Questa RUBRICA parla di quel “consumo” incivile fatto da una società mercificata, la nostra; la stessa che qui prova a resistere con gesti locali e altre forme di autodeterminazione culturale (ispirati non di rado dal ‘mangiar e bere bene’)… mentre quel carrello della spesa si è smarrito in un momento di disattenzione del suo aguzzino
42 chilometri questa è la distanza media che intercorre tra un agricoltore e casa mia. 42 kilometri non è propriamente “zero”, e vale solo se considero la produzione di verdure comprate al mercato e con la dicitura “Prodotto in Italia -Categoria I o II”. Oltretutto se oltre alle zucchine, magari perché siamo solo vegetariani, dobbiamo aggiungere altre verdure in febbraio – che se va bene vengono dal Perù se non dalla Nuova Zelanda – il complessivo di Co2 che finisce allora nel mio piatto vegetale potrebbe essere molto più alto: circa 0,60 volte il peso della zucchina medesima. La Co2 è la cosa che produciamo di più a quanto pare, la produciamo ogni qualvolta facciamo un acquisto e in alcuni casi indipendentemente dalla nostra volontà e dalla nostra scelta. Ad ogni modo, 42 Km è una distanza accettabile dal mio punto di vista, e vi spiego perché.
Intanto ricordiamoci sempre che il cibo è fondamentale per la nostra vita. Sfido chiunque a dire il contrario. La fondazione della civiltà come già detto in un post precedente è basata sull’accumulo di cibo e la sua ripartizione. La forza dell’epoca imperiale è basata sul traffico di merci quali sale e pepe. Più sono rare e costose più una Nazione che le invia in ogni dove diventa potente. Sono evidenti i casi del sale per Venezia, il Té per gli inglesi, il caffè, lo zenzero e la cannella per i portoghesi, la noce moscata per gli olandesi…
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Il mondo è pressoché diviso in due, metà agricoltori e il resto cittadini. Il 50% della popolazione vive nell’85% del pianeta. Ma la quota di territorio coltivabile è abbastanza risibile: il 15% delle terre emerse, e di questo meno del 30% è realmente coltivato. La Cina sfama un quarto della popolazione mondiale con solo il 2% delle terre coltivate globali. Mentre il Giappone con buona dose di sforzo importa circa il 60% del fabbisogno agricolo dal pianeta non avendo modo di sfamare tutti.
Detto tra noi, la mancanza di risorse è una bufala. Cioè non proprio, le motivazioni sono meramente di stabilità economica fintanto che il costo di produzione delle risorse agricole è in mano alle Multinazionali: i prezzi dunque spinti verso il basso (dicono calmierati) e a favore della distribuzione. Tutto ciò, come volevasi dimostrare, è regolamentato in una maniera a dir poco folle.
Il Costo di Produzione è dato da: terreno (noleggio o acquisto), semenze, produzione, raccolta, consegna al grossista o vendita, e il lavoro su questi. Le semenze sono in teoria auto producibili, la produzione richiede mezzi e lavoro, la rivendita richiede un mercato. Che si tratti di zafferano, che richiede molto lavoro con un prezzo altissimo, o lenticchie o colza… delle quotazioni di mercato decide l’acquirente, che non siete certo voi cittadini ma l’industria stessa e la “Grande Distribuzione Organizzata” (GDO). Pertanto nel meccanismo di prezzo il vero arbiter è la grande distribuzione. Considerate che in base al rapporto di produzione esiste un mercato azionario che prevede le quotazioni di warrant e garanzie sui raccolti. Un mercato azionario e di scommesse presso la Borsa di Londra: quindi io posso garantirmi che fra due anni il prezzo del cioccolato del Ghana sia pari a 1,23 pounds/libra (sto tirando un prezzo a caso..) e garantirmi dunque il raccolto indipendentemente dal risultato reale.
Poi c’è il Sistema di Controllo Statale che propone finanziamenti a favore dell’Agricoltura per non fare produzione. Si dice sia per non far crollare i prezzi ma anche in questo caso una sovra-produzione di beni agricoli potrebbe tranquillamente regolarsi da sola, come i liberali amano dire. Ed è la dimostrazione pratica che non c’è un reale problema di carenza di risorse ma di gestione dei mercati. La GDO impedisce un reale scambio di merci tra città e agricoltori imponendo vincoli, oltre che buste di plastica, certificazioni a pagamento e semenze specifiche… Ci inducono a mangiare quello che decidono loro e i fondi di Wall Street. Il caso più evidente è quello del “Mais typeB”; negli Stati Uniti ad esempio vengono finanziati non poco i produttori di mais – con semenze Monsanto sterili: vengono prodotte milioni di tonnellate di questo mais.. che per giunta non è adatto al consumo umano. Questo mais (come la soja e altri prodotti simili) è infatti geneticamente modificato al fine di non subire malattie e di non generare nuove semenze, tuttavia è talmente pregno di pesticidi che non è adatto al consumo umano. Umano no, ma se con solerzia e fantasia è trattato può divenire altro: saccarosio, alimenti per animali, strani impasti di carne, polpette vegetali, benzina verde, snack, persino materiale edile… Un altro caso sono i gamberetti e il riso ‘Basmati‘ provenienti dal continente indiano. Per avere un doppio raccolto di entrambi, le risaie indiane sono colmi di azotante che gonfia enormemente i gamberetti cresciuti negli stabilimenti alla foce del fiume, che per di più sono anche ricchi di arsenico. Il cortocircuito è totale: il 15% delle importazioni di riso Basmati in Italia è tossica (tant’è che viene regolarmente sequestrata), mentre dei gamberetti -non so perché- arrivano i surgelati e nessuno controlla mai cosa c’è dentro (comunque se qualcuno mi spiega perché comprate il Basmati nel primo Paese al mondo produttore di riso superfino – vedi le qualità Carnaroli, Venere, Arborio, Vialone Nano, Ribe, Maratelli – ve ne sarei grato, insomma datemi un perché… non vi capisco).
In sostanza la necessità di profitto delle compagnie di distribuzione ha prodotto un corto circuito. Il prezzo di produzione del cibo deve essere basso, a favore dei prezzi di costo più alti di tutto quello che serve per produrlo più velocemente… e distribuirlo in maniera creativa. Ma sui costi grava il prezzo di produzione chimico, quello del petrolio, quello delle assicurazioni, mai una volta che si parli di lavoro.
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Per continuare ad analizzare queste situazioni sul pratico, parliamo di qualcosa che voi tutti conoscete: il pomodoro. La produzione italiana di pomodoro dovrebbe esservi chiara? Ne siete convinti?
Il pomodoro – fonte Monitor Ortofrutta 2015: «L’Italia è tra i leader di produzione in termini quantitativi, ma al primo posto troviamo la Cina con il 31% di quota; insieme a India e Stati Uniti. L’Europa continentale rappresenta il 13% dei quantitativi mondiali, con oltre 20,9 milioni di tonnellate, di cui l’Italia detiene il 23,5%, seguita dalla Spagna con il 17,6%. Dall’elaborazione dei dati Istat sui dati italiani si registra negli ultimi anni un decremento strutturale. Le superfici sono passate infatti da oltre 30.000 ettari dell’inizio millennio a circa 22.000 nel 2012. Stesso trend negativo per le produzioni in quantità, che sono passate da circa 1,5 milioni di tonnellate del 2000 a meno di un milione nel 2013. Da notare che la quota di produzione sotto serra è cresciuta dal 36% dell’inizio del millennio a quasi il 50% solo nel 2015. Dal punto di vista geografico, la Sicilia guida le produzioni con oltre 380.000 tonnellate (34% del totale Italia). Segue il Lazio con il 14% della quantità di cui ben il 77% è rappresentato da produzione sotto serra. Al terzo e quarto posto troviamo la Campania (12%) e la Puglia (11%); Il 2015 è stata un’ottima annata dal punto di vista della produzione del pomodoro da industria che ha raggiunto le 5,4 milioni di tonnellate (+15% rispetto all’annata precedente) sviluppate su 83.746 ettari. Stando ai dati elaborati da Ismea su fonte Nielsen, nella distribuzione moderna, compresi discount e negozi nel 2015 le passate sono state il prodotto più impattante delle conserve con il 34,6% segue Sughi UHT con il 24,8% di quota e un trend positivo del +3%, le polpe con il 20,8% e i pelati con il 10,7%».
A fronte di 20.000 ettari (in calo costante) di produzione alimentare destinati al fresco e casalingo (circa 9 kg a testa) abbiamo 83,000 ettari di produzione industriale, con oltre il 50% in serra. E cosa compriamo? Polpe e sughi già fatti! Con quote in aumento. Vi aggiungo che dal 2008 ad oggi le nostre esportazioni che erano positive per un 25% del fatturato complessivo (circa 4 miliardi di euro) oggi è pari all’10% del fatturato, a fronte di un’importazione di circa il 26% dei prodotti industriali. Cioè in negativo del 10% – quindi chiudiamo terreni e compriamo all’estero – cioè esportiamo pomodori freschi di serra e di lusso e importiamo un quarto di pomodori industriali. Inoltre, è da tenere presente che il prezzo medio al consumo è cambiato da 1,18 euro del 2014 ai 2,30 per kg, sul fresco. Il che non è reale… quello in serra viene venduto a circa 4,00 euro per kg, mentre quello in conserva o Uht circa 1,00 al Kg. Quindi compriamo da Cina e India a basso prezzo ma vendiamo più caro al consumatore… che nel mentre ha perso 10,000 ettari di produzione (e quanti operatori del settore?).
Ma chi lo produce? Il pomodoro ha visto drasticamente scendere il prezzo di acquisto, in media del 25% (colpa la crisi), e l’aumento dei costi distributivi (benzina, assicurazioni, stoccaggio…). Comunque da una media di 18,00 euro al quintale siamo scesi a 12/13 per quintale (prezzi tratti da Quote Ismea/ortofrutticoli ingrosso).
Ebbene, se io guadagno 13 euro per quintale come faccio a pagare la mano d’opera? Lasciamolo fare ai cinesi che ‘non percepiscono reddito’, chiudiamo le nostre aziende (il calo delle produzioni è sempre più rapido) o facciamo tutto al nero con schiavi che attraversano il mare. Quello che mi scoccia non è il fatto che il pomodoro venga fatto dai cinesi o dagli indiani, ma che approfittando del prezzo più basso da noi non si riconosca il lavoro del nostro vicino di casa! Il quale vive a 42 chilometri… e che magari in città ci veniva a fare acquisti o per prendere qualcosa che producevo io. Ora mi tocca lavorare per i cinesi che sono i miei agricoltori di fiducia… ma so per certo che non vengono retribuiti abbastanza per pagarsi qualsivoglia cosa faccia io.
Va bene, ci penserà la GDO a farmi campare? Io ci credo poco. Sia io che la mia compagna ogni giorno percorriamo 46 chilometri lei e 48 io, solo per andare in ufficio. Lei, con l’impianto a gas, io con il trenino e la metropolitana. Facciamo per quello che è possibile attenzione a non sprecare acqua, cibo, energia e a smaltire tutto correttamente. Ma anche noi mangiamo e alle volte andiamo a fare la spesa, ed indipendentemente dalla nostra volontà torniamo a casa con un enorme quantitativo di polistirolo, plastica, pet, carta trasparente, cartone cartoncino, scontrini fiscali, o meno, oggetti non riciclabili e spesso ingombranti. Cerco di usare aceto, limone e soda, per le pulizie, olio di oliva e sale e poco la chimica… dovrei ritenermi insomma un’ambientalista, ma così non è. Dov’è l’orrore? Io non sono un contadino, mio nonno lo era, io non lo sono, e da cittadino non mi è ben chiaro come possa fare..
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Scrive Antony Bourdain in “Medium Raw” (Feltrinelli 2010) su Alice Waters di Sloow Food America: «A conti fatti, vorrei che il mondo fosse proprio come lo desidera Alice. Una cittadina sulla collina, o molte cittadine sulle colline, circondate a perdita d’occhio da una splendida campagna, da piccole, vivaci aziende agricole a conduzione familiare, in cui fosse coltivata frutta biologica di stagione e sostenibile, in terreni su cui pascolassero liberamente animali sani, felici e privi di residui antibiotici che restituiscono merda inodore perfettamente sana per la catena alimentare… Mense scolastiche dove ogni giorno fossero serviti pasti sani equilibrati e biologici, cucinati da lavoratori felici. Vorrei che gli agenti di cambio, i broker lasciassero i loro grattacieli e tornassero ai campi. E tutto assomiglierebbe a Berkeley o all’Italia. Non alla vera Italia ma all’Italia dell’etichette del vino. L’Italia delle commedie romantiche, dove solitarie, melanconiche, divorziate finiscono per essere gioiosamente trombate da vigorosi giovani tuttofare che indossano bandane intorno al collo, dove i contadini calpestano con i piedi nudi gli acini d’uva. Se aveste possibilità di trascorrere un po’ di tempo in Italia… sapreste che non è la vera Italia», ecc…
Ma voi sapete com’è l’Italia..? Perché allora gli americani ci vedono diversamente? Perché noi le risorse ce l’abbiamo, e io il contadino che coltiva senza pesticidi, a 42 Km, lo conosco davvero: si chiama Fabio, e conosco sua moglie Marianna, sono pure andato a trovarli per la comunione della primogenita. Ebbene, quella famiglia è oggi in difficoltà, meno di me, ma lo è, e quando poi gli hanno proposto di venire a Roma per fare la vendita diretta lui l’ha fatto. La mattina alle 4 si armava di furgone e portava a Roma le sue cose. Le vendeva allo stesso prezzo del supermercato se non meno; poi però al mercato non ci andava così tanta gente, i permessi venivano aumentati da tariffe e carte bollate, e quelli del ‘certificato Bio’ gli hanno detto pure che doveva usare dei prodotti chimici, ma lui non voleva sentir cazzate del genere… Un bel giorno il mercato l’hanno chiuso… cosi, per farci un parcheggio. Fabio ha pensato che quelli del Comune di Roma dovessero crepare di tumore e mangiarsi le loro carte bollate o chiedere cibo alle Multinazionali. Ora lo vado a trovare e mangiamo assieme qualche volta, ma Fabio a Roma non ci torna più. Così è per tanti che il cibo, il vino e tante altre cose le fanno, ma a cui noi non diamo ascolto. Se preferite spendere 800euro per un telefonino al ‘mangiare bene’ è sinceramente un problema vostro. Ricordatevi nondimeno che ogni volta che comprate un prodotto delle Multinazionali ammazzate a poco a poco la figlia di Fabio, vostro figlio e anche un vostro collega… se lavoro ne avete ancora. Dovreste piuttosto pretendere che il cibo che vi danno è buono qualitativamente e oggettivamente poco inquinante, che sia giusto (perché compensa chi lo fa) e pulito (perché non ci sono mafie dietro). Di Fabio ce ne sono ancora tanti, varrebbe la pena dargli una mano… perché in fondo loro sono i nostri vicini e stanno sulla stessa barca… a Km Zero.
Daniele De Sanctis
Grazie Daniele. Anche questo post fa riflettere con tanti spunti…. davvero interessante e giusto!
Dovremmo iniziare ad educare tutti a boicottare le multinazionali in favore degli agricoltori locali
sarebbe l inizio di una grande rivoluzione. ma ci credo poco …….. la gente ormai parla solo e poi fa quello che gli hanno abituato a fare da sempre …… una lotta senza speranza :(((
tutto dipende dai profitti della gdo … vi rendete conto? la nostra salute non dipende da politiche economiche basate su protocolli nutrizionali e volti al benessere, ma volti al guadagno delle lobby
splendido articolo, chiaro per smascherare i veri processi dietro quello che ci FANNO mangiare !
voglio un mondo alla Alice Waters !!!!!
TANTO ANCHE I CONTADINI LOCALI METTONO ROBACCE SUI CAMPI
E FARE LA SPESA DA LORO COSTA ANCHE MOLTO ….. LA QUESTIONE NON E’ SEMPLICE
BELLA RUBRICA
concordo,essendo io una persona che si fa l’orto…….
Io ancora non lo faccio, ma corro dal primo ortolano che ho a tiro….qua per fortuna ancora tanti e con i privati che non hanno partita IVA , ci scambiamo le cose come un tempo. Mio padre(artigiano delle pelle) faceva zaini e scarponi da campagna in cambio di provviste, quando non c’erano contanti a sufficienza.
Come volevasi dimostrare: http://newscdn.newsrep.net/h5/nrshare.html?r=3&lan=it_IT&pid=14&id=Gt971b8448d_it&app_lan=it_IT&mcc=222&declared_lan=it_IT&pubaccount=ocms_0&showall=1
Grande Daniele!!!!
Stretta attualità a quanto pare
A roma hanno chiuso il mercato di circo massimo di campagna amica e non si sa se lo riapriranno.
uno schifo
chiaro il corto circuito! vergognoso!
dobbiamo scegliere assolutamente la filiera corta,ne va della nostra sopravvivenza in tutti i sensi
Grazie per questo articolo davvero illuminante, ottimo elenco di argomentazioni per chiunque combatte questo sistema malato dell’alto profitto ad ogni costo