Nato, non molto adatto alla vita

La vineria è piena di acidi, le situazioni si apparecchiano, ma le circostanze saranno spazzate via da un locomotore in arrivo per qualche assurda stazione del pluriverso: così ebbe inizio l'era moderna

Quando l’ultima notte dell’anno ci schiantammo nella noia non credevamo, non credevamo, fossero necessari tutti quei bicchieri, tutta quella rincorsa sofferenza. Ti sei imbicchierito abbastanza, sfiorisci e ribollisci per i viali del disimpegno, la notte ha un graffio in alto dal cielo ed è una fica e sgorga inchiostro blu viscido e caldo e non sei più e non c’hai voglia e tutte le restanti ore si fanno uguali all’ultima tua ora, quando, marcito e putrefatto sulle strade del disinganno, ti acquatti a non so chi dentro un abbraccio, afferri labbra di non so chi, ascolti un alito di non so chi, proferire parole ebeti e non è il vento e non è per il freddo, ma tutti sono concordi nel dirti che dovresti essere in un altro posto adesso ragazzino. Quelle pietre fredde ti spaccano le ossa, trasuda rugiada e stilla nettare di piante di plastica, una poltiglia chimica e puzzolente. La notte è nell’eterno vagabondare, una zattera nel bicchiere, andare – andare – en marche!, e ti mischi al mosto spremuto, non è dolce, sono gocce di sangue amaro pressate dalle tue vene, è sangue sporco, infetto, la situazione ti scivola di mano, hai perso il contatto, qualsiasi rapporto si è logorato, ora bazzichi come un folle in preda allo smanio di annullare tutto intorno. Il cronista di cronaca rosa giunto al bancone ordina una birra chiara in bottiglia e attende che la situazione si porga in modo favorevole al suo mestiere, eccetto l’oste e il bambino ebete sguinzagliato per il locale come un pazzo – odora i piedi del tavolino e tenta numerose volte di ingropparsi la gamba della signora ottocentesca seduta a bere vino da una tazza di latta – tutti si fanno i fatti loro e bevono da soli. Alle due e trentasette la situazione subisce un brutto colpo di scena: dalla porta a vetri un fulmine cade per strada sfondando i timpani in un boato ancestrale, la tua sorte è segnata, è segnata e con lo sparo comincia lo scrosciare della pioggia, è il diluvio universale ed è l’ultimo giorno dell’anno e tu credevi di passarlo nella stanza del motel Cuori Felici, c’è un gigantesco neon fucsia a forma di cuore trafitto che sporge sull’entrata dalla stradale, steso sopra un letto vibrante con coperte e riscaldamenti, versando birra in lattina sui piccoli seni della bibliotecaria della biblioteca comunale e un sussidio per quando avrai un bambino… E ora siamo sempre cinque minuti dopo quella sorta di revival di immagini disperate, ma siamo ancora qui e la vineria è piena di acidi, nonostante le vetrate vengano scosse e violentate da baleni e fulmini e tuoni e la pioggia scroscia cadendo nel manto viola dell’ultima notte dell’anno. Jack appare dal vapore viola pulsante di morte, era un accordo in mi maggiore di un blues del sottosuolo, ha le spalle basse e chiuse come un verme e la schiena sporca di argilla e due baffi lunghi sporchi di nebbia, scaccia la violenza dal soprabito e ordina qualcosa, poi sussurra ingenuo alla ragazza poggiata «Mi chiedevi dove ci siamo visti prima al centro del tuo pluriverso?».
La donna si volta ed ha un garofano marcio nella tasca dei pantaloni ed una curvatura di culo incredibilmente colma e soave e un profumo di estate succoso come il morso di una pesca matura. La vineria è una caverna piena di acidi, nonostante la pioggia e il caldo tutti sono molto ubriachi di noia e umidi e appiattiti contro i portoni chiusi dei palazzi scostanti. Il pizzaiolo egiziano disoccupato non ha mai sfornato una pizza e si mantiene su un filo e sfiora la rissa col tipo allampanato biondino «Hey coglione non è storia, vola via!», il pizzaiolo egiziano non ha mai capito nulla della linea da seguire e racconta ogni notte una storia delle sue vite precedenti «e io ho un figlio a Belgrado vive con la madre una cabarettista macedone… Hey amigo vuoi pippare?» e tutti sono pieni zeppi di temporali e altri nubifragi per la testa.
Un tipo sta parlando di quando lo misero dentro per spaccio di fantasia e prodotti macrobiotici scaduti – Lei mi sta dicendo, si mi sta dicendo – ascolta, ascolta – sta dicendo che lei non è certo che il Tribunale possa giudicarla in questa stanza e che comunque potrebbe aver altro di meglio da fare che star seduto a spappolarsi la testa coi nostri discorsi inutili? «È questo quello che dice?» Mi domanda ‘sto giudice vestito a festa, che voleva farmi la festa si sa; e allora mi alzai «ascolta, ascolta» mi alzai e gli feci al vecchio incarognito: si trovi un altro trastullo che sia il suo e la smetta di interessarsi a me, la ringrazio. – e tutto un nugolo di bambine scintillanti pendevano dalle sue parole e il tipo lo sapeva così finse di andare a riempire il bicchiere e scappò via dileguandosi nella pioggia. Così le bimbe ci rimasero maluccio, poi ripresero a farsi un altro giro.
La vineria è piena zeppa di acidi, acido io in piedi sulla cambusa della sola nave scampata a questo naufragio, acido il bancone rigoglioso di muffa, anche io, bianco in viso con stinti accenni deboli e rosei tra i peli della barba fioriti.
«Spegnete le luci, spegnete le luci brutte bestie, e andate tutti a nanna».
Wendy piombò con un esterrefatto «Santo cielo ch’è successo?», il suo vestito blues intenso pulsava e accendeva un alone dintorno come sirene della polizia sulle strade bagnate, ed era tutta un agitarsi nervosa su quale battito poi era incomprensibile, né aveva stimoli a prendere l’iniziativa, solo scorreva per dove poi. «Strappami le mutande Billy caro e portami al mare« mi rimuginava accanto e anche io lo farei «Dove?» qui in questa stradina o all’ombra della periferia e già che ci siamo ci si sdraia prima tre o quattro secoli a smaltire la noia racimolata ad aspettare che qualcuno mi riempia il bicchiere in questo postaccio.
E stavamo proprio tessendo la più bella coperta che questa serata avesse mai visto, mai parlato così tanto con gli occhi e gli zigomi indolenziti, però proprio ora mi si presenta questo tale e s’insinua nella stanza privata che avevamo costruito mettendo da parte il rancore e la miseria tra me e te, Wendy cara, avvolta nel blu luccicante del tuo vestituccio, e mi racconta la sua storia e io lo guardo e gli dico «Forse quel che dici ha un senso, ma non capisco cosa vuoi da me» e lui casca a terra incredulo e comincia a perdere sangue da una ferita al polso.
«Oh Fanny! Mosto di fine estate, ho i mostri in testa e non ci sei tu».
Frattanto, nessuno che abbassi il volume della musica ed è tutto un roteare confuso dei pensieri degli altri intorno, a questo punto perciò non so chi ha fatto passare da quel viottolo una locomotiva di piombo sferrando sui sanpietrini, si ferma sbuffando e il capotreno urla «Iiiin carrozza!».
«Oh Fanny! da quanto tempo non entro nella tua maglietta slabbrata».
Il soldato in vacanza si trovava anche lui da quelle parti a sorseggiarsi la notte, era diventato vagamente annoiato della faccenda dell’ultima notte dell’anno e del diluvio universale, che ci avrebbe sommersi nel locale entro pochi minuti, dunque ci convinse a salire sul vagone io e il mio amico Bobby e lasciammo quella desolazione al suo acquazzone.
Era quasi l’una all’incirca e il tempo scorreva al contrario perché prima erano le due e trentasette e, ne sono certo, questa notte si stava riavvolgendo su sé stessa.
«Questa roba che il carbone è più caro dell’aria deve finire e che anche noi abbiamo famiglia giù in Andalusia, e ora prego favorisca il biglietto» chiese il controllore con aria innervosita e zigomi bianchi a Bobby, che stava già disteso scomposto sul sedile, con i sogni all’aria e la camicia aperta, e Bobby s’impuntò di soprassalto e gli urlò «Che cosa fai? Fermati bastardo!» e il controllore ci prese stretti per la colletta del collo con il suo polso d’acciaio e peloso abituato alle fatiche della guerra ci gettò nella prima stazione buia di un abitato pericoloso al confine col mare «Oh Fanny, ma tu dove sei?».
Era la notte più fredda della settimana, ma era anche sabato sera e le ragazze si tiravano su il viso col trucco, quindi Bobby che era un po’ che gli frullava per la testa questa idea qua prese la palla al balzo alla vista del cicaleggio di gambe sul corso «Be’… be’… be’, ma noi che stiamo a fare qua di ben preciso? Si potrebbe per niente seguire questo flusso di sesso?». E quindi ci tramutammo in due pesci e abboccammo all’amo delle borse delle ragazze sui tacchi e i loro profumi dozzinali, ci trascinavano dal naso per le vie sconce di questa specie di abitato in riva al mare, nell’ultima notte gelida dell’anno, e passammo le vie del centro, con l’asfalto lucido brillante sotto le luci alte della strada, e passammo le taverne, le balere e gli spacci, le edicole dei santi appesi e questo era il nostro martirio, in questa notte d’inverno, e le ragazze erano api e Bobby era un fremito e non sapeva dove guardare e continuava a bere come un cammello nelle oasi dei suoi gin tonic e tutto il paese era in fermento anche se non c’era molto rumore, ma Bobby era un diavolo e si muoveva e fermava la gente del borgo, come un ossesso, chiedendo i nomi alle persone e dandosi schiaffetti per rassicurarsi che non stesse ancora addormentato su quella specie di treno e dopo alcuni giri di vasca è inciampato in questa ragazza di nome Agnese – ciocca di capelli nocciola lungo la guancia, stacco di coscia avorio – che gli fa – Tu mi ricordi un vecchio mio amore, forse il primo amore, lui scomparve la fine di un agosto e nessuno fece più nulla… – e Bobby era un fremito e l’annusò negli occhi e le disse – Perdonami, non avrei dovuto tralasciarti, ma posso offriti una birra, parleremo delle tue nevrosi e io sorriderò tutto il tempo- e così andarono via a trastullarsi, lasciandomi lì solo nella piazza di questo posto abbandonato da dio e senza gloria alcuna e con una sbronza di febbre africana da smaltire. Fuori la notte sviava con le ragazze che erano uscite come orsi dalle caverne e ora ci rientravano trascinandosi dietro le loro prede e tutto sarebbe andato così, come doveva andare: avrei aspettato Bobby fare il suo dovere sonnecchiando sdraiato, poggiato tra una panchina e un’aiuola abbandonata col bavero alzato.
Invece la nottata pareva non finire e mi annoiavo lì e quindi presi ancora una birra e accesi una sigaretta e smisi di pensare nel vuoto, uno, due, tre, quanti minuti, come la pausa prima di un film al cinema e allora il tempo non esiste e la scena era stoppata, e arriva questa voce, come un eco calda e ad alto volume, e stavo accovacciato su un gradino di pietra, a bordo della strada, e accanto mi ritrovai queste due labbra sotto un paio d’occhiali da sole che stillavano fiele e nettare «Perché non mi offri una vodka, non mi sembra che io e te ci siamo mai più rivisti dopo quel grande botto». E io pensai «Questo paese in cui si ritrovano tutti sta iniziando a diventare interessante» e lei mi diede il cinque alto, dopo aver attraversato il varco del primo locale «Te la sei vista brutta in quell’incidente» e allora alzai la manica della camicia e le mostrai la cicatrice sotto il gomito e feci cenno col capo, con l’aria di un cane affamato «E avevi un’espressione molto seria su quella barella» e le risposi che «La situazione richiedeva impegno e professionalità e anche tu molto professionale, mentre mi bucavi il braccio» e ora avrete capito che si trattava indubbiamente dell’infermiera che una notte d’estate mi salvò la vita ricucendomi la pelle sgretolata, oppure potrebbe essere una qualunque delle comparse di questo racconto e questo un breve sipario da quarta parete, ma sentirete cosa ho ancora da raccontarvi perché a un tratto lei mi disse dritto sul muso «Forse è il caso che tu mi dica che questo scambio inutile di battute non può portare a niente» quindi s’avvicinò e mi schiaffò un bacio e io mi ricordai, socchiudendo gli occhi, dell’odore di ospedale e disinfettante che mi bruciava il cervello e del suo camice blu elettrico e delle sue mani fredde sulle mie braccia sanguinanti. Come un Cristo. C’era elettricità tra le bocche e le spalle e i respiri e ci si muoveva nevroticamente per le vie del paese, bevendo e cercando un’alcova e quindi girovagammo, spingendoci e stringendoci, e in lontananza scorgemmo la stazione poco illuminata e le proposi di tornare sul nostro treno e lassù, dietro i finestrini appannati della cabina, tra i sospiri e i silenzi, pensai che quel giorno di sole cocente ero stato bravo a non grattugiarmi definitivamente sull’asfalto rovente in mezzo alla campagna desolata.
Mentre la dottoressa – aria professionale, eccitantissima – si rinfilava le calze e il primo chiarore del mattino illuminava il paesaggio dietro i finestrini e io tentavo di infilarmi la camicia, il treno si scosse. Prima con un colpo secco in avanti, poi indietro, poi s’avviò e noi ci guardammo e non ci venne altra voglia che abbassare il finestrino e morire sui sedili.
Ora, il treno non so quanta strada avesse percorso, né quanto tempo all’incirca noi avessimo dormito, so solo che quando rinvenni ero sudato e scontroso con un cerchio alla testa. Il lato sinistro del vagone era illuminato dai raggi del sole che dritti penetravano, attraversando i finestrini, mentre tramontava rosso all’orizzonte- e io osservavo in estasi, rilassato, tra il sudore caldo e le ossa rotte, e dopo qualcuno mi urlò forte «Billy! Non sei un cazzo di quadro impressionistico», ah ecco il gran bastardo di Bobby, emergendo dall’oscurità, nascosto dall’ombra, mi allumava e riceveva in compenso una pedata sul sedere da parte dell’ufficiale negro che ci sorvegliava- ah ecco le mie mani, me le hanno legate e questa ferraglia ai polsi… «Gesù!» pensai, mentre mi scrutavo e ripiombai nel mio incubo. «Hey Bobby perché non fai quella del musicista zoppo?» e sbang, altra scoppola sul collo da parte dell’ufficiale. Io mi infervorai e dissi serio «Si, lo so, vostro onore, mio onore, so benissimo chi ha ammazzato Smith Johnson, l’usuraio, probabilmente io, in una crisi di identità, probabilmente Carl o qualunque altra persona gli doveva dei soldi, ma in ogni caso non è il modo di trattare due poveracci come noi e poi novantanove anni di lavori forzati mi sembra esagerato, dov’è la rieducazione?» ma non accadde ugualmente nulla di rilevante, oltre ad essere occasionalmente pestati dall’ufficiale.
Se non altro due giorni passarono di filato, così sul vagone, tra spintoni e botte. Appena Bobby ne ebbe l’occasione, però, infilzò l’ufficiale negro, trapassandogli il cuore con un vinile spaccato di Nat King Cole «Che ti serva da lezione!» e gettò il cadavere dal finestrino. Allora scendiamo alla prossima stazione, che è un edificio slavo nel mezzo di un deserto caldo, l’ultima notte dell’anno è solo un ricordo sbiadito, «Siamo tornati indietro oppure siamo troppo in avanti, comunque, ormai, fuori tempo limite , c’hanno fottuti» dico a Bobby, che scoppia a piangere e non si capacita dell’accaduto «Non è più un viaggio è sempre stato uno stato patologico e siamo infetti» per cui arrivammo a piedi, seguendo una qualche direzione, nel primo paese possibile, l’infermiera si dette una ripulita e venne assunta in una banca e nessuno di noi la rivide più, Bobby si tagliò i capelli e sposò una mulatta, ci fece trentuno bambini e diciassette centrifughe e andò a vivere in una baracca, poi impazzì e fuggì: si dice sia divenuto calvo, ogni tanto qualcuno lo becca a masturbarsi dietro i cassonetti. Io mi iscrissi ad un corso di musicologia e fui assunto nella reception di un albergo. In questo modo cominciarono per noi i tempi moderni.

 

Giancarlo Pitaro

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