La condizione umana è irrevocabilmente inscritta in un disegno finito, la misura della nostra caducità è data dalla fragilità di ogni organismo vivente. Tutto ciò che è vivo conoscerà la morte, e si muore perché si è venuti al mondo. Cos’è che non muore mai? Non avrà termine solo ciò che non è mai stato.
Sul nostro pianeta si sono avvicendate molte specie, si è passati da una estinzione ad un’altra senza posa. In fondo l’umanità è presente sulla Terra da poco, siamo testimoni di un frammento infinitesimo di quel respiro lungo miliardi di anni: dalla grande esplosione che ha dato vita a tutto e di cui ci resta una flebile radiazione di fondo, le innumerevoli costellazioni, il cosmo infinito, l’universo che come una placenta racchiude il Tutto e sfugge invariabilmente alle nostre menti.
Ecco la mente umana non è in grado e, forse, non lo sarà mai, di abbracciare e stringere a sé l’idea che tutto avrà una fine.
La rappresentazione di un “oltre” vita, propria delle religioni, splendente e radiosa ed eterna ne è la conferma e tutte le civiltà hanno sempre avuto un riferimento trascendente a cui affidare il futuro oltremondano.
Oggi l’attualità è scandita dalle notizie riguardanti la pandemia, l’evento pandemico ha indotto a riflettere i più sulla permanente transitorietà delle cose e di noi tutti.
Non avremmo mai immaginato di fronteggiare una situazione così inattesa, che contraddice radicalmente la nostra idea della modernità; eravamo convinti che il mondo odierno ci avrebbe garantito una salute complessiva, persuasi che le epidemie appartenessero ad un passato non riproducibile.
Sino ad un anno fa l’Occidente credeva che le malattie a grande diffusione riguardassero paesi e continenti lontani, meno evoluti e “civili”, oppure che potessero espandersi solo in quel mondo, ai nostri occhi un po’ bizzarro e incomprensibile, che è la Cina. Invece anche la vecchia Europa si trova a fronteggiare un nemico invisibile e distruttivo, il virus è riuscito a penetrare la nostra cortina e mietere vittime senza troppe difficoltà.
Il panico tiranneggia le vite dei più perché nessuno riesce più a dare sicurezze, tutte le nostre certezze sono state spazzate via da un uragano inaspettato, ed ora ci ritroviamo nudi e con poche armi a disposizione. Giustappunto il panico (dal dio Pan) da cui siamo pervasi è legato a quelli che Carl Gustav Jung chiama accumuli della storia, le nostre paure discendono da accumuli ancestrali i quali, anche se non ne siamo coscienti, agiscono nel nostro inconscio e certificano le caratteristiche della nostra popolazione. Dunque tutte le paure più antiche e forti discendono dagli accumuli storici che affollano la memoria collettiva, esercitando una pressione decisiva sulla nostra psiche.
Se è vero che la nostra generazione non ha mai affrontato un contagio mortifero, è altrettanto vero che l’umanità nelle epoche passate ne ha fatto amara esperienza.
Tutti abbiamo in mente la peste cosiddetta bubbonica del ‘600, quella narrata da Manzoni nella Storia della colonna infame e nel capitolo XXXI dei “Promessi Sposi“, quando i monatti raccoglievano cadaveri lungo le strade di Milano.
Ma occorre fare un passo indietro di tanti secoli. Nella Atene del V/IV secolo a.C lo storico Tucidide racconta che il morbo pestilenziale uccise gran parte della popolazione, morì anche Pericle il padre della democrazia ateniese. Quella epidemia di peste si espanse per via dei traffici marittimi, probabilmente partì dall’Etiopia, passò attraverso l’Egitto, poi i persiani e, da ultimo, siccome i persiani erano in guerra con i greci arrivò in Europa. Fu la prima malattia documentata e già allora identificarono i vettori della diffusione negli spostamenti dei popoli.
Cinque secoli dopo nella Roma antica avviene un fenomeno analogo, ce lo racconta Galeno il medico greco di Pergamo, il primo medico che ha fatto la storia della medicina. In quegli anni la grande Roma perse un numero incredibile dei suoi abitanti a causa del vaiolo, il contagio arrivò a toccare tutte le provincie dell’Impero, dalle Gallie alle Germanie ed ebbe un impatto devastante su tutta la dimensione imperiale: il mondo all’epoca era già globale.
Ciò che è curioso è che nel Medioevo, oltre a quelle conosciute, grandi pandemie non ci sono state, questo perché la popolazione era molto ridotta, si stava chiusi nei feudi, nei villaggi attorno ai monasteri e alle abbazie o nelle piccole città, pertanto la migrazione di un agente patogeno era in sostanza elusa dalla struttura stessa che aveva l’Europa.
Nonostante questo durante le crociate, guerre sanguinosissime, gli europei riuscirono a tradurre dall’Oriente un’altra malattia infettiva, la lebbra. Nel XIII e XIV secolo c’erano più di mille lebbrosari in Europa, pensate a queste malattie che si diffondevano a macchia d’olio e che venivano circoscritte in luoghi specifici e in questo modo controllate.
Ora, nella nostra navigazione, siamo arrivati al grande spauracchio, alla peste nera.
Invase l’Europa dal 1346 al 1353, stando alle fonti più accreditate era partita dall’arrivo di una nave che aveva sbarcato a Marsiglia non solo le sue merci pregiate ma anche i suoi topi. I roditori contaminarono prima i marsigliesi, poi il meridione d’Italia, poi colpirono Pisa, tutte le aree di navigazione del Mediterraneo arrivando a flagellare alcune città. Firenze fu interessata duramente dal contagio, rimanendo in Toscana la città di Siena fu scempiata. Passò da 70.000 a 7.000 abitanti una ecatombe incredibile.
Anche allora si capì che una delle poche armi a disposizione era la reclusione, il primo “state tutti a casa” è quello di Boccaccio e dei suoi amici, i quali andarono fuori Firenze in una villa isolata e attesero che tutto passasse. Boccaccio impiegò il tempo a scrivere il “Decamerone“, storia di vitalità, erotismo ed energia, sarà uno dei riscatti quando la morte trasversale avrà cessato di uccidere gli europei.
La Francia perse il settanta percento della popolazione complessiva, anche la Germania fu punita duramente e in taluni casi anche più dell’Italia.
Subito dopo avvenne una rinascita straordinaria, finita la peste cambia la situazione politica, non sono più importanti le città commerciali ma acquistano rilevanza le città che producono alimenti, è il momento di ascesa delle grandi signorie, è il momento nel quale Mantova diventa importantissima, assieme a Milano all’epoca ancora più agricola che bancaria. Ebbe luogo una specie di ripresa trascinante, soprattutto in ambito archittettonico. Dopo la peste mutò il modo di costruire le città, sino ad allora gli edifici erano fatti con pietre accumulate e spesso molto umide, si scoprì che era molto meglio fare costruzioni in mattoni con l’intonaco interno, più pulito, salubre e igienico. Inoltre a partire dalla seconda metà del ‘300 molte di queste pareti di calce bianca, furono decorate da migliaia di pittori, i quali ebbero come allievi quelli che diventarono sempre più bravi gli uni dopo gli altri. In un climax fenomenale si combinarono con quelli che dipingevano le pale d’altare e i fondi oro, con quelli che decoravano i libri con le miniature sino a dare vita alla resurrezione dell’Europa.
In un crescendo impetuoso si arrivò al Rinascimento, prima italiano poi europeo.
Probabilmente, senza il dramma terribile della peste nera non avremmo avuto questa evoluzione di energia, questa voglia di vivere, questa potenza che trasformò l’Italia in un fulcro della cultura mondiale.
La speranza è quella che oggi, come allora, l’umanità possa rinascere dalle sue ceneri.
Giuseppe Cetorelli
Grazie Giuseppe. sempre interessanti i tuoi articoli
ecco… siamo ancora nelle stessa condizioni. ad oggi con tutta l tecnologia che abbiamo ancora viviamo le stesse conseguenze di centinaia di anni fa
DA SEMPRE UN NEMICO INVISIBILE. FORSE SARA’ UNA DELLE CAUSE DI FUTURE ALTRE TRAGEDIE
BEL POST