Quel weekend in cui qualcuno si è fatto del male

Quando i soldi sono pochi per affrontare il fine settimana, annoiarsi può diventare pericoloso [Racconto]

Questa cosa finirà col farmi uscire fuori di testa. Davvero. Arancione dei lampioni inarcati lungo il viale alberato, sente ancora la bile sotto la lingua. Ha la schiena ricurva, con le mani a stringere saldamente le cosce, le ginocchia piegate e la testa al di sotto della linea delle spalle. Di questa cosa ne pagherò un po’ troppe conseguenze prova a dire mentre mordicchia l’interno secco delle guance e i denti sembrano volergli schizzare via dalle gengive. Solo qualche parola riesce a far vibrare l’aria a strappi. Sputa. Ripensa a quella fastidiosa sensazione di avere le gengive troppo deboli per arrestare la dipartita dell’arcata dentale. I denti mi fuggiranno via dalla bocca, domani mi sveglierò senza denti, quando sogni che i denti ti cadono vuole dire che una persona vicina sta per morire. Il cuore batte più del dovuto, ma nei limiti di sicurezza – forse. Suda. Forse gli altri sono ancora lì. Forse avrebbe dovuto aspettarli, visto che aveva il cellulare scarico e li aveva persi di vista. Non era nei piani: doveva restare con qualcuno. Poco male, eviterò a un amico lo spettacolo di vedermi mentre vomito i miei denti.
È appoggiato a un lungo muro di cemento violentato dall’incapacità di un writer mediocre. Fortunatamente la cellula malata che Paolo voleva portarsi al RUDE è stata abbandonata all’ingresso del LoFt; c’era troppa armonia in quel macrorganismo per rischiare di veder tutto distrutto da quella biondina tossica con gli shorts e il piercing tra gli occhi. Lorenzo si passa il polso sulle labbra per pulirle. Sputa. Mette in sequenza una decina di passi storti verso casa, percorre con fatica il viale alberato, continua a toccarsi tra la mascella e la mandibola, non tanto per l’indolimento, quanto per essere sicuro che nulla possa scappargli dal corpo. Il marciapiede dissestato gli sembra ancora più difficile da percorrere del solito: si muove a scatti su una superficie molle e instabile. Sprofonda. Si ferma sulla gradinata di accesso a un palazzo istituzionale, si tiene i capelli intrecciandoci le dita, come gli artigli di un rapace. Come la Giuditta. Non era ancora finita. Non sarebbe finita presto.

Quella mattina Lorenzo si era svegliato come negli ultimi 40 giorni: senza un lavoro, senza una ragazza, masturbandosi. Era rimasto nel letto diversi minuti dopo essere venuto su un asciugamano da bidet sporco da settimane; aveva chiuso gli occhi con le dita dei piedi che ancora si contorcevano per un orgasmo non eccezionale. Si era riaddormentato per qualche minuto, con il pene stanco fuori dai pantaloni del pigiama. Ora l’orologio del cellulare, perso tra gli smottamenti delle lenzuola, segnava le undici.

Matteo non poteva immaginare cosa gli sarebbe toccato sopportare da lì a qualche ora. Aveva trovato lavoro da poco più di una settimana: aggiornava la pagina Facebook di una startup che si occupava della gestione delle badanti dell’est, ma finalmente tarato sulle nuove esigenze di famiglie e anziani e grazie all’aiuto delle tecnologie digitali e dei nuovi mezzi di matching messi a disposizione dai social network. Chattava e guardava Su Amazon tazze e magliette con le stampe delle serie tv. Sapeva che non ne avrebbe comprata neanche una.

Intanto Lorenzo si era infilato sopra al pigiama un maglione di lana con le renne e i fiocchi di neve. Non aveva portato a lavare il piumone e dormiva ancora con le lenzuola. Moriva di freddo e ogni notte si svegliava alle quattro per infilare i calzini. Aveva troppa paura dell’allergia agli acari per mettere un piumone che credeva essere molto impolverato. L’impasse durava da tre settimane. Dopo aver acceso il pc, staccò due tiri a una mezza canna che il suo coinquilino aveva lasciato nel posacenere in cucina. Matteo mandava foto di meme sulla chattona del calcetto; scherzava su quanto fosse bello prendere soldi per stare su Facebook. A Mezzogiorno chiuse il sito con cui programmava i twit per le ore successive e iniziò a leggere su Grantland notizie random sull’NBA. Mezz’ora dopo andò verso le macchinette automatiche, chiese a tutti i colleghi se volevano un caffè: se fosse riuscito a farne almeno quattro, andando in bagno dopo averli portati a chi aveva detto sì, avrebbe perso abbastanza tempo per mettersi nel mood da pausa pranzo. Lorenzo infilò un cappotto e andò a fare colazione al bar. Gli piaceva essere fatto di giorno; tanto non bisogna fare nulla che non si possa fare fumando. Doveva inviare un pezzo di 8000 battute a una rivista alla moda. Non riusciva a concentrarsi ma per fare determinati lavori essere un po’ alterato aiuta, fa’ concentrare sui particolari. Dopo essersi fatto fregare dalla lavagnetta alla cassa e aver preso un cappuccino alla soia, tornò indietro. Non si era cambiato. Dormiva con la tuta perché è più calda e ci si può uscire per fare giretti brevi sotto casa. Quando si era rimesso al computer era passata l’una da una ventina di minuti e Matteo stava bevendo il caffè in una tavola calda con un menù che a pranzo è una bomba perché te la riesci quasi sempre a cavare con 6 euro. In due mesi di pause pranzo, era diventato intimo con il proprietario che non gli faceva pagare il caffè e lo informava quando faceva gli spaghetti allo scoglio con il pesce buono, del mercato ittico poco lontano. Guadagnava 400 euro al mese.

Il cellulare di Lorenzo continuava a vibrare di mail; ogni volta sbloccava lo schermo, apriva l’applicazione e si trovava davanti quattro o cinque messaggi di agenzie di lavoro digitali, che gli proponevano lavori magari ben retribuiti ma decisamente poco stimolanti, in cui erano richiesti unicamente voglia di mettersi in gioco e una qualsivoglia licenza superiore. Si trattava di andare in giro nei centri commerciali o fuori dalle fermate delle metro per accalappiare clienti. Lo chiamavano marketing diretto. Esasperato e triste si attaccò alla tastiera del pc. Stufo delle solite ricerche sui portali con le offerte di lavoro e spaventato dal doversi svegliare tutte le mattine alla stessa ora con magari l’obbligo di percorrere svariati chilometri prima di arrivare in un ufficio, sprofondò nel magma di cinquecentocinquanta miliardi di documenti non indicizzati che pulsano sotto ai motori di ricerca. Traghettato da The Onion Router percorse abissi di pagine senza entrate né uscita, scavando con i web crawler alla ricerca di un piccolo tesoro dell’internet più profondo. Se in quei meandri oscuri a Google si potevano comprare armi e droghe, non avrebbe forse potuto trovare un lavoro migliore del blogger per un centesimo a parola su siti di informazioni per compratori di elettrodomestici? Matteo nel frattempo non riusciva a stare appresso ai messaggi. Sabato avrebbe suonato un amico in un locale in cui qualche anno prima, per una domenica al mese, aveva organizzato una serata in cui si ballavano i lenti; cercava di trascinarci qualche amico con la scusa dei cocktail a prezzi umani. Scrisse anche a Lorenzo, che però non rispose.

Non poteva crederci. Settecento euro per provare una droga che è pure una svolta. Doveva dirlo a qualcuno, non stava più in sé dall’eccitazione. Pensò di girare una canna ma non voleva sprofondare in un cliché degradante per la sua autostima. In realtà voleva anche sentire qualche parere. Brutti presentimenti si stavano trasformando in sudore alle mani, un male alla tempia sinistra che gli faceva formicolare tutto quel lato del viso fino all’attacco del lobo e piccoli conati di vomito. Forse avrebbe dovuto approcciare la cosa con meno trasporto. Il capo di Matteo, una ragazza venticinquenne che si stava laureando con molta calma alla magistrale perché nel frattempo era diventata impresaria di se stessa, gli chiese come procedeva la sponsorizzazione del post di lancio del nuovo sito. Era costato 5000 euro applicazione compresa, pagati da una campagna di fundraising. Nella riunione del giorno prima Matteo aveva provato a difendere la sua posizione: sponsorizzare un post dopo aver chiesto 5000 euro alla gente potrebbe sembrare quanto meno fuori luogo. Chiara, classe 1991, una laurea triennale in filosofia e il ruolo di responsabile comunicazione della società, gli aveva risposto che invece era giusto far vedere a tutti quelli che avevano finanziato il sito che era stato fatto un buon lavoro. Tornato dalla pausa pranzo con le pupille linguali intorbidite dal sapore di carne di pollo poco cotta, peperoni gialli e rossi, olio, Coca-Cola Zero e caffè, aveva cliccato su Metti in evidenza il post, pensando che avrebbe dovuto segnarsi il numero della carta di credito, la data di scadenza e il codice di tre cifre sul retro. Se non gli avessero confermato lo stage, si sarebbe comprato qualcosa.

Lorenzo uscì dalla doccia, scrisse un messaggio in troppo tempo, paralizzando lo schermo con i polpastrelli umidi. Ho trovato una BELLA SVOLTA per alzare un po’ di soldi, ma ne dobbiamo parlare, stai a lavora’ o ti posso chiamare? Matteo aveva pensato all’ennesima fissa che dura al massimo una settimana e poi frana, abbattuta dalla difficoltà di trovare un programmatore. Avrebbe risposto uscito dall’ufficio.

Alle 19:00 il vuoto del comodino fece riecheggiare la vibrazione del cellulare in carica e scosse Lorenzo. Scusa ho letto solo ora, al lavoro mi hanno massacrato perché Chiara è una stronza (ma bona); aperitivo? Dopo aver ordinato ed essersi aggiornati sui rispettivi e monotoni weekend (trascorsi e da trascorrere) Matteo si sentì dire:

– Che 700 euro in così pochi giorni di lavoro non li avrebbe guadagnati neanche tra dieci anni;
– Che secondo un articolo tradotto poco tempo prima il deep web era un posto tanto inquietante quanto sicuro;
– Che a pensarci bene aveva fatto una cosa del genere (provare una droga di cui non conosceva origine e composizione, ndr) mille altre volte prima, ma PAGANDO;
– Che a quel giro sarebbe STATO PAGATO 700 euro, quasi il doppio di quanto guadagnava in un mese, al netto delle droghe (intese sia come sostanza che come investimento).

Sapeva benissimo che non doveva lasciarsi convincere. Fece ironia sul fatto che avrebbero dovuto lavorare nel weekend. Offrì gli spritz e gli disse che lo sarebbe andato a prendere venerdì alle quattro di pomeriggio. Poi, quella notte, avrebbe dormito da lui.

Lorenzo era steso sul letto con la luce accesa. Non aveva le scarpe, era vestito, il cappotto accartocciato sulla poltroncina dei panni sporchi. Il sole iniziava a spezzarsi nei buchi della persiana. Le pulsazioni ora sembravano eccessivamente veloci. Dopo aver cercato numero di battiti al minuto su Google, aveva fatto partire il cronometro del cellulare. Toccandosi con medio e indice la carotide, facendo bene attenzione a non effettuare una pressione eccessiva che accelerasse il flusso sanguigno, contava ogni balzo delle dita. Non era tranquillo. In bagno, sciacquandosi la faccia, non riusciva a mettere a fuoco la sua figura riflessa sullo specchio. Il battito aumentava. Sudore. Sentiva la maglietta inzupparsi lungo la schiena, sotto il maglione. Continuava a passare le mani sulle guance e sulla fronte, avrebbe voluto cavarsi gli occhi e pulirli. Sentiva le gambe cedere. Toccava la pelle del viso, era più del solito. Massacrava gli occhi con le dita come quando le graminacee iniziano a fiorire. Avrebbe voluto chiamare qualcuno, ma si sentiva un coglione.

‹Do’ stai›… gli era arrivato alle tre e quaranta, ma non l’aveva visto prima delle quattro e mezzo. Dopo che si erano mossi dal LoFt erano finiti in un altro posto, sotto terra, con le pareti nere, il fumo e gli specchi messi a disorientare chi balla. Non ricordava di aver pagato un ingresso. In realtà non ricordava neppure di essere entrato in quel posto. Ci si era trovato. Con i bassi a gonfiargli lo stomaco e il fumo che lo obbligava alla miopia, gli era parso di vedere qualche strana sagoma muoversi tra i riflessi delle pareti. Sbalzi di luci, tagli accesi e fluorescenti, pulviscoli dorarti seviziavano il suo campo visivo. Era una battaglia già sacrificata al martirio. Perdeva l’equilibrio: gli tremavano le gambe e sibili metallici scavavano il sistema nervoso parasimpatico, fino a far trattenere il fiato alle pupille e contrarre i polmoni. Doveva vomitare; uscì di fretta inciampando su delle scale di cui non immaginava la presenza. L’aria fredda sulle braccia nude, il senso di vuoto che l’assenza dei bassi sintetici lascia sotto i passi, dover sentire Lorenzo per andare a dormire da lui.

Erano le sette del mattino, Lorenzo dormiva appoggiato alle piastrelle del bagno che il sole illuminava ormai da mezzora. Matteo aveva camminato per un quarto d’ora, forse voleva tornare a casa: aveva allungato il tragitto per riprendersi. I suoni di chi torna a casa e di chi esce non gli arrivavano alle orecchie, vedeva gli autobus diurni riprendere servizio, non ne sentiva il motore né lo sfregarsi della gomma degli pneumatici sul cemento. Si sciolse ai piedi di un muretto. Chiuse gli occhi.

La notifica di un messaggio lo destò dal sonno. Capì che non era steso, né tantomeno su un letto. Sentì il freddo delle mattonelle. Pensò di trovarsi davanti il lavandino, ma era buio. Aprì gli occhi. Era ancora buio. Sudava, le mani fredde cercarono il pavimento per tirarsi su. NERO. Sbatté le palpebre ripetutamente. NERO. Prese il cellulare tra le mani, non vedeva. Dio. Non sapeva cosa fare, il suo coinquilino quel weekend era tornato dai suoi. Non poteva chiamare nessuno. Che fine ha fatto Matteo? Aspettò, provò a raggiungere la camera, fu molto facile. Si sdraiò sul letto. Non faceva analisi del sangue da anni per paura di trovare qualcosa che non andasse. Non può non essere qualcosa di passeggero. Si convinse che se avesse dormito ancora un po’, al risveglio sarebbe tornato tutto come prima. A volte, quando dopo aver fumato sentiva la gola che si chiudeva e le gambe che non potevano star ferme, aspettava l’alba. Non si può morire di giorno.

Quando una signora gli toccò la spalla, si rese conto di essersi addormentato per strada. Vide la bocca tumefatta della vecchia storcersi in una frase lapidaria, ma l’aria che vibrava non era assorbita dai timpani. L’odore della donna, un misto confuso di porro e paraffina, gli scavò le narici come un chiodo freddo. Si alzò di colpo, non aveva il cappotto, cercò il cellulare e il portafoglio tastandosi le tasche dei pantaloni. Trovò solo il primo. Porca puttana Lorenzo non sento più, che cazzo succede? Passo a casa tua, dobbiamo andare all’ospedale. Era passata più di un’ora ma non aveva avuto risposta. Provò a chiamare. Questa volta fu la suoneria del cellulare a strapparlo dal sonno. Aprì gli occhi. NERO. Lo stavano chiamando, non sapeva chi, ma chiunque fosse stato avrebbe potuto salvarlo. Cercò di sbloccare lo schermo e di rispondere a memoria.

– PER QUALE CAZZO DI MOTIVO NON RISPONDI. NON SENTO NULLA. NON SENTO LORENZO. NON SENTO.
– Cosa? Stai scherzando…
– LORENZO NON POSSO SENTIRTI, NON POSSO SENTIRE. PASSO DA TE.
– Ma porca merda, cosa sta succedendo?
– LORENZO NON TI SENTO PORCA PUTTANA, NON SENTO NULLA. PASSO A CASA TUA NON TI MUOVERE.
– E chi si muove.

Sentì il suono del campanello potente come una fanfara e facendosi guidare dalle mani riuscì ad aprire. Matteo era immobile nel suo salotto e lo fissava, ma lui non poteva vederlo. Gli urlò contro che non riusciva più a sentire, che si era addormentato in strada, che il suo piano era stato una merda, che lui era stato una merda, che vaffanculo i suoi merdosi 700 euro, che dovevano andare all’ospedale, anche se avevano bisogno di un fottuto piano perché chissà che cazzo di roba ha fatto tutto questo. Non poteva immaginare che Lorenzo percepiva soltanto le sue grida sventrare il NERO che lo circondava da ore. Provò ad avvicinarsi alla sua voce, andarono a sbattere, sentirono ognuno il sudore freddo e acido dell’altro – secreti marci di alcool e paura. Che cazzo fai? Provò a fare il gesto di aspettare, Matteo capì e stette zitto. Con l’indice dritto nella mano chiusa fece un paio di oscillazioni lungo l’asse orizzontale, poi si indicò gli occhi. NON VEDI? Fece sì con la testa. DOBBIAMO FARE QUALCOSA! Fece sì con la testa. Andarono in cucina a fatica. Dovevano capire come comunicare. Lorenzo continuava a sudare freddo; la sensazione che una legione di molari, incisivi e canini stesse per partire dalla sua bocca indolenzita, scappando dalle gengive, continuava a martoriarlo. Non avevano ancora capito come comunicare. L’orologio al muro ticchettava nei pressi del mezzogiorno. Non parlavano, non facevano nulla. Erano troppo preoccupati del seguire ogni percezione che i loro organismi gli trasmettevano: vertigini, nausea, dolore alle gambe, sudore, mal di testa, formicolii alle braccia, aghi nei polsi, pulsazioni irregolari, sfumavano gli uni sugli altri. I loro corpi erano un campo di battaglia per plotoni disorientati. Il bicchiere che Matteo teneva in mano, gli sfuggì dalle dita e si spaccò in centinaia di schegge infrangibili sulle piccole mattonelle rettangolari bianche e verdi. Lui non ne sentì il rumore, Lorenzo invece sobbalzò. Che succede? Che hai fatto? Matteo intuì la domanda, HO ROTTO UN BICCHIERE, MI È CADUTO DALLE MANI, NON LO SENTIVO, MI SI È TIPO ALLENTATA LA PRESA. Sapevano che avrebbero dovuto fare qualcosa. Avevano paura. Cosa cazzo sta succedendo cosa cazzo sta succedendo SENTI IL TIZIO DI IERI PORCA TROIA CHIAMALO non posso chiamare non riesco a trovare il numero non ci vedo razza di coglione DEVI CHIAMARE QUEL PAZZO DI MERDA ma sei scemo tocca a te chiamarlo o almeno cerca il numero IO NON VOGLIO MORIRE DIO non morirà nessuno dobbiamo solo andare dal tizio e farci dare una mano avrà qualcosa per aiutarci DAMMI IL CELLULARE TI CERCO IL NUMERO E LO CHIAMI È L’UNICA ci sei arrivato finalmente ci sei arrivato anche te. Andò in camera a stento e tastò il letto alla ricerca del cellulare, lo portò in cucina con una mano a sfiorare il muro alla sua destra. Il freddo della parete gli faceva sembrare il palmo ancora più caldo. Si fece cadere con difficoltà sulla sedia mentre glielo porgeva. Matteo iniziò a cercare tra le ultime chiamate COME L’HAI SALVATO? Ma perché ti rispondo se non senti? Mentre Matteo setacciava i numeri, Lorenzo continuava a toccarsi la mascella, gli facevano male i denti. La lancetta dei minuti faceva una fatica incredibile nello scalare le barrette che evidenziavano i raggi del quadrante necessari a leggere l’ora.

Come da accordi, con la consueta puntualità di cui era vittima, Matteo era sotto casa di Lorenzo alle quattro del venerdì. Lorenzo scese in una decina di minuti, prese possesso del sedile del passeggero e gli spiegò la strada. Arrivarono in una piazza lunga e stretta, una colata di cemento a separare due oblunghe facce di finestre e balconi. Si fermarono davanti a un portone di vetro e ferro scuro. Citofonarono al cognome indicato. Dall’inferriata del citofono giunse un suono metallico e la porta si aprì su un ingresso di marmo e quattro bassi scalini che sfalsavano la prospettiva di tre porte. Da una di queste uscì un nero sulla quarantina; dopo aver sceso i quattro scalini, si accarezzò le pieghe verticali della stiratura della camicia celeste e gli porse la mano destra. Ben trovati. Fece segno di seguirlo. Obbedirono. Entrarono nella porta dalla quale il nero era uscito due strette di mano prima. Era un ingresso signorile, con uno specchio che da una ventina di centimetri al di sopra di un mobile impero, permise a Matteo e Lorenzo di specchiarsi e di guardare nuovamente negli occhi il nero. Percorsero un corridoio opaco, su cui non si apriva neppure una porta. Lo spazio finiva con una parete chiusa da una libreria in confusione e una porta per lato. Andarono a sinistra e si ritrovarono in una camera da letto. Fecero correre gli occhi in modo da immagazzinare il maggior numero di particolari: un letto a due piazze molto alto e in ferro battuto, un comodino per lato, una lampada d’ottone a forma di fungo, un tappeto che faceva da ponte a un salottino, un divano a righe celesti e bianche sporche e sfumate d’usura, due poltrone color del miele d’acero. Sul divano era seduto un uomo distinto, ma eccessivamente grasso per poter mantenere quel portamento anche in piedi.

X – Accomodatevi pure sulle poltrone ragazzi.

Si girarono verso il nero che ora era distante da loro almeno due metri, con le spalle rivolte alla porta chiusa e gli occhi a superare le loro spalle per inchiodare il tavolinetto basso che centrava gli sguardi di chi fosse seduto. Si misero sulle poltrone e ciò che era stato accuratamente preparato sul tavolino si vide al centro anche delle loro attenzioni. Due mucchietti di banconote, un tastevin d’argento con un liquido marrone, una siringa mono uso per insulina da un ml, due francobolli colorati con il lato di mezzo centimetro, una clessidra.

X – Buona sera ragazzi, siate pure sereni. Nessuno qui vuole farvi del male. Anzi, come potete immaginare, ammazzare dei tester è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Fate pure tutte le domande che credete necessarie. Ma per non più di cinque minuti. – Girò la clessidra.
M – Con cosa abbiamo a che fare? È roba sintetica?
X – Assolutamente no. Cento per cento naturale.
L – E di che si tratta? Sull’annuncio ci sono scritte cose tipo zero paranoie, effetto esclusivamente eccitante.

X – Attenzione figliolo, non si fa alcun riferimento all’eccitazione di altre droghe sintetiche. Qui parliamo di un’eccitazione infantile.
L – In che senso?
M – Lorenzo, non gli stai permettendo di rispondere alla mia di domanda.
X – Per rispondere a entrambi, nel tastevin c’è del liquido prodotto dalle sinapsi di esseri umani.
L – Esseri umani?
X – Bambini, per l’esattezza. – Quando X vide che i due ragazzi non trovavano modo di commentare il macigno delle parole che aveva appena pronunciato, proseguì – Bambini ricchi e felici, per scendere ancora di più nello specifico.
L – Cosa diavolo vuol dire?
X – Bambini rapiti, presi alle gite dei Country Club, mentre giocano a nascondino durante i matrimoni; nelle loro case serene, col cortile davanti e dietro, dove giocano con un padre affermato che ha poco tempo ma molto denaro da dedicargli. Ma, ci tengo a sottolinearlo, il liquido è stato estratto pochi istanti dopo il rapimento.
L – Non vi seguo, state dicendo cose senza senso.
X – E voi che accettate del denaro da uno sconosciuto in cambio di una droga sui cui effetti non avete la benché minima premonizione, vi ritenete nelle grazie di Dio – Questa volta attese molto meno tempo – La particolarità della sostanza che state per assumere, se vorrete, è proprio questa: una sostanza naturale, prodotta dalla ghiandola cerebrale che regola la gestione delle emozioni di bambini che nella vita hanno avuto ogni cosa avessero mai desiderato o addirittura immaginato. Una sostanza naturale che rimessa in circolo, lascia in uno stato di eccitazione e felicità, come se non ci fosse un domani di cui preoccuparsi o con cui dover fare i conti, come se tutto il bello del mondo sia dovuto soltanto a voi.

L’orologio da muro continuava ad affaticarsi nelle ore del primo pomeriggio. X non aveva risposto. Matteo e Lorenzo erano seduti all’angolo del tavolo, uno sul lato corto, con le spalle al frigorifero, l’altro su quello lungo, faccia alla parete e i fornelli a osservargli la nuca. Quella terribile sensazione alle gengive continuava a perseguitarlo. Si sarebbe voluto specchiare ma il buio che avrebbe trovato davanti a sé nel guardarsi la bocca glielo impediva; iniziava a sudare e le punte delle dita diventavano fredde. Gli sembrava proprio che le gengive tremassero, quella terribile sensazione che gli riportava alla mente scene ridicole delle elementari; quando il padre lo inseguiva per casa per staccargli un dente da latte che pendeva da giorni, ma lui si fiutava. Correva nel corridoio della casa vecchia, per difendere strenuamente il suo diritto al tergiversare, la dignità dell’impasse – quell’impercettibile filamento di carne e nervi che manteneva all’interno del cavo orale un pezzo ingiallito di dentina, smalto e cemento. Poi la saliva assunse il sapore del ferro, s’irrigidì. In un tempo infinitesimale, si passò con la lingua l’interno dell’arcata dentale, una sensazione molliccia di vuoto, in meno di un secondo capì di avere la bocca piena di sassi. Tossì e sputò. MA COSA CAZZO FAI? Poi sentì qualcosa raschiare l’esofago. Tossì più forte. S’alzò cercando il tavolo con i palmi freddi delle mani. LORENZO CHE CAZZO SUCCEDE. Andò verso il bagno, ma il NERO lo spinse contro la porta di vetro della cucina. La urtò con il gomito destro, lasciato nudo dalla maglietta a maniche corte di Pollos Ermanos. Si buttò contro la tazza del water, meravigliandosi di quanto la ceramica fosse fredda. L’odore della sua carne putrida saliva dalla bocca alle narici. Sentiva freddo anche alle ginocchia che aveva sbattuto con forza contro le mattonelle. Ora il dolore della contusione stava lasciando il posto al tremore causato dagli spasmi di intestino ed esofago. Vomitò. Vomitò i cocktail della sera precedente e quanto avevano mangiato all’aperitivo. Vomitò una trentina di denti, alcuni gialli di fumo, altri con il tartaro verdastro lungo la parte che stava a più stretto contatto con le gengive. Vomitò il sangue e i pezzi di carne e nervi liberi dalla connessione dei denti alla gengiva. Passava con la lingua sulle ferite lasciate aperte dalla fuga dei denti. La sensazione lo disgustava, lo faceva tremare. Tornavano i conati di vomito. Sentiva l’odore ammoniaco dell’infezione, di croste umide, di grumi rappresi, di secrezioni marce. Sbatteva il mento contro la tavoletta. Matteo lo vide contorcersi. Se l’avesse potuto sentire, avrebbe udito suoni gutturali soffocati e raccapriccianti. Mentre lo fissava, con la mente spenta e gli occhi anestetizzati da non si sa quale pensiero, scivolò atterra. Cadde con un tonfo profondo che il tappetino del bagno non ammortizzò affatto; Lorenzo si girò verso la porta contro cui Matteo aveva sbattuto la nuca. Un leggero filo di bava rosea gli si attaccò alla guancia, segnando tutto il mento. Matteo non sentì il pavimento sotto i piedi e sotto al culo, non sentì la porta premergli la schiena, non poté sentire neppure il calore dell’urina che la vescica aveva mollato, liberandola sotto il cavallo, su entrambe le cosce. Vide i pantaloni cachi farsi scuri e l’interno venoso degli avambracci avvicinarsi ai suoi occhi nel portare le mani ai capelli. Poi anche la sua vista iniziò a viziarsi di punti bui.

X e Y sapevano che qualcosa era andato storto. Lorenzo e Matteo non erano i tester più indicati. Avrebbero dovuto fare più colloqui: in quella fase avevano bisogno di qualcuno che fosse più onesto e davvero infelice.

In cucina l’orologio, per quanto lentamente, continuava il suo percorso in cerchio. Un cellulare squillava di notifiche di diversi sistemi di messaggistica istantanea, l’altro era stato impostato su silenzioso e faceva vibrare il tavolo, a volte con due colpi ravvicinati, altre con un colpo lungo, altre ancora con una serie di colpi che scandivano il tempo anche per molti secondi. Lorenzo e Matteo erano ancora in bagno; si stavano spappolando.

 

Gian Mario Bachetti

 

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