Pinocchio: tagliamo i fili…

Ci sentiamo tutti burattini a cui impediscono di diventare se stessi

“Le avventure di Pinocchio. Storia di un Burattino” è un opera che ormai ha più di cento anni, ma che non smette di affascinare. Perché? La mia risposta è che noi tutti ci rivediamo in quel burattino, e mai come in questo momento storico, ci sentiamo spinti e mossi da fili tenaci nelle mani di burattinai senza scrupoli! E proprio come Pinocchio vogliamo diventare “uomini”. Cosa vuol dire? Vogliamo dignità, vogliamo essere liberi di “essere noi stessi”, vogliamo poter decidere dove andare, dove arrivare e cosa fare della nostra vita. Vogliamo tagliare, spezzare, lacerare con tutte le nostre forze quei fili che ci tengono ingabbiati in uno stato di “beata ignoranza”.

E proprio come Pinocchio, per essere liberi dobbiamo “vivere”; vivere coscienti e consapevoli di noi stessi.

 

 

L’uscita prossima del film “Pinocchio“, di Enzo D’Alò, con le musiche di Lucio Dalla, mi ha spinto a riprendere in mano questo classico della letteratura per ragazzi.

Rileggendolo, a più di vent’anni di distanza, sono riuscita a cogliere quelle sfumature, nascoste tra le righe, che da bambina non sono riuscita a percepire.

 

Tutti noi conosciamo quel “birbante” di Pinocchio, per lo più, sotto l’aurea buonista disneyana; ma Pinoocchio non è così ingenuo come “papà Disney” ci ha raccontato: forse, non tutti lo sanno, ma il Pinocchio di Collodi (Carlo Lorenzini) prende a martellate, uccidendolo, il Grillo Parlante; e ancora, nella prima stesura, comparsa sul “Giornale dei bambini“, tra il 1880-1881, Collodi fa finire il racconto con la morte del piccolo burattino, in maniera al quanto brutale, impiccato ad un albero da dei ladri assassini; il burattino sente giungere la sua ora e pensa al padre: «Oh babbo mio! Se tu fossi qui… E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un gran scrollone, rimase lì come intirizzito».

 

Sul significato della storia di Pinocchio e dei suoi personaggi, si sono confrontati numerosi studiosi, dando vita ad una multiforme e incessante interpretazione: è stato letto in chiave antropologica, pedagogica, strutturale-filologica, cristiana, psicoanalitica junghiana e freudiana, alchimistica, gnostica, occultistica, antroposofica, massonica, e perfino i no-global che hanno riconosciuto forti similitudini tra il Campo dei Miracoli e il mito della New Economy, si sono fatti esegeti del racconto.

 

Il libro di Pinocchio è un classico senza tempo e come dice Calvino: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Nel 1981, lo stesso Calvino, in occasione del centenario di Pinocchio, scriveva che la fiaba di Collodi è in grado di generare nella fantasia dei lettori immagini di straordinaria potenza: «Ogni apparizione si presenta in questo libro con una forza visiva tale da non poter più essere dimenticata».

Anche Benedetto Croce si è confrontato con l’opera, arrivando a scrivere che «Il legno in cui è intagliato Pinocchio è l’umanità».

Collodi, caustico osservatore del mondo, aveva un talento naturale nel descrivere con pochi tratti, in una sintesi finissima e spiritosissima, le caratteristiche dei tipi umani, dei fatti, dei paesaggi. Nelle pagine di Pinocchio possiamo ritrovare una realtà che, anche a più di cent’anni di distanza, è ancora attuale.

 

Prendiamo Mangiafuoco: il burattinaio è immagine allegorica dell’esercizio del potere e del suo doppio aspetto: forza bruta e apparente generosità, crudeltà e sentimentalismo, come quando salva Pinocchio che ha appena condannato, ma solo per sostituirlo con un altro innocente, il burattino Arlecchino. Gli uomini-burattino sono sottomessi al potere di Mangiafoco che esiste proprio in virtù della loro vilissima condizione psicologica e gli attributi di questo potere sono la frusta fatta di serpenti perché è “un potere pericoloso” e le code di volpe perché “agisce con l’astuzia, la manipolazione, l’inganno”. La barba nera che lo ricopre rivela che è anche “un potere mascherato, velato”.

Un altro esempio di come Collodi ci racconta il potere è nelle scene che avvengono nel paese degli Acchiappa-citrulli. Cammina cammina ci ritroviamo con Pinocchio, accompagnato dal Gatto e la Volpe, in un luogo completamente allegorico popolato solo da animali. Il paesaggio riflette quella che sarà di lì a poco la sua nuova condizione di povero perché truffato, infatti, i due “malandrini” cercano di rubare le monete d’oro di Pinocchio convincendolo a piantarle nel Campo dei Miracoli. La scena rivela il contesto psicologico da cui ha origine la povertà e l’ingiustizia sociale: l’inganno, la truffa verso il prossimo. Pinocchio torna al Campo dopo una ventina di minuti e si rende conto di essere stato preso in giro, compare allora un pappagallo spennato, questo è una trasposizione di Pinocchio stesso, una sfaccettatura del suo subconscio, al quale, consapevole dell’inganno, non gli rimane altro che farsi la morale. Pinocchio corre in città per denunciare i due al Tribunale. Il Giudice di “Acchiappa-citrulli” è uno scimmione della razza dei gorilla, ha gli occhi malati e porta occhiali senza vetri; dopo averlo ascoltato lo fa arrestare perché è innocente. Pinocchio rimane in prigione per molto tempo e solo quando si dichiara colpevole gli chiedono scusa e lo lasciano andare. Lo Scimmione-gorilla è l’autorità che rappresenta la giustizia. Il gorilla è tra le scimmie più grandi in natura e come scimmia imita goffamente l’uomo. La giustizia è vista come una caricatura, una parodia crudele di quello che dovrebbe essere. Il giudice-scimmione con gli occhi malati e gli occhiali senza lenti è una giustizia che non vede, e nel suo tribunale si arrestano gli innocenti e si liberano i colpevoli. Pinocchio si dichiara colpevole e solo allora viene liberato. Questa è la società che vede Collodi: un mondo alla rovescia, non così lontano da quello in cui siamo immersi ora.

 

Ma chi è Pinocchio?

Giungiamo così alla figura di Pinocchio, su cui tanto è stato detto e tanto è stato scritto.

Le avventure di Pinocchio rappresentino il viaggio dell’uomo verso la maturità; un viaggio pieno di traversie e complicazioni, perché così è la vita.

Vivere vuol dire affrontare il mondo, gioire, sperare, soffrire, e anche sbagliare per poter venirne fuori, poi, più forti e determinati. Pinocchio è la vita e il viaggio stesso: l’opera mette in scena il rito di passaggio che tutti noi compiamo abbandonando la fanciullezza (fisica e d’animo), con i suoi disimpegni e incoscienza, per entrare nel mondo adulto consapevoli del nostro posto nel mondo.

La storia di Pinocchio è la storia della ricerca di un’identità. Il rito di passaggio è definitivamente portato a termine alla fine della storia, quando Pinocchio si trasforma in essere umano e il burattino, “con le gambe incrocicchiate e ripiegate nel mezzo”, rimane senza vita in un angolo. La consapevolezza della propria identità gli viene proprio con questa “metamorfosi”: non è più “una testa di legno”, non è più un “uomo-burattino” alla mercé di uomini-burattinai, pronti a tirare le fila a loro piacere, è un “uomolibero di agire.

 

Il Pinocchio-burattino vive in una condizione simile a quella di Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre, sono “apparentemente” soddisfatti e liberi, ma solo quando mangiano il “il frutto della conoscenza” diventano “realmente” liberi perché dotati del libero arbitrio; così è il Pinoccchio-uomo, ha spezzato i fili che lo tenevano legato ad uno stato di “beata ignoranza”, le brutture della vita lo hanno reso libero, perché affrontandole ha imparato a conosce la realtà.

La conoscenza ci rende liberi!

Katia Valentini

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