. «Ma siete ferito?»
«Vi chiedo scusa, signore, sono morto».
“Quanto tempo impiegano i pensieri a mostrarsi in superficie? Dove posso trovare una risposta se qualsiasi domanda è sbagliata?”. È questo e molto altro che mi chiedo, anche se quando si scrive bisogna dare un ordine, e trovare una formula, e se l’oggetto che si vuole definire è sfuggente e non ha corpo, la formula è spesso manchevole, e spesso addirittura sciocca, e io scrivo cercando una risposta più nel foglio che ho di fronte, nella sua completezza, che in una singola parola e in quello che significa.
Oscar Wilde disse una volta: “Non c’è nulla di più profondo di ciò che appare in superficie.” Oscar Wilde è morto di sifilide, era solo, era povero. Una sua amica, un’attrice, raccontò di averlo visto pochi mesi prima della sua morte, disse che era davanti una pasticceria a fissare le torte in vetrina, che per la fame si mordeva le mani. Questo è ancora più triste, proprio la cosa più triste del mondo. Di cose così ne vediamo tutti i giorni mentre camminiamo velocemente sui nostri marciapiedi, gettiamo un’occhiata e ce ne andiamo, con una smorfia di disgusto e pietà e uno sguardo di tristezza, e un pensiero che viene sempre da noi subito dopo, che si occupa di etichettare sotto il nome di “disgrazia” o “tragedia” e altre cose più o meno terribili ciò che abbiamo appena visto. Ma il fatto è che io conosco Oscar Wilde, l’ho visto in tante foto con la sua faccia da rospo elegante e il portamento di chi vuole far credere che conosce perfettamente il mondo che vive.
Una voce stentorea e tragica esce dalla mia radio, la voce di un vecchio attore: “Il poeta vede, al tempo stesso e da un punto solo, ciò che è visibile a due, isolatamente.” Che bisogno c’è di declamarlo? Molto bene, quell’attore doveva essere matto. In ogni caso cosa ne consegue?
Mi segnerò comunque la frase da qualche parte; non è sbagliato questo pensiero del poeta che come Dio vede dall’alto e completa i pensieri di due persone qualsiasi, due amanti lontani. Se potessi fare questo forse riuscirei a diventare io stesso gli eventi e i pensieri che quotidianamente mi sconvolgono, facendo precipitare inesorabilmente verso la sera i miei giorni cupi. Alle sette la malinconia mi si abbarbica con le sue lunghe braccia da santa, come se volesse recapitarmi un messaggio di cui io, sconvolto come sono, posso recepire solo la tragicità.
Lentamente è arrivato ottobre, e il freddo che ha portato sembrava dopo poco essere sempre stato qua, per me è stato come un sollievo, un rifugio dagli ultimi giorni di settembre che si ripetevano uguali da troppo tempo. La mia piccola stanza va rimpicciolendosi e mi circonda, colmandomi di un’oscurità non del tutto ripugnante. Un ragno corre agile sopra la mia testa, attraversa il muro bianco e, prima che io possa smettere di contemplarlo pigramente, si nasconde alla mia vista dietro la grossa cornice di un quadro.
La felicità è un concetto astratto, così lo concepiscono gli uomini. Un concetto difficile e sfaccettato, che trascorre le nostre vite, le attraversa. Gli attimi in cui si crede di averla afferrata sono pochi, ed effimeri. Quello che è sicuro è che tutti gli uomini che mi sia capitato di incontrare, ch’io li abbia conosciuti fin nel profondo del loro essere o solo scambiato poche parole, tutti la cercavano, e le loro visioni erano metafore, creavano sogni indefiniti per avere qualcosa da ricercare, un obiettivo cui tendere. Non solo, gli uomini più infelici erano quelli che della felicità avevano il concetto più alto, tanto che ho spesso avuto la sensazione che fossero piuttosto alla ricerca di un altro mondo, di cui però non avevano prove che non risiedessero nella loro fervida immaginazione.
Per quello che mi riguarda, della felicità non posso dire molto, solo che anch’io l’ho cercata e ho avuto i miei sogni, e se sono qui non è certo per raccontare un lieto fine. In ragione di questo, in ragione, voglio dire, di un fallimento, il mio pensiero è mutato e la felicità non è più per me quell’Eden in terra che ho a lungo pensato esistere. Ma, lo sospetto, forse non aspetto altro che creare nuove immagini, nuove metafore, e vado incontro al fallimento come ho sempre fatto, come sono portato a fare; forse mi sto solo riposando, e tornerò presto a riempirmi di quei pensieri che rimpiango e desidero con pari forza.
Per ora, comunque, conto di prolungare ancora un po’ il mio riposo. Non fare assolutamente nulla, stare fermi immobili, può essere a volte un’ottima idea, e inaspettatamente raffinata.
È questo un consiglio che ho spesso rivolto al protagonista di questa vicenda, che purtroppo per voi rimarrà senza volto, mentre si coloreranno a tinte vivide le tortuose strade e i sogni che percorse quando – ancora giovane – si trovò nel mezzo di qualcosa che molti non esiterebbero a definire semplicemente come una disgrazia. Alle sventure era per la verità predisposto per natura, ad ogni modo non mi risulta che abbia mai fatto niente per evitarle. Ma è facile giudicare a posteriori. Racconterò i fatti negli ultimi giorni del loro avvenire, da quando iniziarono a precipitare.
Milano attraversava un periodo del tutto particolare. Per strada si vedeva poca gente, le tenebre vincevano quasi costantemente su un timido sole e a risaltare erano le zone d’ombra, gli spazi angusti e bui e risparmiati al freddo. La città viveva quel periodo come un limbo che forse non sapeva di stare attraversando. Lungo le vie vuote, i muri svelavano le loro crepe.
Nel centro della città, in una notte qualsiasi, alcuni passanti si stringevano nei loro magri cappotti, sotto un antico portico brillava una luce spettrale, che conferiva un’aria macabra allo stretto passaggio di pietra. Qui, due personaggi in nero stavano accostati al muro e trovavano un ottimo rifugio dalla pioggia che non rinunciava a battere i marciapiedi fuori. I contorni delle loro figure erano ben definite e si rifrangevano debolmente sui muri. I due sembravano agitati: lui, specialmente. Le stringeva gli avambracci e le sussurrava qualcosa, le sue labbra erano serrate e si muovevano appena nell’articolare le parole, che scandiva quasi con rabbia. Credo volesse convincerla di qualcosa, sembrava essere molto importante per lui, i suoi occhi la guardavano fissamente. Lei appariva intimorita, come se quello a cui lui la invitava la spingesse a due pulsioni opposte, e cioè la volontà di seguirlo e il non poterlo fare, il non riuscire in nessun modo a essere con lui.
Il vento e il brusio rendevano la conversazione misteriosa e segreta, poche parole poterono udirsi. Anche in quell’oscurità si vedeva benissimo che era molto bella. Lui lo vide e a lei disse:
Dobbiamo ancora cercare, dobbiamo trovarlo. Ce lo siamo promessi molti anni fa. Tu me l’hai promesso.
Ma lei continuava a guardarlo smarrita, a lui parve per un attimo che serbasse un segreto. Dopo pochi concitati momenti si separarono. Si baciarono rapidamente e si diressero in direzioni opposte, senza voltarsi.
La ragazza si chiamava Alina – Alina Reyes, suo padre era spagnolo. Dietro un aspetto di regina antica, un segreto sembrava stringerla e celarsi dietro ogni suo gesto, dietro i suoi occhi chiari, tristi e stanchi.
Da bambina si ripeteva incessantemente una frase che era l’anagramma del suo nome, es la reina y, e cioè, più o meno: è la regina e… e che cosa? Si chiedeva cosa venisse dopo la congiunzione, cosa terminasse quel pensiero, come potesse lei essere completa se quella frase rimaneva senza fine. Se la frase non terminava allora la regina poteva anche non esserlo, non essere regina si intende, e allora Alina poteva fallire, poteva non essere la regina ed essere qualcos’altro, qualcosa di spaventoso.
Sarebbe esagerato affermare che questo pensiero la tormentasse, erano passati molti anni e i giochi dei bambini sono solo giochi e nient’altro, eppure alcuni giorni scuri e cupi, e senza calore, quello stupido anagramma emergeva dalle profondità della sua memoria e lei non poteva più parlare a nessuno, e rinnegava ogni cosa, si stringeva nel suo cappotto e non parlava a nessuno.
Tempo addietro, prima di conoscere Alina e le sue maniere da incantatrice, aveva perduto un anello. All’epoca era ancora bambino e viveva in una vecchia casa grande. Non poteva ricordare tutto, anzi ricordava ben poco, qualche immagine ricostruita con l’aiuto preziosissimo della fantasia, come si fa in una sciarada, congiungendo due elementi dal significato autonomo, il ricordo e il sentimento avevano determinato la sua memoria di quel luogo ormai mitico. Verso quella casa si dirigeva – il passo rapido – nei pomeriggi in cui si sentiva perduto e consumato, spinto da un’impaziente voglia di conoscere, e arrivato davanti al vecchio cancello rosso – era logorato, ma lui lo ricordava brillante – tentava di scorgere qualcosa, sollecitava i suoi occhi a soffermarsi sui più piccoli dettagli, alla ricerca di un indizio. Poi, confuso, indietreggiava di qualche passo e rimirava l’edificio nella sua completezza. La confusione aumentava, quella era soltanto una vecchia casa e niente di più. Addirittura, quella via era appena squallida, sporca, comune, non aveva niente a che vedere con le sue memorie e le sue ambizioni. Quella particolare finestra sul passato aveva prodotto in lui il desiderio di un futuro vago e remoto, ma splendente.
Si ricordava ben altro: il grigio appena scrostato della facciata, le crepe appena in rilievo, sotto ogni finestra grosse pitture raffiguravano antichi simboli, i piccioni continuavano a posarvisi, come facevano sul suo davanzale, e ogni tanto a qualcuno di loro riusciva una sortita in casa, dove si appollaiavano sui mobili antichi perennemente coperti da un sottile velo di polvere, sfioravano le spesse tende azzurre che si era spesso perso a fissare, per lunghe ore, nei giorni della sua infanzia; ovunque tracce di caffè, odore di tabacco, e l’aroma intenso di un profumo di donna, ricordi di grossi gioielli dorati, e l’anello.
L’anello. Quello, non era oro. Stranamente. Non lo immaginava così e questo lo stupiva, perché era naturale, più che logico che fosse d’oro. No, lo immaginava color argento, appena arrugginito, venato da leggere striature nere che ne denunciavano la vecchiezza e la noncuranza dei suoi precedenti possessori. Lui, invece, da quando l’aveva visto l’aveva chiuso in una piccola scatola, al sicuro, e qualche volta l’apriva solo per guardarlo, per controllare che ci fosse ancora. Poi, un mattino, la casa era vuota e lui si era alzato tardi, era una giornata di sole, il cielo azzurro non contava neanche una nuvola, niente disturbava la quiete potente dei raggi caldi, che a fiotti si riversavano nella casa. Si ricordava della sua gioia nello svegliarsi quella mattina, dei suoi gesti tranquilli per lavarsi e vestirsi, lentamente. Se ne ricordava con nostalgia, come si pensa a qualcosa di bello che si è perduto e non si sa come ritrovare, perché non ne si conosce l’origine. Tranquillo, si era diretto verso la sua camera, aveva aperto un cassetto, aveva aperto la sua scatola.
Un raggio di sole ne aveva illuminato il fondo, un brivido era corso per la sua schiena, l’anello non c’era più.
Il giorno dopo l’incontro sotto il portico buio era un martedì, lui la seguiva mentre lei camminava speditamente, tra le vie del centro. Era mattina presto, Alina portava lunghi stivali, come quelli che mettono le bambine quando vanno a giocare nel fango. I lunghi capelli mossi, castani, erano venati da striature dorate che ondeggiavano al ritmo dei suoi passi veloci.
La giornata autunnale era fredda, il cielo quasi del tutto bianco lasciava però spazio, a tratti, alla luce del sole, che si mostrava sotto le vesti di un sottile fascio luminoso e colpiva i muri delle case basse e colorate per poi rimbalzare e precipitarsi sulle panchine grigie della piccola piazza, e sulla chiesa antica, e sui volti di chi come lei camminava di fretta e non se ne curava. Lui era terrorizzato di farsi scoprire, ma Alina non accennava a voltarsi. Fu distratto dal suo vestito che continuava, sospinto da un timido vento, a oscillare rivelando e accentuando la forma delle spalle, che ampie, forti e un po’ inarcate preludevano alla schiena e alle gambe di lei. Si snodavano dritte e sicure fino agli stivali, e Alina continuava a camminare. Per poco non si fece scoprire, ma riuscì a tenersi a distanza – non doveva in nessun modo essere visto, non da lei – due passanti si accorsero dei suoi maldestri tentativi di nascondersi e il loro sguardo giudizioso provocò in lui una vergogna feroce. Fortunatamente Alina non svoltò per nessuna delle piccole vie, vuote e silenziose, che tagliavano la piazza orizzontalmente. Imboccò invece una via trafficata, le persone e la confusione l’avrebbero protetto, il suo cuore rallentò un poco il suo battito.
Rimase deluso, il suo inseguimento ebbe vita breve. Presto la vide scendere, rapidamente e con la testa bassa, le scale di una vicina stazione del metrò, e scomparire alla sua vista. Fece però in tempo a vedere il suo volto, riflesso in un vetro oscuro e opaco a lato delle scale. Quell’espressione lo tormentò tutto il tempo del suo ritorno a casa, che affrontò con passo lento e incurante, senza prestare attenzione a nulla delle strade che percorreva. Era un’espressione qualsiasi, ordinaria e quotidiana, forse un po’ triste perché i suoi occhi erano tristi, lei aveva gli occhi tristi. Provava un moto bruciante di invidia (non sapeva per chi o che cosa) e una rabbia insolita, perché non poteva ricordare di aver mai scorto, negli occhi di Alina, un’espressione simile, mentre guardava nei suoi e lui si perdeva, intento a scorgere chissà cosa, chissà quale altrove.
Per lunghi minuti questo pensiero lo accompagnò, per lunghi minuti ne fu quasi ossessionato. Forse perché in quello sguardo di Alina scorgeva una prova del suo fallimento, della sua impotenza; per questo passò il resto del tragitto a giustificarlo, a sminuirlo e ad opporgli dimostrazioni che impiegarono poco tempo ad apparirgli del tutto convincenti. Rientrò in casa quasi di buonumore, sollevato. Preparò il suo pasto in silenzio, e quando il piatto restò vuoto non aspettò neanche un minuto prima di sdraiarsi a letto e addormentarsi. Mentre dormiva, un ragno passò sul muro sopra la sua testa, ma questo – devo dirvi – in alcun modo turbò il suo sonno.
Altri giorni la seguì. Non riusciva a confessarsi perché lo facesse. Alina passava molto tempo a casa, e lui passava molto tempo appostato sotto casa sua, a domandarsi, anche, se lei lo vedeva e non gli diceva niente, incurante di tutto com’era. Quando Alina usciva di casa il suo cuore aveva un sobbalzo, ma non poteva resistere e cominciava a camminare, lentamente, fingendo per qualche passo di essere ancora indeciso, sentendosi per qualche passo in colpa, ma poi la figura di lei lo assorbiva tutto, e così il luogo verso cui camminava. Non pensava potesse tradirlo, questo no. Voleva sapere cosa facesse, forse visitava posti a lui sconosciuti, posti bellissimi e a lui sconosciuti. Nella realtà Alina andava a trovare delle amiche, andava a fare delle compere e niente di più davvero niente di più.
Era sempre insieme a lei, che lei lo sapesse o meno, che fossero sdraiati nudi sul letto, in silenzio, appena dopo fatto l’amore, o a qualche metro di distanza sui marciapiedi grigi di Milano. Erano sempre insieme. Una volta, mentre camminava, Alina si era fermata improvvisamente, come se avesse percepito qualcosa, una presenza alle sue spalle. Lui si era sentito scoperto, anche se lei dopo ancora qualche istante aveva ripreso a camminare, ma lui non poteva continuare: aveva rinunciato. Quando la bella figura di lei era scomparsa in lontananza, era tornato indietro, verso casa, sentendosi più solo che mai.
Senza fine continuava a perdersi da un pensiero all’altro, continuava a camminare imperturbabile e a non capire. Le facce che incontrava gli apparivano senz’anima, e tutto il giorno e la notte pensava a lei, ai suoi occhi e all’anello. Per lui non erano due cose distinte, due cose separate, ma forse una completava l’altra, o la implicava, in un girotondo che intrappolava la sua mente, la paralizzava e non le permetteva di concentrarsi, di vedere null’altro.
Alina l’aveva vista per la prima volta qualche anno addietro, e la sua immaginazione impaziente aveva trovato un mare profondo in cui immergersi. Grazie a lei, l’anello era riemerso dagli abissi della sua memoria, e i suoi pensieri ossessivi erano ricominciati. Ne era convinto, l’avrebbe aiutato a recuperarlo. Lei sapeva dell’anello prima che lui gliene parlasse, anche se alla sua rivelazione era rimasta stupita, confusa. Non capiva come un piccolo gioiello potesse essere tanto importante, ma non aveva impiegato tanto tempo per accettarne l’esistenza. Anche lei ne era affascinata in fondo, ma mentre lui si gettava a capofitto, senza pensare, nel pensiero dell’anello e nell’amore di lei, lei ne era spaventata come una bambina teme il buio, come tutti temiamo il buio dietro una porta che non abbiamo mai varcato.
Così, anche dentro i baci e gli sguardi malinconici, Alina continuava a nascondersi dietro un velo, faticosamente metteva a tacere i suoi sentimenti. In realtà, si sentiva preda di lui, vittima di un legame che non aveva deciso e che non era mai riuscita a riconoscere. Nei suoi occhi chiari non si celava uno sguardo insensibile, al contrario, era uno sguardo appassionato, ma distante, e nascondeva paura e codardia. Alina rifiutava il pensiero dell’anello e si allontanava da lui. Non c’era momento in cui la ragione potesse confortarlo, perché ragione voleva dire niente Alina, niente Alina e niente anello. Continuava a sentire, sentire e basta, e fare finta di ragionare di conseguenza. La sua mente era intollerante a qualsiasi altra opzione.
È vero, quel sentimento lo sconvolgeva, lo prendeva alle fondamenta del suo essere, lo costringeva a chiudersi in se stesso e lo inchiodava a lei, alle sue maniere antiche, alla sua faccia immobile. In qualche modo, la potenza della sua emozione rendeva la stessa più sfumata, forse meno reale. Quel sentimento era avido di impressioni, di passeggeri stati d’animo, di convinzioni fragili come castelli di carta.
Il pensiero dell’anello era sempre continuato. Anche quando Alina era stata sua, si era concesso appena un attimo di distrazione prima di tornare a sentirne la mancanza. Anzi, l’aveva percepita più forte che mai. Ben presto era tornato a cercare l’anello negli occhi di lei, in quegli occhi impalpabili aveva cercato tutta l’intensità dei suoi pensieri, tutta la sua gioia perduta. Forse gliene aveva parlato troppo presto, sottovalutando quello che per lei quella confessione poteva significare.
Ascoltando il suo racconto, Alina aveva fatto l’unica cosa che riusciva a fare. L’aveva seguito senza neanche pensarci, ma cautamente aveva mantenuto le distanze, stando però attenta che lui non se ne accorgesse, che non ne fosse mai sicuro. Mentre lo seguiva sulla via delle sue ossessioni, si guardava continuamente indietro, attenta alla strada fatta, e avanti, timorosa del futuro. Così, insieme, si erano messi a cercare il gioiello; avevano pensato, cercato di colmare le falle nella memoria di lui per arrivare ad indovinare dove potesse essere l’oggetto scomparso.
Sarebbe inutile da parte mia esporre i vari colloqui, i vari pomeriggi che avevano speso in silenzio, a guardarsi negli occhi e interrogarsi su quell’assurdo mistero – in seguito l’assurdità di quei momenti l’avrebbe consolato dalla perdita di lei, non si riconosceva nell’uomo che era stato, lo giudicava pazzo e questo gli permetteva di prendere le distanze da quello che era successo, e di dirsi che non sarebbe potuto essere altrimenti.
Infine, l’anello non poteva essere che nella sua vecchia casa. Forse era rimasto in qualche angolo buio durante tutto quel tempo, o forse i nuovi proprietari l’avevano trovato e conservato, rilegandolo tra mille altri in una gioielliera o in una scatola come la sua. Molti pomeriggi era rimasto immobile davanti quel cancello, tentando di non pensare al disgusto che ormai quel posto sembrava suscitargli. Più tempo passava in quel luogo più non lo riconosceva; a tratti, per pochi secondi, lo possedeva la tentazione di entrare, varcare quella soglia, ma immediatamente presentiva un futuro rimorso e si frenava, arrestandosi con le dita strette al cancello, che continuava a immaginare diverso.
Nei mesi passati davanti quella porta aveva avuto modo di osservare la famiglia che occupava ora casa sua, e ne conosceva a memoria tutti gli orari, tutte le abitudini. Era una famiglia molto comune, una coppia e due figli. Di sera uscivano assai raramente, di giorno in casa c’era sempre qualcuno. L’unica possibilità di trovare l’appartamento vuoto era il venerdì, quando tutti i membri della famiglia si concedevano un’uscita al ristorante.
Così, il venerdì seguente lui e Alina sarebbero entrati nell’appartamento, avrebbero avuto tempo di frugare ogni spazio in cerca dell’anello. Da una settimana non pensavano a altro.
Il giorno prima dell’atteso evento i due amanti erano sdraiati sul letto della stanza di lui. Era un pomeriggio languido, il sole si era svegliato dal suo abituale torpore autunnale e aveva deciso di rischiarare la città, spandendo su di essa la sua luce leggera. Non sarebbe durato a lungo, perché i tramonti da qualche giorno si presentavano in anticipo, e la sera arrivava prima e così anche quell’interregno che precede l’ora della cena, che è il tempo dei pensieri malinconici, sottili e dolorosi. I due amanti erano immobili, nudi e solitari, persi entrambi nei propri pensieri distratti, guardavano con noncuranza la luce che discendeva fuori della finestra. Il volto di Alina era in quella penombra il volto di una santa. Distogliendo un attimo lo sguardo dal cielo lui posò gli occhi sul viso di lei, sentì il suo amore più forte e la sentì più distante che mai. Alina si accorse del suo sguardo, e del dolore nei suoi occhi, e guardandolo intensamente sembrò volergli chiedere scusa. Forse fu per quello che non aspettò nemmeno che il buio scendesse del tutto a coprire la loro vista, sopra la città malata, rendendola irriconoscibile e oscura, prima di rivestirsi frettolosamente, mormorando qualche scusa, senza guardarlo più. Lui l’accompagnò alla porta e cingendola con un braccio, per salutarla, si fece serio e le disse solo: – Ti amo ancora, lo sai. – Alina si costrinse a sorridere, lo baciò e gli voltò le spalle, scese le scale lentamente e con fare incerto, come un ubriaco che si è promesso di non cadere.
Erano le sette della sera, la casa era finalmente rimasta vuota, la famiglia felice si era attardata più del previsto, impegnata a prepararsi per la cena. Alina vedeva per la prima volta quella casa, e la osservava avidamente, forse sperando di trarne una rivelazione. Lui, invece, stringeva la mano di lei, quasi dimentico di quello che stavano per fare. Per la prima volta la casa gli appariva come se l’era sempre immaginata, persino i particolari, i dettagli che a forza di fantasticare aveva aggiunto alla sua memoria, persino quelli poteva adesso vederli nella splendida facciata, nei balconi che si snodavano eleganti e completavano l’edificio bellissimo, il cancello era tornato brillante, promessa di un futuro felice.
Il tempo di aprire il cancello senza farsi notare – fu Alina a farlo, usando la copia delle chiavi che si erano procurati – il tempo di percorrere l’androne, di percorrerlo in punta di piedi, e introdursi all’interno e salire le scale sempre lentamente, ma forse meno di quanto avrebbero voluto per l’emozione che ora avvolgeva entrambi, lei e lui che tenendosi per mano continuavano a salire e si fermavano davanti alla porta di legno – era ancora come se la ricordava, era ancora lei – finalmente insieme e felici, felici un attimo prima, prima del tempo. A lui il compito di girare la chiave nella serratura, si era quasi dimenticato dell’anello, guardava solo la porta, la serratura e con cura – anche se gli tremavano le mani – inserì la chiave e lentamente girandola quattro volte si trovava adesso senza ostacoli sul suo cammino, solo la maniglia ma poi nemmeno quella, perché la porta era già aperta, e in un attimo fu dentro.
La casa era buia, si respirava odore di pulito, nessuna traccia di polvere, tabacco o caffè. Ma forse si erano sbagliati, dovevano essersi sbagliati perché la casa non era quella, i suoi occhi si erano adesso abituati all’oscurità e poteva distinguerne la conformazione. Tutto era cambiato e niente era come se lo ricordava, la vista dei mobili nuovi e lucenti e il profumo che esalava dal pavimento brillante gli fecero girare leggermente la testa. Scambiò un’occhiata con Alina, che appariva disorientata, e silenziosamente cominciarono a cercare.
Le mani che già si agitavano frenetiche nella ricerca si paralizzarono dopo pochi secondi.
Si era sbagliato, la casa non era del tutto oscura. Dall’ultima stanza, oltre il corridoio, s’irradiava un flebile, tremolante bagliore. Ci si diresse lentamente, i suoi passi non producevano eco mentre camminava.
Non si aspettava di vedere quello che effettivamente vedette. Appena arrivato in fondo al corridoio, fu costretto ad arrestarsi per la sorpresa, e non osò entrare. All’interno della stanza, alcune candele rilucevano nel buio e si riflettevano sui mobili, che lui conosceva bene, non erano cambiati dall’ultima volta che era stato li. Tutto era uguale, quella era la sua camera.
Uno spettacolo macabro – qualcosa di assolutamente inverosimile, ma reale senza possibilità di scampo – stava davanti ai suoi occhi. Cinque uomini stavano in piedi e lo osservavano. Erano vestiti di nero dalla testa ai piedi, mantelli neri cingevano le loro figure e nere maschere nascondevano i loro volti. Immobili, si erano disposti a cerchio e lo fissavano seri. I loro corpi vibravano di una minaccia sotterranea, impercettibile. Il silenzio era assoluto.
Quando una cosa tanto illogica si presenta davanti a noi e pretende di essere un fatto, è naturale creder di sognare, e tuttavia lui non lo pensò nemmeno per un istante, sapeva di essere sveglio, che era sveglio e che lo guardavano. Di scatto, tese una mano dietro le proprie spalle per sentire la presenza di Alina, per trovare rifugio nel suo contatto, insieme avevano camminato fin quella porta. Le sue dita non incontrarono corpo umano. Allora, lentamente, si voltò e non la vide, Alina non era più con lui. Guardò ancora le maschere, i loro volti erano coperti per intero, fatta eccezione per gli scintillanti tondi delle pupille, che brillavano nell’oscurità. In una delle maschere, la più lontana da lui, in fondo alla stanza, credette di riconoscere gli occhi di lei. Ma non poteva giurarci, il buio non permetteva certezze. Era da solo, Alina poteva nascondersi dietro quella maschera, o semplicemente essersene andata. Non lo avrebbe mai saputo.
Quella notte, la città era stranamente movimentata. Mentre nella vecchia casa avevano luogo gli strani fatti che ho raccontato, più in basso la strada era piena di persone; chiacchieravano, si affollavano all’ingresso di un bar, s’ubriacavano e urlavano. Nell’appartamento di fianco al nostro, invece, la scena era decisamente meno mondana.
Un attore di teatro piuttosto noto sedeva ad un piccolo tavolo tondo, sopra il quale era posata, accesa, una vecchia candela, che una fiamma vivace stava inesorabilmente consumando. Per il resto, l’oscurità era quasi totale, è solo con l’ultima luce del giorno che riusciamo a vedere il volto di quest’uomo, un volto triste e spigoloso, quello del clown che si svela a luci spente. Non era solo: un uomo grassottello sedeva al tavolo con lui, e lo guardava sorridendo. Quest’uomo era un giornalista, ed era lì per un’intervista. Nonostante non lo desse a vedere, era in realtà perplesso da quell’atmosfera lugubre e romantica, e dagli occhi dell’attore. Fissi sul tavolo, pieni di vuoto.
L’intervistatore, che al contrario dimostrava nel suo volto grasso e cordiale una certa disposizione al buonumore, aspettava di poter porre le sue domande. Aveva fretta di concludere, era sempre stato un perfetto lavoratore e conosceva l’importanza di quell’intervista, la fama dell’attore era incrementata a dismisura negli ultimi mesi. Da tutti chiamato Principe per via di una sua presunta (e presumibilmente falsa) origine altolocata, egli era un ottimo attore, fin dalla gioventù aveva calcato i teatri più importanti, affrontava ruoli comici e drammatici con uguale disinvoltura e, una volta in scena, i personaggi di cui vestiva i panni sembravano prendere vita propria. Era in realtà questa la sua più grande capacità, quello in cui eccelleva, e cioè il fatto che sopra il palco la sua personalità sembrava eclissarsi per lasciare il posto al carattere sfaccettato delle sue maschere. Ultimamente, tuttavia, essendo il teatro un’arte tanto nobile quanto poco pagata, si era trovato costretto ad arrotondare il suo guadagno, arruolandosi senza difficoltà in numerosi film di medio o basso livello, ma di straordinario successo.
Così si era ritrovato improvvisamente famoso, mentre camminava per la strada non era più libero come un tempo e anche ora, a dire il vero, una piccola folla riunita sotto l’edificio tentava, col capo rivolto in alto, di spiare ciò che accadeva nella piccola stanza.
L’attore diede un’occhiata verso il basso, verso quel gruppo che l’osservava. Gli astanti in trepidazione videro il suo movimento e riuscirono per la prima volta a distinguerne il viso che la luce della candela non era fino quel momento riuscita a rivelare. Eccitati tutt’a un tratto, alzarono la mano in segno di saluto. L’attore non diede segno di voler rispondere, anzi li guardò seri e rivolse finalmente lo sguardo sul suo intervistatore. Poi, inaspettatamente, sorrise, e il giornalista capì da un suo gesto che il suo interrogatorio poteva finalmente avere inizio. Sorridendo radioso, sistemandosi rapidamente il nodo della cravatta, iniziò a parlare:
– È contento lei oggi, Principe?
– Io? No.
– Perché?
– Perché ognuno ha la sua croce, anch’io avrò qualche croce. Croci intime, croci che tengo nascoste, che la gente non sa. Ma tutti le abbiamo.
– Certamente, ma qualche volta lei potrà anche non essere triste, no?
– No, la felicità non esiste. La felicità non esiste, in nessun modo.
– È assoluto nel suo giudizio, Principe.
– Si, sono assoluto. Nessuno è felicissimo.
– Non ha mai trovato lei un momento di soddisfazione particolare?
– Effimero, dei pochi momenti, dei pochi minuti, ma poi… no.
Stupito e deluso da quest’inizio così poco promettente, il giornalista tentava di approcciare il mesto attore per un’altra strada, prendendola alla larga.
– Stiamo facendo un discorso piuttosto filosofico, è vero Principe? Uno strano discorso, soprattutto se consideriamo che al di fuori dei finestrini ci sono gli ammiratori che si assiepano, che sono intenti a scrutarle sul viso, appunto, i segni della celebrità.
– È perché vedono l’attore superficialmente, non sanno quello che sta dentro all’attore.
– Lei pensa frequentemente queste cose, Principe?
– Sempre… sempre.
Quale guaio dover riportare parole tanto tristi e che sfortuna per quell’allegro cronista che di certo non presagiva tanta malinconia, ma pur incespicando sulle parole doveva tentare:
– E… e non si da mai un momento di… diciamo così, di superficialità? Quei momenti, così, di riposo intellettuale che un uomo ogni tanto si deve concedere?
– No, questo no. Io penso sempre, sono un pensatore, penso la notte, il giorno, sempre… sempre. E penso che in fondo non siamo niente, nessuno.
– Non siamo niente nessuno?
– Nessuno, nessuno è niente.
– Allora non vale lottare, Principe? Non vale…?
– No. Vale il lottare per… per gli altri, per rimanere qualche cosa agli altri.
– Lei lascerà qualche cosa Principe?
– Io no, non lascio niente come non lascia niente nessun attore, perché noi vendiamo delle chiacchiere.
Il presentatore tornava all’attacco, senza prendere fiato, mentre l’intervista si avviava verso la sua conclusione.
– Principe permetta la lusinga ma lei ha costruito tutta una particolare mimica, una particolare interpretazione, una particolare storia personale.
– Si, si… e ma a che cosa serve tutto questo? Un falegname è più di me, un falegname lascia una sedia che può vivere nei secoli, io lascio delle parole che tra una generazione non se le ricordano più. Diranno: “di chi è quella? Ah, quella si”. Qualche volta la indovineranno. Ma poi, tra cento anni chi li conosce più? Chi li sa più? Cosa abbiamo lasciato noi? Cosa lasciamo?
di Pietro Anzani
Mi avete regalato una pausa esilarante!
Grazie.
Bellissimo racconto
piaciuto molto molto
Grazie per avermi fatto pensare a ‘’ cosa lascero’ ‘’ …
Complimenti P. Anzani… bravissimo!