Tallest Man On Earth @Alcatraz (Milano)

Un concerto tra ballate romantiche, capolavori onirici, salti e danze alternati a atmosfere malinconiche e talvolta ipnotizzanti..

I 65 minuti di ritardo del treno ci fanno spaventare. Non si poteva correre il rischio di stare lontani dal palco per un’occasione del genere. Il folk, nel cuore del mese di ottobre, è sbarcato a Milano, all’Alcatraz.
Il concerto è andato sold out e questo sicuramente ha tranquillizzato il nostro folletto svedese, che può ben sperare di avere un ottimo riscontro anche per le date italiane previste per il prossimo anno a Torino, Roma e Bologna.

L’opening act è affidato all’americano Phil Cook, che esegue una scaletta di una decina di pezzi intrisi di country, blues e influenze fusion. Lui stesso ammette di essere stato influenzato da grandi jazzisti e bluesmen quali Bill Evans, Bruce Hornsby e il chitarrista Ry Cooder, ed è anche rintracciabile, in alcuni pezzi, il netto sound country dei Creedence Clearwater Revival .
Suona per poco più di mezz’ora e rimane seduto su una sedia per tutta la durata del live. Il suono della sua chitarra è proprio del blues anni ’60, ’70: leggera distorsione, leggero riverbero e una predilezione per i toni bassi. Non usa mai il plettro, suona sempre con le dita e in un paio di canzoni, prerogativa di ogni bluesman che si rispetti, utilizza uno slide di vetro.
Alla fine del live, ammette di essere in giro da una ventina di anni, nonostante le sue produzioni siano molto recenti, il suo secondo album “Southland Mission”, infatti, è datato settembre 2015 e si congratula con il pubblico italiano perché si preoccupa delle due cose fondamentali della vita, il cibo e la musica.
Lo ritroveremo, un’oretta dopo, allo stand di vendita dei cd.

 

Alle dieci in punto sale sul palco “l’uomo più alto del mondo”, il folletto di un metro e 67, lo svedese Kristian Matsson.
Tallest Man On Earth è di sicuro tra i migliori interpreti della scena folk moderna.
Spesso, forse anche per troppo tempo, è stato accostato a Bob Dylan, con il quale condivide sicuramente la variabilità compositiva e la particolarità della voce. Reiterare ora questo accostamento sarebbe un’eresia.
Nei primi cd, si fa spazio, anche se non prepotentemente, anche una sorta di blues molto emozionale e quasi “sussurrato”, in particolar modo nei live, simile per certi aspetti a quello di Woody Guthrie, mentre nell’ultimo si fa spazio un folk-rock molto più corale e “da stadio” alla Bruce Springsteen, come in “Darkness of the Dream”.

L’allontanamento dallo stile folk classico di Dylan, che già si avvertiva nella terza fatica discografica “There’s No Leaving Now”, ora con “Dark Bird is Home” si fa più palese e concreta che mai, nonostante scelga come primo pezzo in scaletta, e questo è un colpo di scena che ha del paradossale, una cover di un suo pezzo, “Moonshiner”, come a voler rivendicare le sue origini e a chiarire il suo genere di appartenenza.
Dispiace dirlo, ma questo cd a tratti non sembra neanche un disco folk, ma si avvicina più all’indie. Chiaramente non va presa come una caduta di stile del cantautore, o come un passo falso, ma sempre come una evoluzione musicale. Chiaramente, quello che ne esce fuori può tanto piacere quanto non piacere. Il paragone con i Mumford and Sons, che qualcuno ha osato fare, nonostante per alcune canzoni sia (debolmente) giustificato, risulta essere vicino ad un insulto; non si può commettere il drammatico errore di mettere sullo stesso piano uno dei pionieri dell’ondata new folk e una band che oramai non è altro che un erogatore di canzoni da postare su Facebook per rimorchiarsi le 96.
Sicuramente questo non è l’album migliore di Matsson, che negli anni passati ci ha abituato a ben altro, soprattutto con le prime due uscite “Shallow Grave” e il capolavoro “The Wild Hunt”. Questo è un cd che va visto in un’altra ottica, con una predisposizione diversa, altrimenti si finisce per odiarlo.
La novità più grande sta nella decisione di essere accompagnato da una backing band, una band di supporto. “The Tallest Man” non è più solo, né in studio, né tantomeno sul palco, ma viene accompagnato da musicisti polistrumentisti (il secondo chitarrista suona anche il violino, il bassista suona anche il sax e il tastierista suona anche la pedal steel guitar).
L’impressione che questo cd dà è quella di essere un album totalmente concepito in studio e prodotto nel modo più minuzioso e attento possibile, quindi meno spontaneo e “ruvido”, un’impressione che però viene diluita durante il live di Kristian e compagni, che invece hanno una grande capacità di trasporto e carisma. Lui stesso, in un’intervista rilasciata alla radio Kexp di Seattle (la potete trovare su YouTube), ammette di essere stato fortunato ad aver trovato dei musicisti non solo eccellenti dal punto di vista esecutivo, ma empatici e con cui riesce ad esprimere sé stesso nel migliore dei modi. Il mio iniziale scetticismo è stato spazzato via nello stesso momento in cui hanno iniziato a suonare.

Una cosa è fuori discussione, lui è un animale da palcoscenico. Possiede tutto ciò che è congeniale ad una star della musica internazionale di successo. È tecnicamente un mostro; non sbaglia mai una nota, neanche al piano, che non è sicuramente il suo primo strumento; ha una voce particolarissima, graffiata e molto estesa; scrive testi poetici e quasi “paesaggistici”, con riferimenti frequenti ai prati, al cielo e agli uccelli, ai fiumi, alle montagne e all’oceano, una stilistica super-evocativa che cattura; mettendo da parte per un secondo le sue connotazioni musicali, è innegabile che sia la persona adatta a stare al centro dell’attenzione di tutti. È un grillo leggermente hipster, salta sempre da una parte all’altra del palco nei suoi strettissimi pantaloni neri che non arrivano alle caviglie. A volte sembra che galleggi nell’aria. È molto autoironico, e questo già lo si può cogliere dallo pseudonimo che ha scelto; ripete un paio di volte che vorrebbe suonare seduto su una sedia, ma non lo fa altrimenti qualcuno dalle ultime file non riuscirebbe a vederlo.
Un simpaticone.

La sua scaletta conta 21 pezzi, 19 più 2 di encore.
È una scaletta che non sacrifica dei pezzi magari un po’ misconosciuti scelti al posto di alcuni altri un po’ più noti, e talvolta meno meritevoli. Si nota, infatti, l’assenza di “Wind and Walls” , “There’s No Leaving Now” o “Leading Me Now” o “I Won’t Be Found” per far posto a veri capolavori quali “Little Nowhere Town”, perla di “Dark Bird is Home”, suonata al piano da Kristian stesso; “Revelation Blues”, eseguita insieme alla band e il cui finale diventa un incanto di suoni e luci in cui alla sua “diavoletto” elettrica si aggiunge una chitarra slide piena di eco; la fantastica “Where Do My Bluebird Fly” ,direttamente dal primo cd, eseguita con una chitarra elettroacustica e con l’aiuto del chitarrista di accompagnamento; e ”Criminals” (“Is For Badasses”)

E non potevano naturalmente mancare i grandi classici come “1904”, che nel live con la band di supporto, purtroppo, perde un po’ di valore, cosa che invece non è capitata per “King of Spain” che, sorprendentemente, è stata ancora migliore rispetto alla versione studio, in cui sono assenti batteria, seconda chitarra e basso; “The Gardner“, eseguita senza band cosi come la più famosa “Love is All“; “Wild Hunt”, eseguita con la band, è forse il momento più alto di tutto il concerto; e la bellissima “The Dreamer”, per cui il pubblico ha completamente perso la testa, eseguita con la band e con la guest star Phil Cook al piano.
Migliori performances dall’ultimo album sono, senza alcun dubbio, “Singers”, la title track “Dark Bird is Home”, anche questa con Phil Cook al piano e introdotta con un simpatico siparietto «..This is about a divorce, you shouldn’t clap…», “Timothy”, e la springsteeniana “Darkness of the Dream”. Punti deboli “Fileds of our Home” e “Sagres”, suonata, così come “Darkness of the Dream”, con una fantastica chitarra elettroacustica a dodici corde.

Ultime note da ricordare sono la cover di “If I Could only Fly” di Blaze Foley, che suona come una ninnananna che tutti ascoltano in religioso silenzio, e la chiusura definitiva del concerto, che spetta alla bonus track di “The Wild Hunt”, “Like the Wheel”, una chiusura corale, quasi gospel, di un concerto che ci ha trasportato nelle lontane lande verdi della Svezia per una intensissima ora e mezza, tra ballate romantiche, capolavori onirici, salti e danze alternati a atmosfere malinconiche e talvolta ipnotizzanti.

 

Alfredo Cannizzaro

 

Scaletta:

1 Moonshiner
2 Fileds of our Home
3 Slow Dance
4 1904
5 Singers
6 Darkness of the Dream
7 Timothy
8 Love is All
9 The Gardener
10 Thousand Ways
11 Sagres
12 If I Could Only Fly (cover Blaze Foley)
13 Wild Hunt
14 Relevation Blues
15 Criminals
16 Little Nowhere Town
17 Where do my Bluebird Fly
18 King of Spain
19 Dark Bird is Home

encore:

20 The Dreamer
21 Like the Wheel

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