La sveglia trillò inutilmente, tanto non era riuscito a chiudere occhio.
Aveva l’eccitazione che imperversava, avanti e indietro, dalla punta dell’alluce alla ghiandola pineale, come una scarica elettrica puntata contro le sue palpebre che lo costringeva, di fatto, a restare per ore con lo sguardo sbarrato sul fantasmagorico ordigno che era riuscito a creare.
Ma il momento era finalmente arrivato.
Egidio Scarpelloni, noto ai più come Marmitta (nomignolo che gli restò appiccicato ai tempi del suo primo sgangherato motorino e che non riuscì a sradicare nemmeno impugnando svariati volanti di svariate automobili o agguantando non oltre il terzo tentativo l’ambito traguardo della patente B che legittimava alfine le sue scorribande in tangenziale), aveva una visione ben precisa del mondo, e voleva che il mondo ne prendesse atto e s’adeguasse alle aspettative dei suoi occhi.
Non che fosse una visione originale, intendiamoci, veniva tramandata di generazione in generazione per soccorrere la gente sprovvista di necessaria fantasia, coraggio e personalità da crearsene una propria. Però Egidio stavolta aveva voluto proprio strafare prendendo – prima volta nella sua vita – un’iniziativa senza attendere l’approvazione del branco. Per questo aveva speso le ultime settimane seguendo tutorial video su internet e investito buona parte dei suoi soldi per racimolare il materiale utile alla causa. Enorme dispendio di energie e risorse, certo, ma dopo tanta fatica poteva finalmente ammirare il piccolo capolavoro d’ingegneria basica adagiato sul tavolino. La maestra di scienze – pensò – sarebbe stata orgogliosa di lui.
Il corteo era previsto intorno alle dieci del mattino, c’era ancora tempo. Si fece una doccia intensa e quasi lunga, concedendosi un ultimo segreto momento di tepore prima del tutto. La rasatura gli risparmiava la fatica di asciugarsi i capelli, così inforcò direttamente jeans e anfibi, la felpa nera con lo slogan avvincente stampato sopra e, dopo aver tirato su la zip del bomberino da guerra, infilò con cautela il fantasmagorico ordigno nello zaino uscendo di casa che era ancora buio, andando incontro al gelo pungente del sopraggiunto inverno.
Il mondo stava sprofondando nell’illegalità e nella depravazione, era tempo di dare un segnale forte che lo rimettesse sui giusti binari, tempo che tutti aprissero gli occhi per vedere.
Questo si ripeteva Egidio attraversando mezza città per raggiungere la meta prefissata. Con dedizione rara, nei giorni precedenti, aveva prima studiato e poi percorso il percorso previsto del corteo; metro dopo metro, centimetro su centimetro, fino a individuare il punto più congeniale per innescare la rivoluzione: gli scavi della nuova metropolitana.
Bisognerebbe tenere conto che questi cantieri aperti non erano solo un solco che tagliava in due la città, ma anche un limite che minacciava silenziosamente le incrollabili certezze di Egidio. Infatti, per quanto negli anni si fosse caldamente battuto al fianco dei suoi colleghi di ideologia contro “l’imperante relativismo che inquina la nostra Società” (tendendo però le braccia al cielo con minore trasporto del solito, prediligendo battaglie connotate da termini più abbordabili), la metropolitana in arrivo aveva più volte messo Egidio davanti a pensieri contrastanti.
In prima istanza i lavori gli sembrarono un bene indispensabile e doveroso per la città, e così continuò a sostenere per mesi. Ma poi il partito della giunta comunale, fino a quel momento alleato, si scollò dalla coalizione a un passo dalle elezioni nazionali e a quel punto Egidio, deluso e infuriato, decise d’impeto che la nuova metropolitana veniva finanziata da introiti illeciti e promossa per il tornaconto personale del sindaco e dei suoi leccapiedi.
Per quindici mesi aveva continuato a maledire con invidiabile costanza quegli scavi iniqui e infiniti che, peraltro, rallentavano il traffico; eppure adesso ringraziava il Cielo di aver trovato i cunicoli ancora aperti: lo avrebbero portato dritto al compimento del suo piano.
Qualcuno avrebbe potuto dirlo incoerente, ma la gente aveva già i suoi problemi e non stava molto a pensare all’imperante relativismo che inquina la nostra Società o a cosa Egidio avesse detto o non detto in proposito il mese prima. Del resto non se lo ricordava neanche lui.
Il cielo aveva appena cominciato a schiarirsi mentre Marmitta scavalcava le transenne dei lavori. Si assicurò che nessuno potesse vederlo, ruppe il lucchetto della grata e poi si lasciò cadere giù nella galleria. Un gesto atletico per molti, ma una quisquilia per chi come lui aveva temprato il proprio fisico in anni di botte di gruppo ai bengalesi solitari.
Appena fu certo di non essersi spaccato una caviglia accese la torcia per fugare il buio, poi tirò fuori il telefono e un sospiro di sollievo: il segnale GPS era ancora ricettivo, sarebbe stato facile stabilire in quale punto esatto si trovava rispetto alla superficie. Oh, sì. La fortuna ammiccava voluttuosa, gli stava dimostrando di essere tutta dalla sua parte.
Si mise in marcia con il navigatore sotto mano. Cinquanta metri al punto prestabilito e già l’adrenalina strabordava da ogni cellula del suo corpo. Trenta metri e già poteva immaginare i titoli dei giornali, la gente con gli occhi strabuzzati che finalmente cominciava a ragionare. Venti metri e tracciava mentalmente l’elenco dei fidati con cui vantarsi di aver causato l’esplosione. Dieci metri e si scelse finalmente un nuovo soprannome degno di lui. Tre metri ancora, gli ultimi, e dietro la svolta c’era un negro.
A onor del vero bisogna dire che la pelle di Kalhid non fosse proprio scura come la parola “negro” lascerebbe supporre, diciamo che in una scala di legni che va dall’acero al wengé l’epidermide del giovanotto tendeva più verso l’iroko; ma per gli occhi di uno come Egidio, che non era certo falegname, tutto quello che si distanziava da lui più del dovuto era semplicemente “negro”. E usava quella parola con estrema disinvoltura, senza particolare imbarazzo, continuamente; fino allo sfinimento, fino a quando non sapeva più di nulla: “ti stai comportando come un negro”, “perché io no?! Sono forse negro?”, “hai comprato proprio una maglietta negra”, “ho trovato la chiamata persa di un numero negro”. I suoi costumi lessicali non tenevano mai conto della sensibilità di chi gli stava vicino e si facevano addirittura più estremi davanti agli accorati appelli degli attivisti che si battevano, in televisione e nelle strade, contro l’autoreferenzialità degli occidentali, invitando la popolazione a utilizzare termini più accondiscendenti tipo “diversamente bianchi” e altre formule di paritario candore.
Comunque sia, la faccenda per Egidio si era fatta davvero seria: non solo quel negro gli stava tra i piedi nel giorno del suo imminente trionfo, ma stava persino assicurando alla parete un mucchio di cavi e un’ingente quantità di tritolo. Marmitta venne assalito dallo sconforto: era stato convinto, per la prima volta in vita sua, di aver avuto un’idea originale, ed ecco che il primo negro color iroko lo aveva sbugiardato bruciandolo sul tempo.
«Non solo venite nella nostra terra a portarci degrado e malattie», esplose Egidio paonazzo, «non solo ci rubate il lavoro e le donne! Ora volete rubarci persino gli attentati! Maledetti negri, andate a mettere le bombe a casa vostra!»
«A dirla tutta, cane d’un infedele, io sono arrivato qui prima di te. Quindi sei tu l’invasore che pretende di mettere esplosivi dove già l’hanno piazzati gli altri.»
Seguì un momento di silenzio, le incisive ma pacate esternazioni di Khalid avevano lasciato interdetto il suo interlocutore per qualche istante, così ne approfittò per intrecciare l’ultimo cavo di rame che aveva tra le dita.
A vederlo così minuzioso e attento nei suoi attentati, si potrebbe ipotizzare che Khalid nella vita facesse da sempre il terrorista, ma di certo non sarebbe la verità. Figlio di immigrati, sì, ma nato a meno di venti chilometri dal punto in cui stava piazzando la bomba, il giovanotto, prima di consacrarsi alla propaganda religiosa traeva particolare piacere nel frequentare lo stadio. Tuttavia ebbe la sfortuna di affezionarsi a una squadra di calcio caratterizzata da una tifoseria particolarmente incline al razzismo, cosa che non rese certo facile la vita del giovanotto.
In curva aleggiava una tacita regola che aiutava i tifosi più ortodossi a trarsi d’impaccio davanti ai precisi dilemmi che la vita poteva presentargli davanti: potevano tollerare (e, in casi estremi, sostenere) i negri soltanto a patto che giocassero nella loro squadra e che giocassero bene; per tutti gli altri c’erano lanci di banane in campo e schiaffi fuori. Così, per quanto Khalid si sforzasse di illustrare agli ultrà la gradazione iroko della sua pelle e la sincera devozione verso i colori della comune squadra del cuore, spesso e volentieri il ragazzo tornava a casa malconcio e non necessariamente sulle sue gambe. Tutto questo senza che i suoi beniamini trovassero mai la decenza di vincere almeno uno scudetto.
Alla fine, sopraffatto da lividi e dalle delusioni calcistiche, dalle discriminazioni sociali e dagli sguardi sospettosi dei passanti, Khalid si rassegnò al fatto che era più negro che iroko, e decise allora di accettare con orgoglio il suo lascito di sangue.
La religione giunse in suo soccorso come un balsamo, ribaltando in un colpo solo la gerarchia della scala sociale: senza nemmeno bisogno di fare qualcosa già si sentiva alto rappresentante d’un popolo prescelto. Non usava mai la parola “razza”, tuttavia Khalid s’ostinava a costruire intorno a essa quei concetti allusivi necessari a rassicurarlo sul suo valore intrinseco di individuo; una certezza talmente profonda da esasperare le sue convinzioni fino al parossismo e ispirargli la conclusione che fosse tempo di restituire al mondo tutti il calci in culo che aveva ricevuto. Fu così, insomma, che Khalid decise di rimarcare la superiorità dei propri sentimenti piazzando bombe, proprio come quei tipi che ogni tanto si vedevano al telegiornale.
Un progetto che però non convinceva all’unanimità, perlopiù a causa di cavilli filosofici. Se si fosse davvero convinti di appartenere a una razza superiore – obbiettava qualcuno – non si avrebbe alcun interesse a falciare le altre. Non per una questione etica, naturalmente, ma più propriamente logica: tolte di mezzo le razze inferiori, infatti, l’unica superstite non avrebbe più termini di paragone e sarebbe costretta ad accantonare lo status di “superiore” in favore di quello, meno esclusivo, di “unica”. A quel punto ci sarebbe ben poco da scegliere o da essere prescelti.
Armati di queste argomentazioni, taluni sostenevano che il carattere sanguinario di Khalid fosse fomentato, più che dalla sua sedicente supremazia etnica-religiosa, da un profondo senso di inadeguatezza che l’aveva logorato fino a convincerlo che bastasse distruggere i piani superiori per trasformare il piano terra in una mansarda.
«Facciamo a capirci», riprese Egidio non appena fu pronto ad articolare il suo pensiero, «io non sono razzista, ma vengono prima gli italiani. Quindi le bombe le mettiamo prima noi. Se poi ne rimane in piedi qualcuno e volete farlo fuori… nessuno ve lo vieta.»
«Niente e nessuno mi impedirà di fare a brandelli questo mucchio di froci», disse il negro.
Egidio Scarpelloni, detto Marmitta, sussultò. Raramente aveva sentito tanta candida determinazione proferita dalla bocca dei suoi amici militanti. Avevano tappezzato la città di manifesti abusivi, allestito banchetti in piazza, lanciato parole roventi nel calderone di internet, ma niente che potesse davvero impedire al fiume di degenerati omosessuali di riversarsi nelle strade cittadine per manifestare il proprio diritto a essere quello che erano. No, Egidio lo vedeva chiaramente: nemmeno uno dei suoi sodali aveva dimostrato mai la risolutezza e il sacro furore che animava le intenzioni di questo negro sconosciuto.
«Vuoi… vuoi vedere la mia bomba?» chiese Marmitta, schiarendosi la voce e tirandola fuori dallo zaino.
Khalid si avvicinò e rimase a guardarla per quasi un minuto.
«Poco esplosivo.»
«Come?»
«C’è poco esplosivo, come puoi pensare che riesca a frantumare lo strato di cemento?»
Infatti Egidio non ci aveva pensato.
«Mh… e della tua che mi dici? Un bell’ammasso di roba, ma il detonatore dove te lo sei infilato?»
«Innescherò l’esplosione con le mie mani, sono pronto a immolarmi in nome di tutto ciò in cui credo.»
«Sì, gagliardo, però… come fai a sapere quand’è il momento di far saltare in aria tutto?»
«Bè, sentirò un sussurro divino… o il corteo di ricchioni passare qui sopra!»
«Con tutto questo cemento? Sei proprio sicuro che il rumore arrivi fino a quaggiù?»
Khalid ci pensò un po’, ma non rispose.
«Allora, signor sporco negro, io avrei un’idea per regolarci. Ho qui un telecomando per il detonatore» disse Egidio agitando in mano il telecomando del detonatore, «premendo il pulsante possiamo far esplodere la mia bomba piccola, così la mia bomba piccola farà esplodere la tua bomba grande e la tua bomba grande farà esplodere la manica di finocchi del corteo… e tutto questo tenendoci a una distanza ragionevole, senza che nessuno ci rimetta la pelle… bè, nessuno dei presenti perlomeno.»
«Mh…»
«Senti, ormai la conosco bene questa zona, ci ho fatto parecchi sopralluoghi. C’è un bar da cui si vede bene la strada… ci piazziamo lì e quando arriva il corteo uno di noi due preme il bottone e lo fa saltare in aria! Booom!»
«Sì, ma chi dei due?» insisteva diffidente Khalid, sospettando una sottesa fregatura.
Egidio fece il saluto scout a garanzia di veridicità e promise: «Tireremo a sorte».
Ormai la città era sveglia e tutta in movimento; i pedoni erano più sereni, quel mattino potevano attraversare senza temere di essere investiti: la strada era stata interdetta al traffico a causa della manifestazione.
L’orzo scuro nella tazza fumante che stringeva tra mani, suscitò in Khalid il pensiero che fosse quello il vero colore di un vero negro. Le sue dita a contrasto – l’avrebbe visto anche un macaco – tendevano più verso l’iroko.
«A che pensi?»
«Al nero.»
«Ecco, appunto…», s’infervorò Egidio fino quasi a rovesciare la sua birra, «parliamone!»
«Del nero?»
«Del nero.»
«Nel senso di “negro”?»
«No, nel senso di “nero”, del colore…»
«Che hai contro il colore nero?»
«Niente, per la miseria. Ce l’ho con voi negri che ce l’avete fregato. Come sarebbe ‘sta storia che adesso il nero è il colore dei terroristi negri? Ce lo avevamo prima noi, era il nostro!»
«Che idiozia, mica ve lo siete comprato. Sai quante squadre ci sono che hanno gli stessi colori? Invece di piagnucolare si sono inventate le seconde maglie.»
«Dici?»
«Che poi, a dirla tutta, giochiamo pure in diversi campionati. Voi siete fermi al secolo scorso.»
«Già, e voi al medioevo!»
Scese il silenzio. Il tintinnio della porta annunciò l’ingresso di un trentenne con i baffi da idiota in cerca di sigarette. La vecchia al bancone aveva finito il suo eterno cappuccino e così, in assenza di altri programmi domenicali, rimase a contemplare le bustine di zucchero ricordando i gloriosi giorni delle zuccheriere. La barista infilava a forza le tazzine nella lavastoviglie, meditando sui messaggi visualizzati rimasti orfani di risposta.
I due bombaroli erano ancora allo stesso posto, appostati al tavolino di fronte alla vetrata: da lì potevano dominare tutta la strada in attesa di veder sgorgare, da un momento all’altro, il corteo dei finocchi.
«Posso farti una domanda?»
«Spara.»
«Perché la celtica?»
«Che problema hai con la mia celtica?»
«Voialtri siete fissati con i romani, no? Salutate come i romani, avete i simboli romani, eccetera… ma i romani si facevano la guerra con i celti, se non ricordo male. Cioè, per capirci: se fanno il derby romani-celti, tu in quale curva andresti?»
«Eh…?! Di che cavolo stai parlando?»
«Vabbè, lascia perdere.»
«Ora ti do una capocciata! Tu mi stai prendendo per il culo.»
«No, no… era solo curiosità, tutto qui.»
«Senti, a noi piacciono i romani perché sono stati i primi italiani e avevano l’impero, va bene? E la croce la mettiamo dove ci pare e piace! Al collo, nelle scuole, negli ospedali e pure dentro le buste di patatine se ci gira. Questo è il nostro Paese ed è un paese libero, quindi fatti gli affari tuoi e mettiti l’anima in pace!»
«Oh, abbassa la cresta, testa calva! Almeno sai dire perché vi rasate?»
«E tu sai dire perché voialtri avete tutti ‘sto schifo di barba?»
«E tu sai dire perché vuoi ammazzare i froci?»
«E tu?»
«Perché mi fanno schifo.»
«Ecco…», sentenziò Egidio lasciandosi finalmente ricadere sulla sedia con un tono di voce più pacato, «…fanno schifo pure a me. Lo vedi che quando si parla di finocchi siamo tutti d’accordo? Persino un negro come te…»
«Tendo più verso l’iroko », precisò Khalid.
«Persino un negro come te di accorge che quei pervertiti sono una minaccia per l’universo. Allora perché i miei connazionali no? Eppure sono italiani! Eppure sono bianchi! Eppure sono etero!»
«Probabilmente sono già felici e hanno ben altro a cui pensare. La gente soddisfatta non ha bisogno di qualcuno da odiare.»
«L’odio è sottovalutato»
«E quello che dico anch’io.»
«Sai… Quello che vorrei davvero, al di sopra di ogni cosa…», balbettò Egidio, «…è dare un segnale che risvegli le coscienze, qualcosa di così potente da spingere il mondo ad aprire gli occhi una volta per tutte, così grande da costringerlo a vedere quello che sta succedendo, a vedere il marcio che ci circonda, a vedere che c’è una razza da salvaguardare… a vedere… a vedere…», tentennò, «…me.»
Si rese conto troppo tardi di averlo detto. Dalla sua bocca traditrice era scappato quel pronome tenuto anonimo e prigioniero per tutti quegli anni, un movente che Egidio non aveva confessato mai nemmeno a sé stesso. Rimase in silenzio, tenendo gli occhi fissi sul tavolino; sapeva di aver appena messo in mano al nemico che gli sedeva di fronte il pugnale da affondare nel fianco lasciato colpevolmente scoperto. Ma Khalid respirò lentamente, vide la propria immagine riflessa nel lucido capo chino dell’uomo che gli sedeva di fronte e si riconobbe. Poi sussurrò: «Io ti vedo».
Passò una piccola eternità. L’orzo smetteva quasi di fumare, le tazzine tornavano alla luce nuovamente brillanti, il registro di cassa dava alla luce il suo ultimo scontrino. Egidio alzò lo sguardo timidamente fino a incontrare – quasi colpevole – quello di Khalid. Entrambi avevano perso le parole e nessun linguaggio li aveva mai accomunati tanto come quel silenzio. Lentamente, il vuoto ovattato che li circondava e teneva al riparo dalla stanza e dal mondo intero cominciava a evaporare, dando respiro, poco alla volta, ai battiti cardiaci che si facevano via via più decisi e intensi, rincorrendosi uno dopo l’altro sempre più veloci man mano che i fischi, i tamburi e gli schiamazzi intrasentiti dal fondo della strada diventavano sempre più incalzanti riversando presto il chiasso prepotente e insostenibile addosso alle pareti dei palazzi fino a sconquassare il quartiere tutto.
Ecco finalmente sgusciare dal vicolo il corteo variopinto e festante degli omosessuali, giunti fin lì a rivendicare il proprio diritto di essere omosessuali. Tutti determinati e consapevoli, armati di slogan accattivanti, megafoni e cori squarciagolati a festa. A guidare la folla c’era un carrozzone colorato d’arcobaleno, e sul carrozzone arcobaleno si ergeva gigante un toro di cartapesta ritratto nell’atto di mostrare compiacente i bicipiti che i tori normalmente non hanno; sotto di lui ventotto presunti ex rugbisti, con i pettorali oliati e le cosce depilate, sculettavano in perizoma a ritmo di samba. A seguire veniva un esercito di marinaretti con cappello, fazzolettone blu, stivali alti e pannoloni rosa, intenti a distribuire dolciumi di gusti diversi ma caratterizzati da univoca fallica forma; subito appresso una banda di ragazze motocicliste piene di borchie e catenacci e scritte irriverenti sulle tette. C’erano antichi egizi, alieni, supereroi, tartarughe ninja, pompieri, ranger dello spazio, pollastrelle, infermieri, cowboy, sirene, tizie strane con le corna, tizi strani con le piume; tutti mescolati in un unico e caleidoscopico minestrone di corpi sguainati, sfidando le temperature basse e lasciando che il freddo rendesse più intriganti i loro capezzoli.
Un occhio più attento avrebbe anche potuto distinguere qualche persona più insipida, diluita nella policromia delle rivendicazioni. Perlopiù si trattava di gente forse noiosa che, vestita un po’ come sempre, sembrava un po’ quella di sempre, quasi a voler testimoniare, incauta, la banale naturalezza di stringere chiunque la rendesse completa anche senza il carnevale, anche durante il temporale.
«Dovresti premere tu il pulsante», decise Khalid. «Hai le radici ben piantate in questa terra, hai più diritto di me di farci esplodere la gente sopra.»
«Non dire idiozie…», mormorò Egidio mentre scuoteva la testa, «sei tu che ti sei caricato sulle spalle tutto quell’esplosivo! Senza di te la mia bomba non avrebbe nemmeno scalfito le pareti della galleria. Premilo tu, davvero… te lo meriti.»
Khalid tentennava. «No, io… io non posso. Il fatto è che…», cercava di dire, mentre tracciava cerchi con le dita sul bordo della tazza d’orzo, «…forse quest’idea delle bombe è tutta un’enorme idiozia. Certe volte mi chiedo… siamo sicuri che il problema siano sempre gli altri? E se fossimo noi… insomma, se fossimo noi a essere sbagliati?». Lo disse di getto per poi pentirsi quasi subito della domanda. Chiuse gli occhi come a ripararsi dalle proprie responsabilità e li strinse così forte da lasciar cadere una lacrima.
Egidio la asciugò con il pollice, notando che la pelle dello sconosciuto tendeva un po’ verso l’iroko. «Non devi dire così, bisogna crederci per cambiare davvero le cose. Credere, obbedire e combattere. Ricorda che non sei solo in questa impresa, capito?». Era una voce calda e comprensiva la sua, come mai lo era stata prima d’ora. Si concesse il tempo di un respiro, poi riprese: «Vorrà dire… che lo faremo insieme, d’accordo?»
Kahlid annuì, tirando su col naso e lasciando che il cuore gli esplodesse. Ecco all’improvviso tutta la nebbia scomparire, tutto diventare semplice e chiaro: capì di non aver aspettato altro per tutta la vita che di accorciare l’infinita distanza che lo separava da quello sconosciuto mai così vicino. Solo adesso si accorgeva che il suo desiderio, senza nemmeno averlo deciso, era già in viaggio per colmare l’infinitezza del tavolino. La sua mano quasi scura perse ogni ritegno lasciandosi soverchiare da quella più chiara che già le correva incontro: le dita si intrecciarono alle dita e le due bocche, anelanti, s’arresero sconfitte alla necessità di conoscersi, lanciandosi unanimi nello stesso precipizio d’abbandono, trovandosi complici nella rotta di collisione che le portò a schiantarsi l’una contro l’altra proprio nell’istante in cui si riversava nel mondo il tripudio della deflagrazione assordante e mastodontica accesa dal piccolo pulsante sul tavolino, premuto dalle due mani congiunte nella comunione degli intenti.
Fuoco, cemento, cenere, grida, fumo, corpi e vetri rotti. Le frattaglie della gente si spiaccicavano contro la vetrata pulita il giorno prima e nessuno avrebbe saputo dire se fossero pezzi di froci o di eterosessuali, di negri o di bianchi, di cristiani o di buddisti, di musulmani o di atei, di laziali o di romanisti, di guelfi o di ghibellini, di Orazi o di Curiazi, di abeli o di caini.
Ma intorno a quel tavolo nulla esisteva più, soltanto loro due, ritrovati sconosciuti.
Niente più trovava senso lontano dall’intreccio delle loro bocche.
Niente aveva ormai ragione di esistere o di essere distrutto.
Niente era importante ora che entrambi stringevano qualcosa di importante.
Niente.
Contava soltanto l’amore.
Matteo Mammucari
Illustrazione: Alessio Avallone
per un attimo ci ho creduto, ma la deflagazione riporta alla realtà
copertina spettacolare! scrittura magistrale. un racconto che ha dei sottofondi ambigui. Mammucari non si smentisce….. questa gente forse si? 🙂
improbabile, alquanto improbabile e fastidioso
non si puo’ dire che Mammucari non tocchi nervi aperti …
Ma infatti! Chiamalo pure amore! Ma va!
Però il racconto è scritto da paura e il disegno è fantastico . Indubbiamente dietro a queste azioni ci sono esseri umani
Una storia d’amore finita in tragedia…perché alla fine siamo umani, imperfetti
Mi è piaciuto. Sempre bravo Matteo.
Bellissimo anche l’ immagine … disegno fumettistico perfetto
Sempre un altro livello questo blog …
ma!? dovevano saltare in aria anche loro……con tanto ammore! :))
ESILARANTE !
Grandioso…bellissimo…ecco come nasce l’Amore…ahahahah…e mo?
Si sono ritrovati come quello che loro schifavano…pensa come vedranno e saranno visti da quelli delle loro “speci”…!
Ahahahah…sarà dura la vita per loro…adesso…ahhhh l’Amore che fa fa…!
Complimenti a Matteo…la sua ironia grottesca potrebbe aver portato alla luce la Luce dell’illuminazione per le menti obnubilate da esaltazioni rancide…!
Mi dispiace per la vetrina appena pulita e subito sporcata…!…ma che dico? Scusatemi…ma sono stato preso dal “grottescanesimo” di questo magnifico raccontino…!
bravooo!!!