Ed è quasi come essere felici
«Il mio mondo oggi è crudo, è crudele, è un mondo di un’alta difficoltà vitale. Perché oggi, più che un astro, oggi voglio la radice spessa e nera degli astri, voglio la fonte che sembra sempre sporca e sporca lo è e per di più è sempre incomprensibile».
— Clarice Lispector, “La passione secondo G.H.”.
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Quello che siamo diventati
«Ormai posso vedere da vicino, soltanto da vicino, così da vicino che ciò che mi resta della vista sta diventando quasi una sensazione tattile. Per questo non ho potuto decidere di conservare per me come ultime le immagini di donne e uomini, perché non tutti, non sempre, si possono guardare così da vicino da toccarli con gli occhi».
— Daniele Del Giudice, “Nel museo di Reims”.
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Vivere o morire
«Un giorno, con occhi vitrei, mia madre mi disse: “Quando sarai nel tuo letto, e udrai i latrati dei cani per la campagna, nasconditi sotto le coltri, e non deriderli per quel che fanno: essi hanno sete inestinguibile d’infinito, come te, come me, come il resto degli uomini dal volto pallido e lungo. Ti permetto anzi di metterti alla finestra, a contemplare uno spettacolo tanto sublime”. Da allora, rispetto il desiderio della morta. Io, come i cani, sento bisogno d’infinito…».
— Lautréamont, “I canti di Maldoror”.
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La nostra ultima canzone
Angeli perduti, “Wong Kar-Wai” (1995)
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Chissà dove sarai
«Spesso, mi son chiesto qual cosa sia più facile a riconoscersi: la profondità dell’oceano o la profondità del cuore umano! Spesso, la mano alla fronte, ritto sui vascelli, mentre la luna si dondolava tra i loro alberi in un modo irregolare, mi sono sorpreso, astraendomi da tutto ciò che non fosse il fine che perseguivo, a sforzarmi di risolvere questo difficile problema! Sì, qual è il più profondo, il più impenetrabile dei due: l’oceano o il cuore umano? Se trent’anni d’esperienza della vita possono sino ad un certo punto far pesare la bilancia verso l’una o l’altra di queste soluzioni, mi sarà permesso dire che, malgrado la sua profondità, l’oceano non può esser messo a pari, nel confronto rispetto a tale proprietà, con la profondità del cuore umano. Sono stato in relazione con uomini che furono virtuosi. Morivano a sessant’anni, e nessuno mancava d’esclamare: «Hanno fatto del bene, su questa terra, cioè hanno praticato la carità: ecco tutto, non è una prodezza, chiunque può fare altrettanto». Chi capirà perché due innamorati che s’idolatravano il giorno innanzi, per una parola male interpretata si separano, l’uno verso oriente, l’altro verso occidente, infilzati dagli aculei dell’odio, della vendetta, dell’amore e del rimorso, e non si rivedono più, ciascuno avvolto nella sua solitaria fierezza. È un miracolo che si rinnova ogni giorno e che non è per ciò meno miracoloso».
— Lautréamont, “I canti di Maldoror”.
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Per amore e basta
«Ho affilato il coltello, ma non taglia.
Le mie mani credono di fare il miracolo
di ricucire le parti di una telefonata dopo il clic
di chi erano le parole pronunciate insieme
flic e floc, le esitazioni. Credo che sia possibile
sovrapporre la mia voce a ciò che credo
e sento dire dalla stanza accanto
di non aver paura, di lasciare anche il cielo.
Chicchi di riso sotto le ginocchia. La fotografia
dove siamo abbracciati contro il portale scolpito
la farò ingrandire finché si vedano i mostri
nella cornice che la luce d’agosto non ha cancellato
alla velocità del nostro amore».
— Edoardo Albinati, “Ragazza a pesca di religione” (da Sintassi italiana).
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La prima volta
«Avevo voglia di rispondere a Nayadja Aghatourane, di urlare attraverso la notte calda che la stranezza è la forma che prende il bello quando il bello è disperato, ma restavo a bocca chiusa, e aspettavo».
— Antoine Volodine, “Angeli Minori”.
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E poi ci pensi un po’
“La rabbia giovane”, Terrence Malick (1973)
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Mi parli di te
«Tu hai parlato a lungo di paura, incubo e morte. Tu hai fatto piangere migliaia e migliaia, quando scendeva la sera. Con le tue parole dilaniavi, facendo dolere. Tu hai cantato le lacrime, la solitudine, la disperazione e il sangue. Tu ti sei gingillato con le cose crudeli della vita, le trasformavi in quella che voi chiamate arte. Ah ah. La tua miniera si chiama dolore, e ne hai cavato celebrità e ricchezza, oggi finalmente il trionfo. Ma quel dolore non ti apparteneva. Erano gli altri. Tu li guardavi e poi scrivevi».
— Dino Buzzati, “Il conto” (da Il colombre).
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Sofia Bucci
altra fantastica recensione. questo modo di descrivere un disco e’ strabiliantemente emozionante . riascolto le canzoni con un altro cuoricino … <3
grazie Sofia !
da angeli perduti alla rabbia giovane … wao !!!!! perche’ come i cani si sente bisogno d’infinito, sempre …… vivere o morire !!!!! ;)))
Motta è uno di noi . come la Bucci. :))
ALLA FINE ME LO STATE FACENDO PIACERE QUESTO DISCO…….
…PAGO IL “CONTO”!
:)))
per sempre vivere! un disco che non aggiunge molto ma certamente conferma un talento bellissimo!
grazie Bucci per questa esperienza. stupendo!
la sete inestinguibile d’infinito…. grazie Uki… e tutto dall’ultimo di Motta… :))
grazie Sofia
c’ è indubbiamente un animo profondo in Motta, con semplicità sa toccare le giuste corde con canzoni semplici e bellissime
interessante leggerle anche attraverso il cuore di chi qui ne scrive , notevole esperimento e bellissima lettura….
…….ormai posso vedere da vicino soltanto da vicino così da vicino che ciò che mi resta della vista sta diventando quasi una sensazione tattile ……….. come le canzoni di motta,abiti per la pelle che rivestono il cuore
complimenti a Bucci. post davvero bello bello