Rossellini restaurato a Bologna

Un film che ha consacrato il cinema italiano a livello internazionale

Immaginate di tornare indietro nel tempo e vedere sullo schermo del “cinematografo” uno di quei film che hanno consacrato il cinema italiano ad arte a livello internazionale, parlo di “Roma Città Aperta” di Roberto Rossellini.

 

Il 3 luglio questo ritorno al passato è stato possibile.

In occasione della XXVII Edizione del festival Il cinema ritrovato“, che si sta svolgendo a Bologna dal 29 giugno al 6 luglio in Piazza Maggiore, promosso dalla Cineteca di Bologna (che si intreccerà con il cartellone estivo di “Sotto le stelle del cinema“, il programma di quaranta serate che sempre la Cineteca allestisce gratuitamente nella piazza principale della città), in occasione di una serata-evento verrà proiettato il capolavoro di Rossellini, in versione restaurata.

Il restauro della pellicola è stato realizzato dal laboratorio della Cineteca di Bologna, “L’Immagine ritrovata“, a partire dal negativo originale ritrovato nel 2004 e conservato presso la Cineteca Nazionale, e rappresenta il culmine del Progetto Rossellini, promosso da “Istituto Luce Cinecittà“, Cineteca di Bologna, CSC-Cineteca Nazionale e Coproduction Office.

 

In “Roma Città Aperta“ Rossellini scende nelle strade, tra i vicoli di una città afflitta dalla guerra, ma in cui la gente, il popolo, ancora resiste. È considerato il manifesto del Neorealismo, e non a caso il regista sceglie due attori “popolani”, Anna Magnani nel ruolo di Pina (inimitabile e che grazie a questa pellicola diventerà celebre in tutto il mondo) e Aldo Fabbrizi, che interpreta il parroco locale don Pietro.

Nonostante le riprese fatte in condizioni precarie, e la pellicola scaduta, Rossellini è riuscito a lasciarci un affresco di una Roma (simbolo dell’Italia intera) sventrata, violata e usurpata nel cuore dei suoi antichi fasti.

 

Realizzato durante i primi mesi del ‘45, il film ritrae le macerie fisiche e morali dell’Italia postbellica, senza che siano necessarie ricostruzioni o studi di ripresa (Cinecittà era stata praticamente distrutta): sono i volti della gente a parlare da soli, sono le rovine dei palazzi, delle strade invase dal polverone e dal disordine dei primi mesi dopo la cessazione della guerra, a lasciarsi catturare dall’occhio della telecamera che insegue le vicende dei personaggi.

Tra questi vi troviamo “sora” Pina. Essa è il prototipo della popolana dal forte temperamento, generosa e dotata di uno spirito caritatevole e fraterno; Pina è forte, matura, volitiva, pragmatica e intraprendente. Pina sembra convogliare su di sé la volontà dell’intero popolo romano, di cui interpreta con estrema efficacia i valori antifascisti: è a Pina, che Rossellini affida l’unica battuta antifascista dell’intero film: «Quando uno vede quelli là te viè ‘na voja de daje armeno ‘na borzata ‘n faccia!».

La scena centrale del film è la corsa e l’uccisione di sora Pina dietro al camion che porta via il marito catturato dai tedeschi. La sua morte ha un forte valore allegorico: divincolatasi dalla morsa di un tedesco (con un «vammoriammazzato» che –come scrisse Silvano Castellani– «toglie il respiro e rimane nell’aria, tragicamente, come una condanna definitiva») corre, incurante del pericolo, per cercare di salvare il suo compagno venendo immediatamente crivellata. La sequenza continua con il corpo senza vita di Pina tra le braccia di don Pietro: come non rivedere in quest’immagine la trasposizione cinematografica della “Pietà“ michelangiolesca, una Pietà contemporanea e a ruoli invertiti.

 

Con “Roma Città Aperta“ è stato coniato il termine di Neorealismo, non solo per le soluzioni tecniche che portarono alla realizzazione del film, ma per il nuovo modo con cui il cinema raccontava l’uomo: non si guarda più alla storia individuale bensì alla storia collettiva. I nuovi protagonisti del cinema sono i partigiani, i reduci, le donne che soffrono, la povera gente che aspira a vivere in pace.

Rossellini a proposito del suo modo di fare film dichiarò: «Siccome non c’erano i mezzi, allora si sono dovuti adattare ai mezzi di cui disponevano, ed è nato il neorealismo, cioè la verità: i muri veri, la gente vera, lo zozzo vero ecc… NO, è stata invece una scelta proprio chiarissima e determinata, perché questo l’ho fatto, ho cercato di farlo e l’ho fatto prima di arrivare a Roma Città Aperta. La verità vera è questa: che il rito del cinema si celebrava nel tempio del teatro di posa. E il teatro di posa era nella mani del padrone del teatro di posa, il quale per autorizzarti ti faceva pagare quello che voleva lui. E allora siccome si stava colla smania della fotografia assoluta, ente perfetta e il panfocus e le cose e le cosine ecc…, io ho rifiutato tutto questo. La cosa più importante per me era dire le cose che volevo dire».

E le ha sapute dire bene, tanto che ancora oggi si ascoltano!

Katia Valentini

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