Ti ho vista indossare l’abito più bello e guardarti allo specchio, con il polso piegato e la mano alla spalla. Ti ho vista sorridere al tuo riflesso, passarti il rossetto alle labbra e schioccarle. Ti ho vista passare lo smalto sulle unghie, soffiarci sopra e ripassare il pennello. Ti ho guardata che alzavi la cornetta e chiamavi un taxi, ti spruzzavi qualche goccia di profumo sul collo e fumavi una sigaretta bevendo un goccio di vino – vino bianco, gewürztraminer, il tuo preferito. Ti ho vista ridere sul taxi, scendere in Moscova e pungere il cemento con i tacchi. Ho visto quelle scarpe e mi son detto guarda, le usa ancora. Te le avevo regalate io, quelle scarpe, e quando hai aperto il pacco mi hai sorriso, hai detto le cercavo da una vita e mi hai baciato sulle labbra, mi hai appoggiato una mano sui pantaloni e io sono venuto nelle mutande. Ti ricordi? Eri stata via una settimana, e io avevo promesso non mi masturbo, te lo giuro. Quella sera eri felice per le scarpe, e anche nel vedermi eiaculante ma sincero, fedele al giuramento.
Ti ho vista bussare alla porta della villetta di Silvana, e ho visto Silvana che veniva ad aprirti, tu che le porgevi una bottiglia di vino e lei che diceva che carina, Fede, non dovevi e tu che rispondevi dai, ci mancherebbe, ti pare? Ti ho vista entrare nel soggiorno e salutare gli invitati, e ho visto i loro sguardi inseguire le tue natiche, i tuoi glutei danzare nel vestito, incatenati al dondolio dei tacchi sul parquet. Ho visto che prendevi una tartina brie e noci e ho pensato che non mi piaceva che mangiassi formaggio. Chi sa perché. Pensavo non fosse sexy mangiare formaggio. Chi sa perché. Pensavo non fosse il massimo per una signorina, soprattutto i formaggi forti, quelli più odorosi, più fragranti. Non mi piaceva l’idea, chi sa perché. Quando uscivamo a mangiare una piadina, in quel posto che ti piaceva tanto, tu ordinavi sempre quella cotto, brie e salsa rosa, e io borbottavo, e tu dicevi non rompere i coglioni, allora stavo zitto e mi guardavo intorno con aria offesa.
Ti ho vista che mangiavi una tartina brie e noci e l’affogavi con un goccio di vino – vino bianco, gewürztraminer, il tuo preferito. Era la bottiglia che avevi portato tu, l’avevo vista prima, che la porgevi a Silvana mentre lei diceva che carina, Fede, non dovevi. Ora lo fai anche tu eh? Portare alle cene qualcosa che piaccia a te, prima che agli altri. Mi ricordo quando dicevi cosa prendi il gin che piace solo a te, e io rispondevo e certo, a me deve piacere. Poi arrivavamo alla cena e tu dicevi al proprietario ma no, non ringraziarlo, tanto lo beve solo lui. Ora lo fai anche tu eh? Porti la tua bottiglia di gewürztraminer e fai finta che sia per tutti, e pian piano la finisci, bicchiere su bicchiere. Allora qualcosa te l’ho insegnato anche io eh. Pensavo che l’insegnamento fosse univoco, tu che spiegavi, e io che imparavo, poco alla volta, piano piano. E invece qualcosa te l’ho insegnato anche io, in fondo.
Ti ho vista che parlavi con Luca, in cucina, e che lui ti presentava un uomo, e che quell’uomo era alto, coi capelli neri e gli occhi azzurri. E per un attimo mi è sembrato di vedere il desiderio nei tuoi occhi. C’era lui che ti diceva sono stato alla mostra di Basquiat l’altro giorno. L’ho trovata bellissima. Lui poi ha un tocco così ruvido e al tempo stesso così dolce, e tu ti scioglievi a sentirlo parlare del tuo artista negro preferito, oh sì, io lo adoro. Penso che nei suoi quadri traspaia tutta la sua infanzia complicata, e lui che annuiva, mordicchiando una tartina brie e noci, assolutamente, poi anche le droghe devono averlo influenzato – oh sì, è come se gli avessero aperto gli occhi verso altre dimensioni, vero? Già, piccolo genietto allucinato, talentuoso negro in overdose; però quando io fumavo uno spinello ero un povero depresso, no? Quando mi ubriacavo alle tue cene ero un povero misantropo, no? Hai sempre adorato i tossici che ti stavano lontano.
Ti ho vista che parlavi con quell’uomo alto, i capelli neri e gli occhi azzurri, e ho pensato di essere lì con te, in cucina, ho sperato di essere con te, ho pregato di essere con te. Mi sono visto lì, insieme a te e a quell’uomo alto, col mio bicchiere di gin che avevo sempre a quelle feste. E mi sono visto appoggiato al frigorifero, che ascoltavo cosa dicevate. Poi ho visto lui che si avvicinava, che allungava la mano al ciondolo che porti al collo – quello d’oro, che t’ha regalato tuo padre – e allora mi sono visto che prendevo un coltello dal tagliere, ho visto lo scatto del mio braccio verso il suo, ho visto il sangue schizzare sul tuo seno e imbrattargli la camicia, i suoi occhi aprirsi di paura e di stupore, e il coltello abbattersi al suo collo, la sua bocca gonfiarsi di sangue e la sua gola aprirsi sul mio polso, sputare bile scarlatta sul mio orologio, mentre il suo corpo si appiattisce al frigorifero e scivola lentamente verso terra. Ho guardato la mia mano calare sette volte al suo torace, il coltello crivellargli il petto, i suoi occhi riempirsi di sangue e le sue labbra spalancarsi alla ricerca d’ossigeno. Ho ascoltato le tue grida, ti ho vista con le mani fra i capelli, e il trucco che colava sulle guance, gli occhi rossi come i suoi, ma di lacrime. Ti ho vista gridare perché? sei pazzo! perché?, e poi correre in soggiorno, a chiedere aiuto, col tuo abito più bello gonfio di sangue.
Poi ho aperto gli occhi e tu eri ancora lì. E anche lui era ancora lì, con il tuo ciondolo fra le mani, mentre tu gli spiegavi me l’ha regalato mio padre. È un ideogramma cinese, significa principessa. Lui mi chiamava così quando ero piccola. Avevi detto la stessa cosa anche a me, sette anni fa, e io ti avevo detto ah sì? mio padre mi chiamava stronzo, t’è andata bene. E tu avevi riso, per la prima volta, con quelle fossette che ti aprivano le guance dolcemente.
Vi ho visti avvicinarvi, tu e quell’uomo alto, e ho avuto un brivido di nausea. Poi ti ho vista guardare la tua borsa vibrare, e voi due che tornavate a un metro di distanza. Ti ho vista estrarre il cellulare, l’avviso di chiamata sconosciuta, rispondere con voce incerta e ascoltare il silenzio all’altro lato del telefono. Ti ho vista dire a quell’uomo alto, i capelli neri e gli occhi azzurri, che continui a ricevere chiamate anonime, non so chi sia, rispondo e non sento nulla. Ho rimesso il cellulare in tasca e ho sperato che qualcuno venisse a dividervi, e che non vi avvicinaste di nuovo. È arrivata Silvana e ha detto che in tavola c’era la torta, e di venire in soggiorno. Ti ho vista prendere una bottiglia dal tavolo e versarti un bicchiere. E poi un altro, e un altro ancora. Ti ho vista con le guance rosse avvicinarti barcollando a quell’uomo alto, i capelli neri e gli occhi azzurri. E ho pensato che allora di cose te ne avevo insegnate due. Ed eri ubriaca come lo ero io al primo incontro, sette anni fa. E dopo averti baciata con l’alito di gin, ti avevo detto mi sono ubriacato per trovare il coraggio, perché la sbornia attenuasse la timidezza. E tu mi avevi detto che cosa stupida, però ora lo facevi anche tu eh, e ridevi sbronza alle battute di quell’uomo alto, e allungavi le tue mani ad accarezzargli il collo, e le tue unghie smaltate a graffiargli la pelle, come graffiavi la mia schiena, quando facevamo l’amore sotto le lenzuola. E ho pensato che allora te ne avevo insegnate due di cose.
Vi ho guardati seduti sul divano, tu e quell’uomo alto. E poi ho visto lui che si alzava, e ti salutava con un bacio sulla guancia, e salutava tutti gli altri con un cenno della mano. Ho visto Silvana che lo accompagnava alla porta e si scusava per il tuo comportamento, e diceva di solito non è così, non so cosa le sia preso, ha bevuto troppo.
Ti ho vista tirare fuori il cellulare dalla borsa, e chiamare un taxi. Ti ho vista alzarti barcollante dal divano, con le gambe che si incrociavano sui tacchi, e Silvana che ti teneva per un braccio. Ti ho vista salire sul taxi e Silvana che diceva chiamami quando sei a casa, fammi sapere come stai, e tu che ridevi e dicevi sto bene, non vedi?
Ti ho vista arrivare a casa e non riuscire a infilare le chiavi nella porta. Ho visto le chiavi che cadevano per terra e tu che ti sedevi con la schiena contro l’uscio e la testa fra le mani. Poi ti ho vista riprovare e ti ho vista entrare in casa, finalmente. Ti ho vista lanciare la borsa sul tavolo, stenderti sul divano e sfilare i tacchi. Ti ho vista massaggiarti i piedi stanchi, e andare al frigorifero scalza. Ti ho vista piangere, ubriaca, cascare per terra e ridere, aggrapparti alla maniglia del frigorifero e scivolare, strapparti i capelli e attaccarti di nuovo alla bottiglia. Ti ho vista accendere una sigaretta e guardare le foto sbiadite delle polaroid, sbattere la testa contro il tavolo e vuotare il bicchiere. Ti ho guardata accendere la tele, stringerti la pancia e correre in bagno. Ti ho vista con la testa dentro il cesso, una mano sulla tazza e l’altra a stringere i capelli, dietro la schiena. Ti ho vista tornare in salotto e sdraiarti sul divano, con un panno d’acqua fredda in testa, sulla fronte, gli angoli dei capelli sporchi di vomito, le guance rosse.
Ti ho vista stare male e ho avuto paura. Mi sono alzato in piedi per guardare meglio, e ho visto il tuo sguardo nel mio, i tuoi occhi sorridere e le tue labbra incresparsi. Ti ho vista alzare la cornetta del telefono, e ho visto le tue dita scivolare sulla tastiera. Mi sono seduto di nuovo, dietro i cespugli, ho preso il cellulare in mano e ho aspettato l’avviso di chiamata sullo schermo. Ho guardato lo schermo rimanere nero, e ho pensato che forse avessi sbagliato numero. Mi sono alzato in piedi, di nuovo, e ti ho vista sdraiata sul divano, la tua bocca aprirsi nel sonno, e ho immaginato di essere lì, nel tuo soggiorno, ad accarezzarti il volto e massaggiarti i piedi stanchi. Ho pensato che sarei rimasto lì, a guardarti, per tutta la notte, fino a che non ti fossi alzata. E poi ti avrei chiamata. Ti avrei chiesto come stavi, se potevo fare qualcosa per te, se avevi bisogno del latte, o della frutta. E poi ti avrei fatto una tisana calda, come quando avevi mal di testa, e io ti portavo la tazza bollente a letto, e tu mi ringraziavi con voce flebile.
Poi ho visto due fanali, le luci rosse e blu della volante oltre i cespugli, un agente che si avvicina e mi dice alzati, abbiamo ricevuto una chiamata, ha violato l’ordinanza restrittiva.
Ti ho vista all’ingresso, in camicia da notte, le braccia incrociate e il volto scuro. Ti ho vista dire sì, è lui, annuendo con la testa. E ho visto le tue dita arricciarsi in un saluto, mentre una mano mi premeva sulla testa e il mio collo si abbassava oltre la portiera.
Avrei voluto gridare, correrti incontro e inginocchiarmi. Avrei pianto, battuto i pugni per terra, mi sarei strappato gli occhi pur di non vederti condannarmi!
Cristo! Come puoi anche solo pensare che io possa farti del male? Dopo sei anni di amore, di devozione, di abnegazione! Come puoi condannarmi, quando io per te farei di tutto? Come puoi rinnegarmi, quando io per te rapinerei, picchierei, torturerei, sevizierei, violenterei, ammazzerei – solo per il tuo divertimento! Il tuo diletto, la tua gioia! Solo per tuo ordine! Ucciderei anche me stesso, se solo lo desiderassi un istante! Come puoi condannarmi, Federica? Come puoi farmi questo?
Ricordo ancora che ti leggevo Il giocatore, sotto le lenzuola, e tu che mi guardavi, con la testa sul cuscino. Molte volte ho avuto una voglia irresistibile di picchiarvi, di sfregiarvi, di strangolarvi. E che credete, non ci arriveremo? Voi mi porterete fino al delirio. Credete che tema uno scandalo? La vostra ira? Ma che me ne importa della vostra ira? Vi amo senza speranza, e so che dopo vi amerò mille volte di più. Se un giorno vi ucciderò, dovrò certo uccidermi anch’io; ebbene, cercherò di uccidermi il più tardi possibile, per sentire tutto quell’intollerabile dolore senza di voi. Sapete una cosa incredibile? Io vi amo ogni giorno di più, e sì che è quasi impossibile. E dopo questo non dovrei essere fatalista? Vi ricordate, l’altro ieri, sullo Schlangenberg, vi bisbigliai, provocato da voi: dite una parola, e io mi getterò in quell’abisso. Se allora aveste detto quella parola, mi ci sarei gettato. Davvero non credete che mi ci sarei gettato?
Avevo chiuso il libro e ti avevo guardata. Se tu me lo ordinassi, ora, mi getterei da ogni dove, da ogni rupe, da ogni ponte. Basterebbe un tuo cenno, te lo giuro. Sono il tuo Aleksej, Polina. Tu mi avevi guardato e ti eri messa a ridere, non ti butteresti nemmeno da una sedia per me. Allora ero sceso dal letto, ero andato alla finestra, avevo aperto le persiane e avevo appoggiato un piede sull’infisso. Un tuo ordine, Fede. Un tuo ordine e mi getto. Te lo giuro. Tu avevi riso di nuovo, ti eri sfilata le mutandine e me le avevi lanciate. Vieni qui, Aleksej, non fare lo stupido.
Paolino Diaz
meraviglia =)
stupide ossessioni!
bel racconto… mi piace come è scritto e il peso asfissiante che trasmette
scrittura interessante…. complimenti a Diaz
un’ambiguo stalker angosciante
molto bello
un folle direi….come Diaz! ah ah ah ah Però uno scrittore davvero bravo