«Parlami, o musa, dell’uomo versatile e scaltro che andò vagando tanto a lungo». Questo è l’esordio dell’ “Odissea“, lo straordinario poema omerico considerato con l’ “Iliade” il pilastro della cultura letteraria occidentale.
La figura di Ulisse ha affascinato, seducendo, generazioni di scrittori i quali vedevano nell’eroe greco l’intemerata e ferma vitalità conoscitiva, che è patrimonio inestimabile dell’umanità. Poche altre definizioni connotano l’essenza di questo personaggio come quella di eroe, dal greco “uomo libero“.
Ulisse uomo libero lo fu davvero, viaggiatore e indefesso avventuriero, il sovrano di Itaca, mai venne meno all’imperativo di assecondare il suo spirito libero, la sua sete di conoscenza per dirla con Dante, in un mondo ripiegato su se stesso e dai limitati confini. Combattendo stolti pregiudizi ha incarnato e sommamente espresso la peculiarità più alta dell’Uomo: l’intelligenza. Intelligenza che Odisseo estrinsecava in ogni azione, decisione o passo della sua vita. L’Ulisse dell’Iliade e quello successivo dell’Odissea non è sostanzialmente diverso, ne è diversa la qualità della sua “metis“, dal greco “intelligenza attiva ed esecutrice“.
Nel viaggio di ritorno verso la sua amata Itaca è costretto ad applicare un uso più articolato dell’intelligenza attiva contro insidie inaspettate, avversari sconosciuti, forze occulte, dove il messaggio che filtra si identifica nell’arte della sopravvivenza, che richiede abilità e prudenza, dissimulazione e audacia. Travestimenti e racconti bugiardi sono aspetti necessari non solo alla sopravvivenza ma anche al mantenimento di un’identità costantemente minacciata; come Proteo Odisseo è costretto ad assumere tutte le forme per allontanare da se la morte e continuare ha nutrire la speranza di un ritorno in patria.
Un cammino lungo venti anni è quello che compie Ulisse per approdare ad Itaca dopo la guerra di Troia, fra i tanti viaggi di ritorno, il suo è il solo che unisca le componenti, entrambe narrato logicamente gratificanti, di una peripezia straordinaria e di un avventuroso ed eroico lieto fine.
L’uomo dal multiforme ingegno è l’emblema di colui che ha sempre scelto i rigogliosi pomi dell’albero della conoscenza, così come i primi esseri umani impastati da Dio, che per la loro decisione furono privati dell’immortalità e condannati a patire sofferenze indicibili sulla terra. Quando Odisseo ha sterminato i Proci, quando ha purificato la sua casa e, da ultimo indossato ancora una volta le armi del guerriero, ha sconfitto gli ultimi avversari e stabilito i patti della pace, noi sappiamo, lui stesso sa da tempo che la vicenda non è ancora compiuta. Rimane l’ipotesi di un altro viaggio, quasi un voto da sciogliere, un ultimo percorso di espiazione prima che l’eroe possa dirsi definitivamente ritornato. L’espressione omerica: «I remi che sono ali alle navi», da luogo alla celebre immagine dantesca «dei remi facemmo ali al folle volo». Da Dante in poi Ulisse è costretto a riprendere il mare all’infinito, condannato ad un eterno ultimo viaggio, verso mete sempre più lontane e straordinarie, oltre ogni limite conosciuto, in uno slancio irrefrenabile che sempre più lo estrania e allontana dall’Odisseo omerico, anche se recupera e variamente rielabora i molteplici aspetti e le leggende legate al primitivo personaggio indoeuropeo. Questo Ulisse che dopo il suo ritorno riprende il mare, nel mare finisce per perdersi, senza più meta. Il suo percorso da circolare diventa rettilineo, privo di riferimenti, un’Odissea senza Itaca che lo condurrà verso la fine, paradigma della quale è il canto XXVI dell’ “Inferno” laddove avviene il naufragio, dinanzi alla montagna del Purgatorio: «Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque / Alla quarta levar la poppa in suso / E la prora ire in giù, come altrui piacque / Infin che l’mar fu sopra noi richiuso». Versi 139-142.
Il mito di Ulisse si staglia come riferimento nella cultura europea. Con Dante, come abbiamo poc’anzi asserito, l’eroe viene immortalato quale simbolo dello slancio prometeico verso l’ignoto, dignità e condanna della condizione umana. Sofocle, con Euripide ed Eschilo padre della tragediografia, rese l’aspetto negativo, antieroico di Ulisse nell’opera il “Filottete” in cui egli figura come personaggio scaltro, privo di scrupoli e opportunista.
Ugo Foscolo, che nacque e trascorse l’infanzia in terra greca, rievoca la dimensione mitica della Grecia antica nel sonetto “A Zacinto“, composto fra il 1802 e il 1803. Attraverso la rievocazione della nativa Zacinto (una delle isole greche Ionie), dei miti ad essa collegati, della poesia omerica e di Ulisse, Foscolo svolge il tema dell’esilioe della morte illacrimata in terra straniera, tema che mette in relazione questo sonetto a quello “In morte del fratello Giovanni“. Il punto chiave di questa rievocazione mitica è il suo approdo a Ulisse attraverso Omero. La rilettura del mito di Ulisse viene compiuta tramite il codice semantico dell’esilio, anziché attraverso quello, più pertinente, del viaggio e dell’erranza. Il mito di Ulisse viene reinterpretato in una chiave collegabile al mito dell’eroe romantico.
È la sventura, la lotta contro un destino avverso, il segno distintivo della figura di Ulisse e la sorgente del suo fascino.
Foscolo nel sonetto ridefinisce se stesso, proiettandosi sullo schermo offerto da quei miti, si pone insomma contemporaneamente come Omero, in quanto poeta e come Ulisse in quanto esule. Tuttavia in quei miti coglie un’immagine capovolta di se, in quanto egli non tornerà in patria e, la sua poesia sarà solo una proiezione simbolica di questo ritorno impossibile.
Anche Umberto Saba fu sedotto dalla figura di Odisseo, al quale dedicò una lirica dal titolo “Parole“, composta tra il 1933/34, con cui esordisce il terzo volume del “Canzoniere“. Saba tornò sul personaggio di Ulisse con “Mediterranee“, raccolta pubblicata nel 1946 dove riflette sul valore della propria arte, l’ultima lirica di Mediterranee, che si intitola proprio “Ulisse“, è un’epitome dei temi più caratteristici del libro. La ricerca dell’assoluto, la vecchiaia e l’apertura ad un futuro sconosciuto, queste tematiche trovano il loro portavoce in Ulisse, l’eroe greco attardatosi lontano da casa è ritratto come amante insensibile.
Volgendo lo sguardo alla letteratura europea il personaggio di Omero si rintraccia nell’opera di James Joyce. Il capolavoro del Joyce maturo è l’ “Ulisse“, storia di una giornata, il 16 giugno 1904, della vita di un gruppetto di figure dublinesi, storia che riesce a superare, grazie alla tecnica del monologo interiore e del flusso di coscienza, i limiti di spazio e tempo e a svelare l’intera storia dei due personaggi principali. Questi sono Leopold Bloom e Stephen Dedalus, figure quantomai antitetiche. L’opera si chiude con il lunghissimo monologo di Molly Bloom, fedifraga, che riflette sulle proprie varie esperienze di donna, affondando il romanzo in un humus di terrena sensualità. Il titolo allude all’analogia con l’Odissea: Bloom che vaga per Dublino è anche Ulisse l’errabondo. Ogni episodio dell’Ulisse rimanda a un libro dell’Odissea, o attraverso gli artifici puramente verbali, o per i parallelismi di situazione, o da ultimo per le immagini ricorrenti; ma la dimensione omerica non funziona coerentemente, ne ha alcun effettivo significato strutturale, salvo l’inizio quando l’isolamento del giovane Stephen e, la sua ricerca di un padre transustanziale, rimanda alla partenza del giovane Telemaco alla ricerca del padre Ulisse, e alla fine quando il ritorno di Bloom da Molly viene ricollegato mediante una serie di rimandi obliqui, col ritorno di Ulisse da Penelope.
L’Ulisse tratta di un ebreo a Dublino e di un giovane esteta sicuro di se, entrambi immersi in un ambiente che è Dublino, ma tratta anche problemi come la solitudine e la comunità, l’identità, la colpa, l’alienazione, la frustrazione, il pregiudizio, la nostalgia, il posto che ha il sesso nella realtà e nella fantasia dell’uomo, e di molte altre cose: suo vero tema andrebbe dunque definito come l’uomo nel mondo.
In pieno novecento, in seguito alla terribile esperienza della Shoah, Primo Levi nel suo capolavoro “Se questo è un uomo” intitolò l’undicesimo capitolo “Il canto di Ulisse”, dove la narrazione si incardina sulla figura di Jean, uno studente alsaziano di ventiquattro anni che essendo il più giovane haftling del kommando dovette assumere la carica di Pikolo, nell’assurda gerarchia del campo. Il Pikolo era il fattorino scritturale addetto alla pulizia della baracca, alle consegne degli attrezzi, alla lavatura delle gamelle, alla contabilità delle ore di lavoro del kommando. Levi strinse una solida amicizia con Jean, il quale appoggiò la sua candidatura come aiuto nella corvè quotidiana del rancio, un lavoro duro, ma ambito per via della lunga marcia di andata senza carico, che permetteva loro di parlare senza pressioni e senza timore. In una di quelle salvifiche marce Levi rievocò la figura di Ulisse, nemmeno lui si capacita del perché, forse per avvicinare Jean alle radici della nostra cultura di cui appariva digiuno. Cominciò a parlare di Dante, della Commedia, il canto XXVI dell’ “Inferno” divenne dominante e l’immagine di Ulisse condannato si presentò come una fiamma: «Lo maggior corno della fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando…».
Attraverso la narrazione delle traversie di Odisseo e del suo ultimo viaggio, Levi instaurò un dialogo affascinante con Jean che curioso di sapere, esortava il suo interlocutore a proseguire nel racconto. Ecco, dunque, come la rievocazione dell’eroe omerico riuscì ad avvicinare due culture dissimili, dando luogo ad un confronto virtuoso in un contesto di inaudita violenza.
Giuseppe Cetorelli