«Dovremmo sentirci offesi tutti / come bandiere a mezz’asta» sono le parole che chiudono come una specie di sigillo “Acqua alta a Venezia”, secondo disco dei Nadiè e tappa fondamentale di un percorso che dal 2005 ad oggi li ha visti calcare i palchi di tutta la Penisola, vincere concorsi ed esordire discograficamente nel 2009 con “Questo giorno il prossimo anno”.
Il nuovo lavoro della band siciliana è un disco rock sulla rabbia. Un sentimento sempre meno frequentato nella musica indipendente italiana, soprattutto come possibilità costruttiva e disvelante, che qui viene spurgata in dieci canzoni cariche di tensione, alla stregua di flussi elettrici in cui immergersi ed uscire purificati. Dieci istantanee collettive e individuali di un Paese invaso da una marea di amoralità e degenerazione etica che ha superato ogni limite – da cui il significato del titolo – aggredendo anche la cultura e la bellezza.
“Acqua alta a Venezia” è un disco cattivo, un lavoro frontale, senza traiettorie oblique, lasciando che siano le metafore cariche di sarcasmo e l’impatto di bpm accelerati, chitarre abrasive, ritmiche incalzanti ed effetti sui pedali a generare una convulsione capace di travolgere l’ascoltatore e amalgamare ogni singolo brano. Non c’è traccia lungo la scaletta che non sia tagliente, anche laddove si fanno largo aperture melodiche o strutture tipicamente pop con ritornelli e strofe corte. E tutto è “suonato” con una volontaria essenzialità strumentale basso-chitarra-batteria-tastiere, senza pattern elettronici e special guest, registrando in pochi giorni a tracce separate ma con un’attitudine live in studio derivante dal lungo rodaggio sui palchi delle canzoni, che nel cassetto erano più di cinquanta.
I Nadiè raccontano l’acqua alta che ha invaso la nostra Venezia quotidiana, ovvero la coazione a sprofondare sotto il peso di ignoranza, religione, disillusione, scarsa qualità della vita, gioventù fuori controllo, malapolitica e malcostume ma anche rapporti personali fra genitori e figli, amici, amanti all’insegna dell’incomprensione, del silenzio e dello sfilacciamento di ogni legame.
Ogni brano è un episodio di vita vissuta, una storia a sé, uno squarcio di verità più o meno onesta, come tessere di un mosaico che si poggiano l’uno con l’altro per creare un personaggio centrale, un corpo di bambino con un volto a testa di coniglio (come nella copertina) che ti fissa senza espressione. A questa figura i Nadiè rispondono con uno sguardo impietoso, in cui la rabbia diventa denuncia e sbeffeggiamento, non evitando “sentenze” che spesso nascondono anche una ferma autocritica.
La tracklist di “Acqua alta a Venezia” vibra di collegamenti interni che se da un lato non rendono il disco un concept-album vero e proprio, dall’altro lo rafforzano in quanto a coerenza e compattezza d’intenti. Ci sono connessioni fra brani più decisi come “Dio è Chitarrista”, “Solo in Italia si applaude ai funerali” e “Bandiere a mezz’asta” che riguardano in modo esplicito uno scenario “politico”. Altri leggermente più lenti, come “Fuochi” o “La bionda degli Abba”, si focalizzano invece su aspetti più intimi, mentre “Gli Sposi” e la title-track riguardano in toto il disfacimento dei rapporti umani. Un aspetto evidente anche in due manrovesci di psichedelia e sarcasmo come “Conigli” e “Breve esistenza di un metallaro” ma pure nell’urticante “In discoteca”.
Ciascun episodio è il punto di vista su un luogo geografico, culturale e mentale nel quale “si applaude ai funerali” proprio mentre tutto intorno muore. Ma forse è proprio la rabbia, la consapevolezza e l’esigenza di non arrendersi insita in canzoni come queste ad impedire che alla fine vinca l’acqua alta. E che tutto sprofondi definitivamente.
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