È l’11 settembre e i droni sibilano fuori dalla finestra e l’orologio segna le 8.46 ante meridiem e io me ne sto immobile sul letto, osservando l’oscurità della stanza. Un’oscurità vincolata dalla necessità, un’oscurità simbolica, interna, la vedo attorcigliarsi dentro il mio stomaco, sussurrare mentre sfrega lentamente le mie membra. Il letto, è il letto ultra comfort e caldo di un 75enne quale sono. Materasso in poliuretano schiumato, altezza regolabile, inclinazione regolabile, ingombro minimo. Ricordo il primo letto della mia gioventù. Ricordo la gente cadere, e le chiamate agli amici composte con un’urgenza banale quanto incontrollata, cercando rassicurazioni, una fuga qualsiasi dall’idea di una guerra futura, oro colato per i media. Ricordo che in quel momento non stavo molto comodo come adesso, e il volto di mio padre preoccupato davanti alla tv che trasmetteva immagini di fuoco e di fumo, di macerie e di telegiornalisti ansiosi e solenni. Sento pulsare la memoria all’interno del mio appartamento al nono piano, un enorme condominio per pensionati e divorziati dediti all’alcool o a droghe psicotrope (se non ad entrambe). Accendo una sigaretta ed aziono l’apertura della finestra, affacciandomi. Vedo macchine che si incrociano senza sosta, cantieri in lontananza e grattacieli. E immagino aerei barcollanti tratteggiare una scia nel cielo, morta all’interno di un edificio altissimo, e minuti dopo stessa sorte al suo gemello. Ricordo teorie complottiste prontamente smentite, insabbiate e l’ipocrisia di chi specula dando continua vita a tragedie. Tragedie di metallo, di vetro, di carne. La sigaretta finisce e mi stendo nuovamente sul letto, immobile, illuminato dalla fioca luce di un giorno quasi artificiale, mentre il mondo fuori scorre insaziabile.
E’ l’11 settembre, 9.03 a.m. e cado a pezzi. Un nuovo terrore che si insidia all’interno della nostra tranquillità minata solo da azioni superficiali, un terrore di cui ancora non conosciamo il volto. Ormai non sappiamo più di cosa aver paura, se di noi stessi, o degli altri. Il caos si cela all’interno del fumo, un fumo che oscura tutto, pure il cielo. Turisti che alzano lo sguardo, persone in fuga, persone che filmano tutto. La tv si accende giusto in tempo per l’orario stabilito (ormai più nessuno decide quando spegnerla o accenderla) e trasmette immagini rallegranti di bambini che si lavano i denti con la nuova marca di spazzolini. Immagini di donne che mostrano il reggiseno imbottito al silicone, donne che usano cosmetici ringiovanenti. Uomini dalla barba perfetta mostrano rasoi auto alimentati sorridendo. Macchine che sfilano come in una passerella di moda, detersivi sbiancanti in 30 secondi, occhiali collegati al web, investimenti bancari consigliati, videogiochi interattivi per tutte le età. Compongo un numero sul mio orologio da polso e mi rivolgo all’oggetto come un automa. Tutti gli anni la stessa chiamata.
«Ehi».
«Ehi».
«…».
«Ti sento stanco… tutto a posto?».
«Sì… è che non sopporto più tutta questa comodità… sta quasi finendo per tramutarsi nel suo esatto contrario… è molto stressante questa vita, sai?».
«…».
«Ricordavo».
«Sì, pure io».
«Come va a casa?».
«Tutto bene… senti io non… insomma non credi che tutto questo sia ridicolo?».
«Cosa?».
«Queste… questa chiamata, questa ostinazione al ricordo… mi fa sentire superato, una particella invisibile…».
«Oh… forse hai ragione».
«È che probabilmente… scusa sto preparando una cosa…. dicevo… probabilmente tutto questo non ha più senso… insomma, guarda… guarda la tv, parla con altre persone.. non interessa più a nessuno… nessuno ne parla più, tranne qualche sporadico servizio da un minuto che non fa altro che togliere spazio alle pubblicità e alle cronache provenienti dai social network…».
«Credi che non dovremmo più chiamarci? La mia chiamata ti fa ricordare e quindi ti rende triste? In effetti è deprimente…stancante…avere così poche persone con cui parlare da ridursi a fare questo…».
«N… non è per questo… è solo che forse è giusto sentirci un giorno diverso… non so… forse sto invecchiando e non riesco più a tornare indietro… ma.. vedi l’altro giorno mio nipote stava giocando con degli aerei in miniatura… aerei telecomandati… li faceva combattere, li faceva esplodere e infine li faceva schiantare… gli ho detto che mi ricordava un fatto lontano che era successo quando avevo la sua stessa età, e lui mi ha chiesto. “Cosa?” ..non sapevo come rispondergli… sono…. sono rimasto bloccato e gli ho solamente rivolto un sorriso… cosa dovevo fare?”.
«Hai ragione… forse è meglio non sentirci più… è che sei l’unica persona rimasta con cui posso ricordare… non credi che il dimenticare, l’omettere, siano azioni molto pericolose?».
«Senti io… adesso devo andare… ci risentiamo presto ok? Ti richiamo io, appena posso… ok?».
«Ok».
«Ciao».
L’orologio se ne sta sul mio polso, improvvisamente muto e privo di illuminazione.
«Ciao».
La tv mi osserva blaterando. E io continuo a ricordare.
È l’11 settembre, anno 2064, e sono le 10.28. a.m. Giovani raccontano la loro vita attraverso network della rete, porno star presentano i tg parlando di moda e gossip delle star. Yuppie corrono per le strade senza avere il tempo di fermarsi, ricordare, pensare. Non esistono più le guerre, nessuno ne ha più bisogno. O, almeno, esistono, ma sono invisibili, quark senza volto che si introducono all’interno della collettività. Viviamo isolati in un mondo isolato, senza avere il pensiero di torri che cadono a terra come persone.
È l’11 settembre del 2064, e nessuno ricorda.
di Daniele Minucci
Bellissimo…
bello. che poi questi eventi lasciano sempre delle vittime,e non solo quelle sotto le macerie
infatti
bel racconto in memoria….
😉
si può succedere. tristezza
complimenti per il bel racconto
la memoria…sarebbe da tenere anche delle cause.
bel racconto,complimenti