Che cos’è la poesia? Domanda complessa e financo pericolosa oserei dire. Anzitutto prendo in prestito l’esordio del “Breviario di estetica” di Benedetto Croce. Il filosofo idealista si chiedeva cosa fosse l’arte; si rispondeva che l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia. Ed è un po’ la medesima risposta che darei al quesito iniziale di questo saggio. Tutti sanno cosa sia ma pochi sono quelli in grado di spiegarlo. La poesia è senza dubbio un’arte altissima, l’arte delle parole. La parola si stacca dal linguaggio ordinario e viene sussunta in una dimensione superna, si fa veicolo dell’indicibile e dei tumulti interiori. «Essa contiene il suono, il soggettivo, il principio del percepir se stessa», come affermava Hegel nelle “Lezioni di estetica“. Io aggiungerei, accodandomi ad un’antica tradizione di pensiero che nasce con Platone, che è «uno dei possibili modi del conoscere». Per assimilare il contenuto della poesia occorre uno sforzo, lo stesso che serve per accrescere il nostro sapere. Questa tesi è stata assorbita dalla filosofia rinascimentale per asseverare che il sapere discende dalla nostra capacità di nutrirlo. Pensatori come Giordano Bruno e Michel de Montaigne erano concordi nel sostenere che se vuoi conoscere devi compiere uno sforzo che nessuno può fare al tuo posto, o lo fai tu oppure resti imprigionato nella tua insipienza.
Ma è giunto il momento di parlare dei nostri poeti, degli ultimi, quelli del Novecento.
Un poeta, quando è autentico, somiglia a quello descritto da Aristotele nella sua “Poetica“. Solitamente non si nasce poeti, lo si diventa; il poeta autentico è colui che arriva ad esserlo involontariamente. Già l’argentino Borges, nella sua opera “L’invenzione dalla poesia“, diceva che la scrittura poetica è “vita rappresa, raggrumata e sublimata“; un respiro lungo che attraversa la vita dell’uomo.
In Italia la poesia del Novecento assume il volto degli ermetici Ungaretti, Montale e Quasimodo.
La brevità del primo fu una rivoluzione, la felice complessità del secondo rappresenta il vertice della nostra lirica. Nel 1959 Quasimodo vinse il Nobel per la letteratura e fu il riconoscimento apicale di questa scuola.
I sentimenti vi si dispiegano interi e il verso assume una passionalità vibrante. Al suo interno si scorgono i paesaggi lugubri del Primo conflitto mondiale, il “grande mattatoio” funge da cassa di risonanza per liriche che raccontano e incidono più di un saggio storico: «…Ma nel cuore / Nessuna croce manca / È il mio cuore / Il paese più straziato» G. Ungaretti.
Il XX secolo ha certamente influenzato le menti dei poeti, con i suoi rivolgimenti in ambito artistico e in seno alla società. La Belle Époque è il sipario che apre lo sguardo sul Novecento. Cento anni di straordinario avanzamento tecnologico che hanno reso le distanze più brevi, le relazioni più immediate, la medicina più efficace, i confini dell’uomo più estesi. Il secolo breve, velocissimo come uno dei cardini del Futurismo marinettiano, trova appagamento intellettuale nelle Avanguardie: Umberto Boccioni e Giorgio De Chirico, futurismo e metafisica, surrealisti e dadaisti.
In ambito poetico dopo gli ermetici vi furono altri grandi come Umberto Saba, Vincenzo Cardarelli, Mario Luzi, Sandro Penna, Dino Campana e Giorgio Caproni. Sino ad arrivare alle generazioni degli anni venti e trenta con Pier Paolo Pasolini, Tonino Guerra, Giovanni Raboni, Alda Merini e Valentino Zeichen. L’opera di ognuno segna il transito di una stagione di sentimenti e fornisce la temperie storico/sociale, la temperatura di un’umanità e traccia i lineamenti dell’uomo moderno. Basti pensare a Pasolini e alle sue raccolte, dove, in alcuni componimenti, emerge vigorosa la denuncia sociale.
Anche ai poeti del Novecento ben si addicono le frasi che Francesco de Sanctis, nel secolo precedente, rivolse a scrittori e poeti: «Gli scrittori e i poeti hanno tutti le qualità degli uomini solitari, il candore, l’evidenza e l’affetto. Hanno l’ingenuità di un fanciullo che sta con gli occhi aperti a sentire, e più i fatti sono straordinari e meravigliosi, più tende l’orecchio e tutto assorbe».
Certamente la poesia del Novecento è stata testimone di eventi catastrofici, all’interno del verso novecentesco si avverte l’inquietudine dei cuori da cui è sgorgato, i timori, l’angoscia. La storia si fa verso doloroso ma, allo stesso tempo, mediante il dolore, genera la luce della rinascita. Il tempo, la storia, il valore delle cose, il senso dell’esistenza individuale, gli aspetti profondi della vita vengono rischiarati dalla poesia di ogni epoca, in particolare da quella che ha camminato accanto al dispiegarsi degli orrori più inauditi. La lettura di una lirica impatta con il nostro intelletto, ma parla alle nostre anime ridestandole. Ci rammenta che se non ci fossero le arti, le ugole della nostra anima, saremmo solo un grumo di materia indistinto. Poiché l’arte poetica è un nucleo di emotività e di pensiero in cui si fondono tutti gli aspetti della vita, tutte le iridescenze dell’umano.
Mi torna in mente la delicatezza estrema di Giovanni Raboni e i suoi componimenti lievi, di una leggerezza calviniana. La forza di Caproni, ancor più la volizione di Sandro Penna nell’occuparsi di poesia al di sopra di ogni cosa. Questi artisti avevano più o meno consapevolmente il dono di “togliere la polvere” e far emergere l’essenza della vita. Talvolta incompresi, equivocati, tenuti a vile a causa del loro stesso dono. Basti considerare la vicenda umana di Alda Merini, la grande poetessa milanese rinchiusa in un fetido manicomio solo perché l’intensità e profondità del suo linguaggio risultavano irraggiungibili a chi le stava accanto. L’ignoranza che acceca e fa scorgere una particella infinitesimale di quello che esiste realmente.
L’atto dello scrivere, anche attraverso la poesia, ha il potere di “documentare” la vita, di registrarla, di eternare gli attimi per non lasciar correre via l’esistenza. Fermare il tempo e lo splendore di un momento, per evitare che, come recita un verso: «…non sapran mai che ce ne siamo andati». Le opere di Cardarelli, Saba, Luzi, Zeichen (recentemente scomparso) e altri ancora, germinano nell’alveo della cartesiana res cogitans. Nascono anzitutto come realtà psichiche: inestese, libere e consapevoli.
La poesia del Novecento e non solo, educa nel significato letterale del tirar fuori. Trarre fuori il bello che è in noi, il bello che riposa nelle nostre latebre e che sovente trabocca nella forma dell’amore. La poesia evocatrice d’amore, suscitatrice di sentimenti alti, irrevocabili e autentici. Proprio così, io credo che l’amore autentico esista, resista e possa estrinsecarsi intemerato solo nell’ambito della poesia, il cui fine è quello di dare forma alle cose dall’anima e ai tumulti del cuore.
Giuseppe Cetorelli
mi sono reso conto che tra tutti quelli del 900 sono i poeti che conosco di meno
grazie a Cetorelli per questo bel post
Pietre miliari dell angoscia umana
come trarre fuori il bello che è in noi dalle più tormentate liriche della storia
un secolo tremendo….
sempre perfetto Giuseppe.
grazie, almeno ritrovo raccolti i nomi piu’ importanti da ripassare ogni tanto
:)))
va be’ Pasolini su tutti !
Il dolore è il dissenso dell’ epoca era in un certo senso catartico !
Grazie G.Crtorelli per questo bel saggio …