“Sole Ingannatore” -Recensione

Una fiducia che acceca: storia di un regime totalitario

Nel 1994 nasceva in Russia una pellicola destinata ad ottenere grandi riconoscimenti ma che, forse, in Italia, non ha sortito la giusta risonanza. Eppure in quell’epoca, segnata da intensi rivolgimenti politici, nell’Est si faceva la storia: si dissolveva il colosso dell’Urss e sbiadiva, lentamente, il sole accecante dello stalinismo, non più barlume di salvezza per il suo popolo ma solo ombra nebulosa di una speranza disillusa. Ed è dunque un Sole Ingannatore  quello che ci disegna, con una grande regia, Nikita Michalkov, nostalgico cultore delle ambientazioni ottocentesche di ispirazione letteraria.

Nel suo percorso cinematografico Michalkov accosta, alle luci fioche di una borghesia provinciale, con le sue aspirazioni e frustrazioni melanconiche –che verranno duramente spazzate via dall’avvento della Rivoluzione Bolscevica– quella crudele realtà più vicina al suo tempo, denunciando aspramente gli orrori dello stalinismo.
Era iniziata con Krusciov la stagione di critica nei confronti del regime di Stalin, riportando all’attenzione le indicibili tragedie delle purghe staliniane. E Michalkov tenta di rivisitare quei tristi momenti della Storia Nazionale con l’agognata libertà dalla (auto)censura.

 

Sole ingannatore” –inneggiato a miglior film con maggiore originalità a ‘Cannes’ e vincitore del premio Oscar come “miglior film straniero“– ci riporta alla metà degli anni trenta, in un periodo prossimo alle purghe. Il regista riveste l’anticipazione del Grande Terrore con sapiente maestria: tutta la pellicola è percorsa da un’atmosfera di freschezza, vivacità e sentimentalismo, circoscrivendo la minaccia incombente di morte e persecuzione in una bolla di sapone.
Non può certo mancare il lampante riferimento alle immagini tipicamente cechoviane: il gusto per le impostazioni teatrali nei dialoghi e nelle sequenze, il tema dell’eterna incomunicabilità fra gli uomini spiccano durante tutto il film.

Il microcosmo familiare del colonnello Kotov –emblema mitico della Rivoluzione rossa– e della moglie Marusja, cristallizzato nella bucolica campagna russa, viene turbato dall’arrivo inatteso di Dimitrij (Mitja), amico d’infanzia della bella Marusja. Mitja, agente della polizia segreta, fa ritorno alla dacia dopo dieci anni senza una apparente ragione, ma è presto detto e la sua fasulla copertura viene smascherata: Mitja è stato incaricato di arrestare Kotov, non più eroe della Rivoluzione, ma ora bersaglio delle atroci uccisioni nelle purghe staliniane.

Impossibile non soffermarsi anche sull’aspetto più strettamente romantico del film: Marusja riconosce in cuor suo l’incapacità di conciliare due amori diversi. Il primo deriva dal consolidato matrimonio tradizionalista con un esponente dell’Armata Rossa, Kotov, amato e rispettato nella sconfinata dacia russa, esempio di forza ed eroicità. L’altro, il più radicato, si è insediato nella pudica giovinezza della sconsolata Marusja e ha lasciato una ferita profonda nel suo animo, forse insanabile.
Ma l’eterogeneità dei due caratteri maschili non discerne solo fattori puramente empatici: essi rappresentano due facce di una stessa società che si fa la guerra da sola.
Kotov ha sinceramente dedicato tutta la sua esistenza alla realizzazione di uno stato nuovo, favorito dall’incendiarsi di una rivoluzione, quella del ’17. Mitja, al contrario, simboleggia la generazione emergente di funzionari che esegue in modo meccanico –senza alcuno spiraglio di convinzione ideologica– le direttive di un regime dittatoriale e repressivo. Entrambi, dunque, sono parte integrante di uno stesso sistema che è mutato ed è culminato, tragicamente, nella (auto)distruzione di chi ha contribuito a fondarne le basi.

 

Qual è il significato del titolo? Il regista ci lascia ampia libertà di interpretazione. Eppure sembra inconfutabile l’accostamento, quasi la coincidenza perfetta fra il potentissimo dittatore sovietico e l’emblema stesso del sole accecante. Poco dopo il rapimento e il pestaggio sanguinolento di Kotov, infatti, assistiamo alla scena chiave e rivelatrice della pellicola: un’enorme quanto inquietante gigantografia di Stalin si innalza lugubremente nel cielo oscurando, quasi fosse un’eclissi, il sole.

 

Francesca Cordaro

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