciamo un ultimo sguardo al vecchio Barba: accasciato su stesso, ridotto un colabrodo, lui, il mio mentore e la sua spaventosa somiglianza con l’attore Jean Reno nel film Le Grand Bleu.

“Dove cazzo andiamo adesso? Che cosa cazzo facciamo?” urla Carlo Palpito mentre io guido all’impazzata dentro il vuoto della notte nuda.
“Non lo so, Carlo. Andiamo all’aeroporto e speriamo di non fare brutti incontri”.
Carlo Palpito butta giù altre tre pasticche di ansiolitico e due di antidepressivo.
Insomma, al Santo era venuta la brillante idea di scannare i suoi avvocati, ma purtroppo per lui, i suoi sicari ne avevano beccato uno soltanto.
Leccano l’asfalto, le nostre quattro ruote impazzite, a centottanta all’ora sulla statale 44A in direzione dell’aeroporto.
Carlo Palpito si lascia andare al panico “Guarda, mi tremano le mani, non riesco a tenerle ferme…”
“Stai tranquillo Carlo, vedrai che ce la caveremo”.
Cazzate.
Non ce la caveremo, lo sappiamo benissimo entrambi, ci beccheranno e ci faranno a pezzi.

Arriviamo all’aeroporto.
La paura, adesso, è la madre delle nostra ossa, ci guardiamo intorno con sospetto: ogni sguardo che incrociamo potrebbe essere quello del nostro aguzzino.
Carlo Palpito poggia sulla lingua una pillola celeste e la fagocita, ha i nervi a pezzi, la fronte sudata, sente incessante il tambureggiare de la muerte, l’eterno e inarrestabile riposo del corpo, nei secoli e nei secoli.
Io devo rimanere lucido, controllare il battito cardiaco e la salivazione, stare attento ad ogni minuscolo particolare.
La ragazza allo sportello è fasciata nel tailleur verde della compagnia aerea, avrà ventisette anni.
Que bambola.
“Due biglietti per il prossimo volo, qualsiasi destinazione…” le dico sottovoce.
Lei controlla il terminale, poi ci stampa due biglietti bollenti per Città del Messico, imbarco previsto tra venti minuti.
Venti minuti pesanti come un macigno.

Nell’attesa ci sediamo al bar, in un tavolo in fondo alla sala.
Lampade alogene ci sovrastano il cranio, la luce bianca si riflette sulle nostre pupille affaticate, Carlo Palpito beve vodka liscia per fare scivolare giù un paio di sonniferi.
Lentamente si avvicinano tre sagome sospette.
Un nodo in gola mi stoppa il respiro, forse ci siamo: sono venuti a scannarmi, eppure mancava talmente poco che mi ero affezionato all’idea di continuare a vivere.
Si siedono ad un tavolo vicino e iniziano a parlare ad alta voce.
Falso allarme, se fossero stati gli uomini del Santo ci avrebbero già bucato.

Mancano una decina di minuti al volo.
Ad un tratto Carlo Palpito, con un filo di voce mi dice “Amico, accompagnami in bagno, devo vomitare, sto di merda”.
“Carlo, cristo santo, resisti, ci siamo quasi, dobbiamo salire sull’aereo”
“Merda, ti prego, portami in bagno, non ce la faccio più”
Lo sorreggo mentre strisciamo in silenzio verso la toilette. Dobbiamo fare in fretta.
Carlo Palpito si chiude e rimette con violenza.
Dopo apre, molto lentamente, la porta del bagno ed esce.
Serra nella mano destra una piccola pistola.
Me la punta sul viso.
“Carlo, che cazzo stai facendo?”
“E’ solo una questione di denaro, senza rancore, amico”.
Veloce come il vento, il proiettile mi si infila tra le labbra e poi esce, supersonico e cattivo, dalla nuca capelluta.

Giuseppe Catanzaro

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