“Parasite”, un film di ‘classe’

La pluripremiata pellicola sudcoreana ha riacceso un dibattito che sembrava sopito: all'alba del 2020, ha ancora senso parlare di classi sociali?

Con l’espressione “lotta di classe” si intende un principio di stampo marxista che vede contrapporsi gruppi sociali con interessi opposti, spesso individuati come Sfruttatori e Sfruttati, o più banalmente Ricchi e Poveri. Il concetto, per decenni sbandierato dalle Sinistre di tutto il mondo, sembra non essere adeguato ai tempi moderni, assumendo un valore ideologico troppo astratto, effimero e intangibile. Un retaggio di sistemi obsoleti, da libri di Storia, che ormai non può trovare spazio nel mondo globalizzato. Tuttavia, la nostra percezione fa a cazzotti con statistiche crude, che raccontano come il termine “classe sociale” sia ancora idoneo per definire e distinguere le pieghe della realtà e del sistema capitalistico in cui viviamo, che tende a allargare la forbice economica tra ricchi e poveri, appunto. Ma quindi, quanto è importante la famiglia o il ceto da cui una persona proviene? Come sempre in questi casi, il Cinema può ispirarci nella ricerca della risposta. Il film “Parasite” (2019) sudcoreano, del regista emergente Bong Joon-ho, affronta il quesito con una prospettiva cinematografica esaltante e sofisticata, che gli è valsa la Palma d’Oro a Cannes e un Golden Globe.

La pellicola parla della scalata sociale della disagiata famiglia Kim, che agisce seguendo un piano astuto e perfettamente coordinato, come se i quattro membri fossero parte di un unico organismo. La differenza con gli altolocati e benestanti Park – nella cui dimora si infiltreranno come faine, facendosi assumere con arguzia al loro servizio – è palpabile nei dialoghi, nella caratterizzazione dei personaggi, ma soprattutto nelle ambientazioni, negli spazi e nella fotografia. Topaie anguste in cui si lotta per trovare un Wi-Fii e ville di architetti con enormi vetrate e tende indiane in giardino; inondazioni dei bassifondi urbani che sfollano centinaia di persone e pareti immense con quadri dipinti dai propri figli. La contrapposizione assume contorni sempre più volutamente definiti, fino al finale, tragico, in cui l’odio di classe si palesa visivamente, incendiando la scena. Nel film, l’essere “ricchi” o “poveri” raggiunge una sfera antropologica, esistenziale, che definisce gli schemi mentali, i paradigmi del ragionamento dei personaggi. Così, quando la madre della famiglia Kim fa notare quanto sia gentile la signora Park, la figlia risponde disillusa: «Lo sarei anche io, se fossi ricca». Tuttavia Bong Joon-ho non giudica, non lascia spazio per decidere chi siano i buoni e chi i cattivi: ci sono solo persone ricche e persone povere. Ciascuna delle quali vede il mondo in maniera profondamente diversa.

La nostra idea che la classe sociale possa in qualche modo definire una persona è tuttora molto vaga e nebulosa, e fatichiamo a ponderarne l’importanza. Nonostante le disuguaglianze economiche continuino ad aumentare in proporzioni vergognose, questa forma di coscienza comune stenta a prendere piede nelle società moderne, anzi viene spesso confusa e maldestramente mischiata con l’invidia sociale, additata come madre di tutti i problemi. “Parasite”, con una parabola coinvolgente, coerente e stilisticamente affascinante, ci ricorda invece che le classi sociali esistono eccome, in Corea del Sud come nel resto del mondo. Il minimo che possiamo fare è riconoscerle in quanto tali.

Raffaele Scarpellini

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