Piccola premessa. Ascoltando in anteprima il nuovo album dei Tedio provo un certo imbarazzo. Perché questo disco, “Black Shapes“, mi è arrivato all’inizio dell’anno e pur conoscendo il potenziale di questa band, ho trascurato l’ascolto per una serie di questioni private, piccole crisi interiori da manuale, almeno così pensavo in un primo momento, si sono poi trasformate in un lungo strascico elefantiaco di squilibri emotivi. Ma come si dice, ognuno ha i cazzi suoi. Quindi basta menarsela. Quel che è stato è stato. Ora, ascoltandolo più e più volte, ma in realtà già dal primo ascolto, mi sono reso conto di quanto questi brani mi avrebbero aiutato all’inizio dell’anno.
Il secondo stato d’animo che mi ha pervaso dopo averlo assimilato è un granitico stupore per la complessità liquida, la stratificazione dei suoni lanciati all’assalto in soniche ondate che alternano delicatezza e violenza. Ma non parlo della violenza dura e pura, spesso convenzionale, di un muro di chitarre incattivite per seguire il cliché di un genere. Parlo di un flusso che sembra vivere di vita autonoma, un sali e scendi simile a un moto ondoso, che non graffia per il gusto di graffiare, di stupire, piuttosto gli artigli vengono fuori quando l’urgenza lo richiede, mai a caso, mai gratuitamente.
I riferimenti ci sono, i Tedio si muovono in questo mondo rarefatto d’ombre, popolato dallo shoegaze, dal post rock e dal post grunge, ma queste coordinate si perdono come granelli di sabbia lunare in un cratere, grazie all’impronta estremamente personale del disco.
L’impressione è che queste canzoni non siano state scritte, arrangiate, levigate e programmate. Penso siano le composizioni più lontane da quello che si può definire “un lavoro a tavolino”.
Queste canzoni sembrano vivere di vita propria, come se la bordata creativa avesse, lei stessa, trascinato i musicisti in un gorgo introspettivo che pur vivendo nell’oscurità, ambisce palesemente alla luce, alla grazia evocativa di un elevazione spirituale.
Ok, facciamo un passo indietro. Anzi, un passetto laterale. Fatico a gestire le parole, perché mi rendo conto, se devo essere intellettualmente onesto, che io per primo sono scettico quando leggo recensioni troppo pompose o enfatiche. Siamo esseri sospettosi, noi bipedi, respingiamo spesso i consigli, i giudizi altrui, le critiche, e, appunto, le recensioni enfatiche. Rimane il fatto, concreto anche se non tangibile, che avrò scritto negli ultimi quattro anni, più o meno un centinaio di queste pseudo recensioni e raramente mi sono trovato di fronte al binomio di una maturità artistica completamente sovrapposta a un mondo interiore così sfaccettato, in grado di trascinare un qualsiasi ascoltatore che abbia anche solo un briciolo di empatia, in lande abissali e suggestive.
Emerge dal lavoro una fragilità autentica e già questa è una peculiarità rara in un modo di ruderi umani sorridenti, questo gioco dei sorrisi forzati e delle canzoncine speculativamente spensierate, diciamocelo, ha fatto il suo tempo. Questo è un argomento che porto incastrato nel muscolo cardiaco da molto e che trovo, da educatore che sono, estremamente pedagogico, e ringrazio i Tedio per darmi l’occasione di ripeterlo: la fragilità è completamente antitetica alla debolezza. È invece strettamente proporzionale alla capacità di rigenerarsi, di autoassolversi dai propri, presunti limiti. Che siano psicologici o biologici.
Ma basta pippe concettuali.
Per me, che sarò pure l’ultimo degli stronzi, questo, è il disco dell’anno. Ma probabilmente del biennio, triennio o che cazzo ne so io. Della voce che interpreta le canzoni non dico volutamente niente. Si commenta da sola. E poi che cazzo, provate ad ascoltare, ad ascoltare anche solo le prime due canzoni di questo lavoro, e poi provate a trovare aggettivi per descriverla. Io faccio un passo indietro, perché la scoperta è vostra, che magari non li avete mai sentiti e decidete di avventuravi in questo microcosmo sotterraneo che sono i Tedio.
Lorenzo Scala
gran bel pezzo