“Springsteen on Broadway”: il racconto di una ‘corsa’ in musica

Recensione della documentazione audio dello spettacolo dei record del Boss al Walter Kerr Theathre, sulla 48° strada a New York. Uno Springsteen senza filtri, che canta versioni minimali, di pura emozione, delle sue canzoni

Harvest Moon” è la Luna d’autunno, quella che preannuncia l’inverno. In senso figurato, è l’età della maturità nella vita umana, quella che segnala l’inizio della parabola discendente, triste ma inevitabile. Arrivati ben oltre la “half mile of life”, è inevitabile guardarsi indietro e vedere cosa si è lasciati, con la saggezza e l’immancabile cinismo di chi ormai ne ha viste tante. Alle volte è un atto di una difficoltà estrema: l’amarezza può essere soverchiante, quasi soffocante, e quando il passato ti azzanna alla gola con le sue vampate sulfuree, tornare a voltargli le spalle ed a proseguire l’ultimo tratto di strada può diventare estremamente complesso. Ma alle volte, il racconto può essere una soluzione. Non è vanteria, né rivangare i bei tempi andati: è semplicemente un modo per continuare a tirare dritto, ed essere sempre “tougher than the rest”.

New York City, 48esima Ovest, numero 219. Il Walter Kerr Theatre è uno dei tanti che si affacciano su quella profonda cicatrice diagonale che è Broadway. Il luogo perfetto per sollevare in cielo la propria Harvest Moon, e lasciarla brillare nell’inquinamento luminoso della caotica metropoli. Deve averlo pensato anche Bruce Springsteen.
Ci risiamo: ancora una volta ha fatto come gli pare.

Dopo il trionfale tour di “The River“, che ‘doveva’ essere commemorativo (di fatto, si è stufato di riproporre l’esecuzione integrale del disco dopo una decina di date), il Boss ha deciso che doveva raccontarsi davvero, mettendosi a nudo, con tutti i pregi e i difetti di un uomo maturo. Una bella seduta dal suo specialista Younghiano (no, nessuna disgrafia, con buona pace del vecchio Carl Gustav: qua siamo lato Neil), e vai: ne nasce una splendida autobiografia (“Born to Run“), da cui viene tratto un concerto, che poi diventano due, poi duecentocinquantasei. Ma stavolta la E Street Band resta a spasso: qua c’è solo Springsteen e la sua vita. E il viaggio nelle sue Badlands può essere decisamente accidentato.

Il disco è teatro purissimo: per la prima volta, c’è la necessità di un canovaccio ben preciso («non ho mai lavorato cinque giorni a settimana, e non mi piace»), e non della spontanea caciara di un concerto rock.
Ogni dettaglio è intimo, viscerale, puro: a volte ironico (il «well done grasshoppers» quando il pubblico risponde «tre» alla domanda «quanto fa uno più uno» è favoloso), altre doloroso, come nell’angosciante riproporsi della depressione nelle pieghe del racconto, e dà vita a delle splendide versioni di brani già noti.
Una voce (due, se contiamo l’apporto sublime di Patti Scialfa in due brani) e una chitarra, alle volte sostituita da un pianoforte: nient’altro.
Qui sono le parole a contare, e a dimostrarlo è una straniante versione del suo brano forse più famoso e frainteso: “Born in the U.S.A.“, moda autunno 2018 (con tutte le implicazioni sociali del caso) diventa un blues anni ‘30 con una tagliente bottleneck ad inframmezzare il testo, che viene rabbiosamente declamato senza accompagnamento strumentale. Per la serie: “se non si capisce così…”.

Springsteen on Broadway” va ascoltato secondo per secondo, senza mai perdere la concentrazione. Fatelo, e vi aprirà il cuore e la mente.
A proposito: fatemi sapere se, quando in “Tenth Avenue Freeze-Out” ascolterete il Boss ricordare la sua spalla di sempre, Clarence Clemons, non vi si inonderanno gli occhi di lacrime. Perché penso che in tal caso dovreste rivedere il vostro concetto di umanità. Ci vediamo al prossimo giro, Bruce.

 

Federico Ciampi

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