Nel 2011 usciva quel capolavoro che è “The Tree Of Life“ di Malick, io mi ero appena lasciata con il fidanzato storico e mia sorella mi aveva convinto che dovevo vedere quel film. Dall’uscita del cinema fino alla macchina, ho bestemmiato tutti i santi, compresi i morti in comune con la già citata sorella, perché mi sembrava di aver sprecato ore preziose della mia già miserabile vita.
Come tutti i miscredenti, poco tempo dopo, sono stata folgorata sulla via di Damasco (in realtà era l’Appia, ma avrebbe reso meno l’idea). A Brad Pitt viene affidata una frase che mi torna in mente ogni volta che mi trovo di fronte a qualcosa che percepisco come superiore: «Volevo essere amato perché ero importante, un grande uomo, ma non sono niente. Guarda lo splendore intorno a noi, alberi, uccelli. Ho vissuto nella vergogna, ho umiliato lo splendore e non ne ho notato la magnificenza. Che uomo stolto».
Il 28 luglio sono andata a vedere il concerto dei Sigur Ros a Capannelle, ma poteva essere Reykjavik o un luogo oltre il tempo, dopo la seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino. Quello che so è che la band islandese ha diffuso “splendore” per tutto il tempo dell’esibizione e ho quasi reverenza, adesso, a commentare un live dal significato troppo privato per ognuno di noi presente.
Seguo i Sigur Ros dall’album inarrivabile “Ágætis Byrjun” e da allora ogni momento importante, ogni sguardo carico di promesse, ogni volta che ho sentito il cuore incrinarsi e poi essere curato da un nuovo sguardo, ogni volta c’erano loro come sottofondo.
Che posso dire a questo punto?
Il palco di Capannelle era sapientemente illuminato, contribuendo ad avvolgere lo spettatore ora in una foresta incantata, ora ad atterrirlo di fronte all’impeto di un mare in tempesta. La voce di Jónsi arrivava da qualche punto imprecisato dell’universo a noi sconosciuto, mentre continuava a percuotere la chitarra con un archetto. Il bassista Georg Hòlm disegnava un percorso magnetico con le corde e il batterista Orri Páll Dýrason pestava lo strumento in un ritmo quasi primordiale.
La setlist ha preso pezzi dall’ultimo “Kveikur“ (che tra l’altro ha dimostrato come i Sigur Ros sappiano sorprendere con un lavoro che è “altro” da quello che abbiamo sentito finora), da “Valtari“ (un’immensa “Varúð“) e da “Takk”(“Hoppìpolla“, tanto per dirne una, grazie alla quale ho scoperto che anche uno xilofono può essere emotivamente devastante). Ancora ha raccolto da “Með suð í eyrum við spilum endalaust“ (“Festival“) e dall’immortale “Ágætis Byrjun“ (“Svefn-g-englar“, che ascolti pensando che c’è ancora tanta bellezza nel mondo).
Ho pianto (sì, sì, proprio pianto con le lacrime che rotolano giù e il naso che cola) su “Olsen Olsen“, in uno dei tanti frangenti troppo personali per raccontarli. Io, che non sono credente, ho stretto la mano al mio attuale ragazzo e ho –boh..– pregato (?) che andasse tutto bene. Lo so, suona sciocco e superficiale, ma come ho detto, ci sono cose private che vanno conservate solo nei ricordi.
Il viaggio di stasera si chiude con “Popplagið“ dall’album “( )“, un finale monumentale che termina idealmente il cerchio delineato dai Sigur Ros, all’interno del quale c’è tutto -la vita, la morte, la paura, lo stupore – e al di fuori del quale c’è ancora molto da scoprire.
Non contenta di aver assistito all’esibizione dei Sigur Ros, il giorno dopo ritorno sul luogo del misfatto per vedere quella dei Blur, tanto per dare un colpo al cerchio della vita e l’altro alla botte del divertimento.
Va bene che sono nata per soffrire, ma ogni tanto famosela ‘na risata (per i non-romani, “facciamocela una risata”). E i Blur sono divertenti.
Il gruppo di Colchester mi ricorda nell’ordine: che nonostante una lavatrice ancora da fare, c’è sempre tempo per andare a un concerto. Che l’adolescenza non mi abbandonerà mai, nonostante la lavatrice ancora da fare. Quel ragazzo con cui ho avuto una brevissima storia (nel Mesozoico mi pare) e che assomigliava a Damon Albarn in maniera impressionante.
Capannelle è già piena quando arrivo, su Facebook ci sono le foto di Tizio con il biglietto in mano sugli spalti, di Caio con il biglietto in mano e una birra nell’altra, di Sempronio con il biglietto in mano che abbraccia Tizio e Caio. Conto almeno cento Paul Weller, duecento Agyness Deyn (con immancabile cappello in testa e leggins a righe verticali stile sbandieratore del Palio di Siena) e un numero imprecisato di Fred Perry.
Per fortuna certe cose non cambiano mai.
Alle dieci meno un quarto (ora prevista per l’inizio del concerto), l’Ippodromo è diventato una specie di serra dove poter coltivare orchidee e piante carnivore e siamo tutti talmente vicini che non so più se sto sudando io o quello accanto mi sta sudando addosso.
Finalmente salgono sul palco i Blur e immediatamente torniamo indietro di vent’anni. La prima canzone è “Girls & Boys“, che da subito mette in chiaro l’andamento della serata, un live scandito di grandi successi, di canzoni che ci hanno visti giovani, poi giovani e infine giovani. Perché quando Damon Albarn e compari suonano, il tempo sembra essersi fermato alla prima volta in cui Videomusic passò il video omonimo e io, quasi quattordicenne, pensai che un ragazzo così carino non l’avevo mai visto.
La scaletta propone diciotto brani tra tutte le tracce che compongono la loro discografia. Si balla tanto e si canta di più su pezzi come “Parklife“, “Country House“ e “Tender“. Durante quest’ultima i cori partono dalle prime note e continuano anche quando la canzone sembra stia per finire.
Si continua a sudare su “Coffee & TV“, a ondeggiare su “Trimm Trabb“ e saltellare su “Popscene“.
Il concerto finisce con “Song 2“, due minuti perfetti, puliti di gioia incontenibile durante la quale dal bar spruzzavano acqua sul pubblico. O almeno speriamo fosse acqua.
I Blur salutano e vanno via. Sono invecchiati –forse– e sì ..hanno preso qualche stecca, portavano un cardigan discutibile e delle infradito ancora più discutibili, ma a saperla fare un’esibizione come quella a cui ho assistito…
L’Ippodromo si comincia a svuotare, noi ci guardiamo in faccia, gli uni con gli altri, zuppi, con i capelli arruffati e, per due ore, siamo stati di nuovo “bambini”.
Il prossimo concerto, però, lo vado a vedere a dicembre.
Agnese Iannone