Capitolo primo. Adoravo Expo. Anzi no, lo mitizzavo smisuratamente. Era un luogo dove forme e colori pulsavano in un’armonia di suoni e profumi. -No, no.. fammi ricominciare da capo…
Capitolo primo. Ero troppo romantico riguardo a Milano. Traevo vigore da tutto quel traffico sub-metropolitano e dal febbrile andirivieni della folla lungo il Decumano. Per me Expo significava odori lontani, sapori nuovi, mescolanza di culture. -Uhm, troppo stantio, roba stantia.
Capitolo primo. Adoravo Expo. Per me era la metafora dell’apparenza contemporanea. Lo stesso apparire che permea la società affiorava dalla maestosità dei padiglioni che erano contenitori della decadenza più totale. -Mmmh.. non sarà troppo predicatorio?
Capitolo primo. Dietro la montatura verdastra i miei occhioni fissavano la scena pronti ad agguantare il mio prossimo pezzo. -No, aspetta. Ci sono: Expo era una cagata, e lo sarebbe sempre stato.
In netta antitesi con la narrazione romantica di Manhattan che la elevava a luogo mistico nell’omonimo film di Woody Allen, la mia opinione riguardante l’Expo milanese non sarà così lusinghiera (ma, forse, s’era già capito).
Partendo dal presupposto, per me sacrosanto, che per criticare bisogna conoscere: ahimè, sulla piastra di Rho ci ho passato un’intera giornata. È vero che partivo con non troppe aspettative e, forse, con troppi pregiudizi, ma di quella giornata non riesco a ricordare nulla di così profondamente romantico, estremamente affascinante e orgogliosamente realizzato.
Il solo viaggio, per certi aspetti, è stato un calvario. Il treno regionale delle 7.35, quello dei pendolari per intendersi, era già pieno prima che salissimo, con l’ovvio risultato che per tutto il tempo (un’oretta) rimanemmo in piedi. E passò pure il controllore a chiederci i biglietti, va be’. Stessa sorte con la coincidenza per Rho. Stesso affollamento (forse eravamo ancora più accalcati), altro tempo in piedi. E per uno che deve camminare e stare in piedi tutto il giorno può essere pure un buon riscaldamento (risata). Ma non volevo fare il guastafeste, il solito pessimista che vede solo nero, quello che si lamenta di tutto. No, doveva essere una giornata divertente e questo un piccolo prezzo (oltre al biglietto, sia chiaro) da pagare per accedere al bello che c’era oltre quei tornelli. Gettai il sorriso e lo sguardo oltre il vetro dei finestrini. Però per un attimo ai pendolari ci pensai: quanta tenerezza.
Ricordo che, una volta sull’enorme piastra dell’Esposizione Universale, mi ha colto un senso di disagio e inadeguatezza: io piccolo uomo in mezzo a colossi erti a orgoglio nazionale. E il pensiero è subito scappato avanti, al cosa ne sarà una volta che l’evento sarà terminato, la maggior parte delle strutture smantellate e quei tornelli non li varcherà più nessuno. Il cemento non ritornerà ad esser terra e il sole brucerà ogni centimetro di quell’enorme colata.
Passeggiamo lungo questo vialone, il Decumano appunto, alla ricerca della risposta al tema di Expo: come nutrire il pianeta? Appare subito chiaro il tentativo di affidare all’architettura il compito di appagare l’occhio del visitatore, ingolosendolo di artifici scenografici e distogliendolo dal senso ultimo dell’evento. Basti pensare al calibro degli artisti che hanno partecipato alla progettazione dei padiglioni per capire quanto importasse, alle varie Nazioni (e all’organizzatore), sfoggiare ricchezza e maestosità, in barba al tema scelto e nell’insensata rincorsa a una legittimazione della propria superiorità. Una mera gara a chi ce l’ha più lungo, che purtroppo tanto piace all’occhio medio. Luci, colori, specchi, vegetazione, giochi d’acqua: tutti trucchi atti a mascherare la pochezza di contenuti. Ero di fronte alle scatole più belle che avessi mai visto, ma erano tristemente vuote.
Dal Belgio all’Argentina, dalla Spagna al Messico un viaggio all’interno di installazioni discutibili, spesso poco culturali e così scontate da risultare banali. Così come sono profondamente infelici i tentativi commerciali di Equador e Oman, per citarne un paio: che pure son belli, ma che mirano ad accalappiarsi turisti e orde di curiosi dietro la promessa (mancata) di sapere e conoscenza. Per non parlare della scellerata (in termini di offerta culturale) presenza del Turkmenistan (fratello meno celebre del più noto Uzbekistan), impegnato a mostrare la propria potenza (e pochezza) attraverso gasdotti e pozzi petroliferi. Pare che la traduzione di nutrire in turkmeno sia proprio impoverire. Menzione a parte lo meritano i Cluster: i padiglioni comuni che avrebbero dovuto ospitare i Paesi più poveri non in grado di allestire autonomamente un padiglione. Erano cinque, divisi per aree tematiche. Detto così, erano potenzialmente i posti più interessanti. In realtà dei grandi mercati generali, dove ogni Nazione è poco più di una bancarella e se va bene, quando va bene, ha pure una piccola tavola calda. Stranamente non si affacciano sul Decumano (sì, lo so: due si) e sanciscono una netta spaccatura con il resto dell’evento: una manifestazione di A e una di B. Come se in coro i primi avessero detto “Mi spiace, ma noi siamo noi. E voi non siete un cazzo!” (supercit.).
Ma non mancano le note liete, suonate da Corea del Sud e dal Padiglione delle Biodiversità targato Slow Food. Due esempi del fatto che era possibile trattare il tema (peraltro in due modi diversi), costruire un bel padiglione e infine pensare anche a cosa ne sarebbe stato di quella struttura. Accontentando tutti: homines medii alla ricerca di visioni mistiche e scassaminchia pronti a cercare il pelo nell’uovo.
La sensazione all’uscita è davvero quella di una grande occasione sprecata. Dall’Italia in generale, che poteva mostrare in ben altro modo le proprie eccellenze piuttosto che rinchiuderle in un palazzo futuristico; al Mondo, che poteva affrontare diversamente uno dei temi più controversi e meno chiacchierati ma che è alla base della vita.
La Carta di Milano, siglata sotto gli occhi vigili di McDonald’s e Coca-Cola, ha più il sapore di preservativo usato che di manifesto per la nutrizione globale.
Così come per i numeri del (in)successo e di quel che ne sarà, ad maiora!
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Massimo Righetti
NB – La critica ai padiglioni prende in esame i pochi visitati dal sottoscritto, troppo impegnato a vivere per sprecare del tempo in coda.
non ci sono stato,ma e’ facile percepire sincere le critiche di Righetti …. sono d accordo anche da lontano
io mi sono voluto togliere lo sfizio. seppur alcuni padiglioni meritano,ma anche le strutture , leggendo questo post anche me sale la sensazione di una chance sprecata . tra tutta quel fasto si poteva sfruttare meglio il tema , con iniziative, magari educative migliori
se macche’ … e pensare che il tema era ” nutrire ” il pianeta … e poi mettono mcdonalds come sponsor , da qui si capisce la coerenza ………. che non e’ per i contenuti , ma per i soldi
ma il tema era solo una scusa , per il resto expo era solo l’ ennesimo palo della cuccagna!
non ce la potevo fare a stare tutte quelle ore in fila
bel post di Righetti, concordo
i cluster erano una vergogna ,ha ragione Massimo!