Il matrimonio di Beatrice

Racconto breve...

Al matrimonio di Bea ero arrivato con mezz’ora di ritardo, perché ogni occasione è buona per ribadire all’umanità che non dovrà mai fare affidamento su di me.
Avevo dormito soltanto qualche ora e avevo preso il taxi, senza bere nemmeno un caffè.
Quello che mi aspettava era un giorno nero come la pece.

Pieno di vergogna avevo varcato l’ingresso della chiesa e mi ero seduto all’ultima fila dietro un signore grosso come un rinoceronte.
Non avevo il coraggio di sporgermi a guardare, se qualcuno dei parenti o delle amiche di Bea mi avesse visto arrivare a quell’ora, avrebbe storto il naso e pensato che ero il solito, inqualificabile, insipido stronzetto.
Rimanevo acquattato dietro il mio nascondiglio umno e ascoltavo senza interesse le parole del prete.
Nel frattempo mi davo un’occhiatina dentro: era la fine di settembre, arrivava opaco e taciturno l’autunno della mia giovinezza.
Indossavo un abito blu scuro, due taglie più grande.
Dovevo sembrare il più cretino del mondo.
Ma chi se ne frega, questa gente non mi ha mai sopportato ed io, sinceramente, ho sempre fatto di tutto per istillare in loro un sentimento che fosse il più possibile avvicinabile al disprezzo.

Dopo avere recuperato un soffio di coraggio dal mio pavido cuore mi ero sporto sulla sinistra per vedere la sposa.
Oh, era proprio come l’avevo immaginata: Bea, avvolta nel suo candore discreto, lei che non abbaglia ma riscalda, la giovane creatura che non crebbe mai al di fuori della mia mente disastrata.
Che dire, era intrappolata nel bianco fulgido del suo vestito, sul viso aveva impresso un sorriso zuccherino.
Che disperazione ragazzi, al suo fianco, imponente come un monumento ai caduti, sorgeva questo bastardo dritto e slanciato, ovro, presumibilmente, il suo futuro marito.

Che strana sensazione, il vento che ti soffia sul collo e ti liquefa i pensieri, ti strattona nella tomba dei ricordi per ripensare a storie antiche.
C’era stato un tempo non troppo lontano in cui Bea era mia ed i suoi occhi turchini erano il mio intimo, appassionatissimo sollievo.
C’era stato un tempo non troppo lontano in cui le dita delle mani si intrecciavano in nodi luminosi, in labirinti, nella tenerezza muta di sua maestà la simbiosi.
Ma poi si sa come vanno queste cose, si comincia a sbadigliare, si perde il conto e non si guarda il calendario, ci si dice “amore mio, ciao o addio, ci vedremo prima o poi, semmai in un’altra galassia in cui ci salutiamo con la mano e non possiamo più darci dei nomignoli”.

Dunque eccomi là, conciato da far schifo, in ritardo come sempre, al matrimonio che doveva essere il mio.
Ma ero ancora abbastanza lucido per capire che non era il mio matrimonio.
Nemmeno per sogno. Lo sai, mio caro, i premi sono per chi vince e tu hai un talento invidiabile nello scendere dal podio e guardare le premiazioni da lontano.
Perché lo sai, alla fine Bea sposerà questo stronzo fenomenale, perché questo è il loro treno, perché è giusto così, perché il bene tionfa sempre e tutte queste cazzate di matrice americana.

Proprio a valle di questa pesante riflessione, il prete aveva suggellato il matrimonio, gli sposi si erano baciati ed era cominciato uno scroscio di applausi lungo almeno tre minuti di agonia.
Che cosa vuoi che dica?
Vorresti vedermi lanciare un pugno di riso per gli sposi?
Non posso, non lo farò, non canterò nulla e non augurerò lunga vita a nessuno.
Sono solo l’ennesimo adulto scomposto e fuori tempo che è andato a salutare ogni possibilità di redenzione.
Bea percorre la navata centrale della chiesa, mano nella mano con quest’uomo e allora capisco che io non crescerò con lei e non invecchieremo insieme, non so nient’altro, il mio destino è nelle mani fredde delle stelle, forse aprirò un’edicola, forse un’agenzia di viaggi, quasi certamente non pagherò le tasse.
Gli sposi si avvicinano, iniziano ad avvicendarsi stormi di palpitazioni nel mio cuore.
Saluto Beatrice cercando di non far trasparire l’emotività che mi rovista dentro.
Lei è contenta di vedermi, mi sorride sincera, mi chiede come stai ed io sussulto, mi specchio nei suoi stretti denti bianchi e mi sistemo il ciuffo.
A quel punto il marito prende la parola
«Oh ma tu devi essere Giosuè…».
«No, io sono Giuseppe, non sono Giosuè».
Lo avrei voluto uccidere, ha fatto lo stronzo, sapeva benissimo chi fossi e come mi chiamassi, d’altro canto sono l’uomo della vita di sua moglie, certi nomi non dovresti mai dimenticarli.
La verità è che io al matrimonio di Beatrice proprio non dovevo venire, avrei dovuto ringraziare e declinare ogni invito, in questo momento sarei dovuto essere a casa sul divano, o al massimo a giocare a carte nel mio circolo “la confraternita del tressette”, insieme ai miei amivi con ottanta e passa anni di avventure sulle spalle.

Ci spostiamo al ricevimento.
E’ una villa in campagna, l’aria è fresca, profuma di lavanda, pulisce i pori, leviga i volti silvani della moltitudine di invitati.
Io non ho soldi per prendere un altro taxi che mi porti al ricevimento.
Riesco a trovare un passaggio in macchina con un cugino di Beatrice, tale Edoardo, un tizio pesante come il piombo, fissato con la caccia e con tutta una serie di cazzate da nobile decaduto.
«Ma perché scusa, te non sei mai andato a caccia?».
«No Edoardo, mai in vita mia».

Tutto procede mestamente e prende la strada che porta in fondo alla pancia del destino, agitato da ventate prodigiose e dall’ondeggiare lento di succhi gastrici arancioni.
I camerieri servono un cocktail, poi ci disponiamo sulle ovali tavole imbandite.
Al mio fianco si siede Edoardo che si lancia in un lungo monologo sulle proprietà salvifiche del ragù di cinghiale spagnolo.
Dopo l’antipasto mi dirigo verso il bagno.
Mi chiudo a chiave e consumo il mio bisogno liquido.
Esco e comincio a insaponarmi le mani, nell’anticamera con lavandino, asciugamani e tutto il resto.
Fuori intravedo lui: il marito stronzo della mia potenziale moglie, che parla al telefono nel corridoio, in procinto di entrare nel bagno.
Senza nemmeno pensarci mi allungo e afferro la chiave del bagno, senza farmi vedere.
Mi asciugo le manine, lui finisce di parlare ed entra, mi scaglia sopra un sorriso falso e beffardo.
Il mio nemico chiude la porta e inizia a pisciare, sprezzante, molto sicuro di sé, incurante del fatto che non ci sia la chiave.
Io sono l’aquila reale, lo spirito volante e starnazzante che plana perentorio sulla vita e la artiglia, la aggredisce, scaldato dall’animo ridente di Beatrice, la donna che era mia e che non ritornerà: tiro fuori dalla tasca la chiave e chiudo quel bastardo dentro il bagno.

Lui prende a sbattere i pugni, a inveire, a bestemmiare in tutta la sua debolezza sfiancata.
Torno a sedermi al tavolo e parlo con il vecchio Edoardo di quanto possa essere piacevole una passeggiata a cavallo tra gentiluomini, al tramonto di una mite giornata settembrina.

Per carità, lo so, non ho risolto nulla, il marito di Bea riuscirà in qualche modo ad uscire dal bagno, poi domani all’alba partiranno insieme per la luna di miele ed eterneranno il loro amore, avranno dei bambini ed io rimarrò per sempre un flebile ricordo.
Tuttavia avevo voglia di dimostrare a me stesso di essere ancora giovane e guascone.

di Giuseppe Catanzaro

 

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