«… E di più se avessi scorso la Gerusalemme Liberata sapresti che non coll’Uffizio della Madonna ma con grandi fendenti di spada e spuntonate di lancia il buon Goffredo tolse dalle mani dei saracini il sepolcro di Cristo». Ippolito Nievo – “Le confessioni di un italiano”
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La guerra è certamente ed inequivocabilmente l’abisso terreno dell’uomo.
Con l’andare dei secoli ci siamo figurati l’Inferno in modi diversi, tutti accomunati da sofferenze e dolori indicibili.
Dante nella “Commedia” lo immaginò incandescente, tinto da colori fortissimi e riempito da grida strazianti. Herman Melville in “Moby Dick” invece se lo figurò gelido, bianco come gli eburnei ghiacci polari e silenzioso come il capodoglio che emerge e solca l’oceano.
Le guerre rappresentano il parossismo della violenza, chiunque abbia avuto occasione di riflettere sulla storia e sulla politica non può non essere consapevole dell’enorme ruolo che la violenza ha sempre svolto negli affari umani. Dalla cavalleria ai carri armati, dalla clava alle bombe nucleari la storia dell’umanità non ha mai deluso chi identifica nella guerra un possibile mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali o, talvolta, intestine.
Il mondo greco con i suoi filosofi, con la sua intelligenza e cultura non è mai riuscito ad estirpare la malapianta della violenza.
Atene e Sparta hanno visto perire i figli migliori in battaglie cruente, la grandezza di Roma e l’espansionismo imperiale hanno avuto bisogno di spade lorde di sangue per affermarsi e consolidarsi attraverso il respiro lungo dei secoli.
Ed oggi la storia si ripete, dinanzi ai nostri occhi scorrono immagini di devastazione e morte. Come nel passato uno Stato sovrano ne invade un altro violando accordi e trattati internazionali. A fare questo solitamente sono i governi autoritari e dispotici dove la distribuzione del potere è assente o fittizia, dove tutto si concentra nelle mani di uno solo o pochissimi oligarchi e non v’è nulla che possa trattenere le “smanie” belliciste di quei pochi o, talvolta, di uno solo.
Ci ritroviamo in guerra dopo settantasette anni di pace, tranne il focolaio del conflitto nei Balcani, l’Europa aveva quasi dimenticato l’urlo dei cannoni e la paura imminente di morire. Le generazioni nate dopo il Secondo conflitto mondiale non sanno cosa sia il rumore della guerra, lo conoscevano i nostri nonni o bisnonni, l’odore del sangue e il sapore acre dell’angoscia, la fame che acceca e offusca la mente. Tutto questo lo abbiamo letto e studiato nei libri di storia ma ora la storia si è tramutata in narrazione del presente.
Ancora una volta aveva ragione il filosofo materialista Thomas Hobbes quando asseriva che: «I patti, senza la spada, non sono che parole». Se pensiamo che proprio nella colta Europa si sono scatenati i due maggiori conflitti, siamo spinti a credere che i conti tornano e che quella attuale altro non sia che un capitolo dello stesso romanzo.
Ci eravamo illusi che i conflitti combattuti con armi convenzionali fossero un’anticaglia, un reperto archeologico custodito nelle teche della storia novecentesca e invece, ancora una volta, c’è qualcuno che compromette il bene inestimabile della pace nello Stato di Diritto per cercare illusori paradisi, per esaudire desideri di riappropriazione geopolitica. I dieci milioni di morti della Prima Guerra Mondiale e i cinquanta milioni della Seconda, passando attraverso due genocidi (Armeni ed Ebrei), sono stati accantonati dall’ennesimo tiranno che la storia ci presenta.
D’altra parte anche allora si meravigliarono evocando lo spettro di Napoleone Bonaparte le cui campagne militari lasciarono sul campo circa quattro milioni di vittime e saccheggi di ogni sorta, dalla Spagna alla Russia, transitando per l’Italia ovviamente. Parliamo di un periodo storico dove la potenza degli eserciti non era paragonabile a quella odierna e la fissione dell’atomo ancora lontana.
Un ulteriore e decisiva riflessione riguarda appunto la potenza distruttiva delle armi nucleari. Oggi, ma già a partire dagli anni cinquanta, l’uomo ha la capacità di autodistruggersi nell’inferno atomico.
Il timore dell’annientamento reciproco e totale riuscì a congelare le superpotenze nelle dinamiche della guerra fredda, ora pare che neanche questo riesca a distogliere l’attenzione dall’esercizio della violenza. Una delle poche lezioni certe e costanti che possiamo trarre dalla storia è che violenza chiama violenza, non solo di fatto ma anche, ed è ancora più grave, con tutto il seguito delle giustificazioni etiche, giuridiche, sociologiche che la precedono o la seguono.
Non vi è aggressione che non sia stata giustificata come risposta, come unica risposta possibile, alla violenza altrui: la violenza del ribelle come risposta alla violenza dello stato, quella dello stato a quella del sedizioso, in una catena senza fine sino alla violenza politica che ha come espressione somma la guerra.
È l’inconsapevolezza iniziale che stupisce, i dati della storia sono inconfutabili e ci dicono che ogni conflitto, o quasi, è esploso senza averne reale contezza.
Ad esempio alcuni studiosi sostengono che Hitler nel 1939 non bramava una guerra planetaria, secondo questa tesi furono gli accordi militari internazionali a generare l’effetto domino che ingoiò il mondo nel baratro. L’Inghilterra e la Francia avevano siglato un trattato che sanciva l’appoggio militare alla Polonia in caso di invasione di un Paese straniero.
Una delle ultime letture che ho affrontato è stata quella degli “Scritti corsari” di Pier Paolo Pasolini di cui ricorre il centesimo anniversario della nascita. In questa raccolta di articoli ce n’è uno che si intitola “Sviluppo e progresso“. Al punto in cui ci troviamo lo sviluppo tecnologico e bellico è straordinario, tant’è che abbiamo la possibilità di decretare la fine del genere umano.
La domanda è: quando impareremo che lo sviluppo non è sinonimo di progresso?
Lo sviluppo è un fatto pragmatico, economico, anche bellico in questo caso dove è facile smarrire il senso dei limiti etici. Il progresso invece è una nozione ideale, sociale e politica, concerne l’uomo e la sua capacità di dominare le creazioni che produce.
Il conflitto a cui stiamo assistendo mette in scena un copione già letto, gravido di nefandezze che dipingono un’umanità ancora ignorante e ben lontana da quel progresso che Pasolini invocava negli anni settanta. Se uno Stato avverte l’esigenza di perseguire progetti di espansione geopolitica significa che l’evoluzione morale è ferma ai tempi di Alcibiade e che la forma mentis di un politico odierno è la medesima.
Contemplare la guerra come mezzo per dirimere le questioni geopolitiche è decisamente una sconfitta per l’intera umanità. Se ancora oggi insistono disegni imperiali da parte di Stati che non lo sono più, la strada è ancora lunga e irta di ostacoli.
Giuseppe Cetorelli
Riflessioni che non fanno una grinza…. Adoro la pacata ragione di Cetorelli , quella che manca ai governanti . Sembriamo essere spacciati