Marmorto (Part.2)

di Monica Nardozi

Parte 2 di 2

(Prima parte)

 

Un urlo strozzato mi ha fatto svegliare. Come liberato dal gancio che tiene una molla, rimbalzo seduto a faccia avanti. Sfrego la fronte e lo zigomo contro il panno ruvido che mi avvolge dai piedi alle spalle. Mi sento la faccia tesa come se qualcuno mi stesse tirando dai lobi per appendermi ad asciugare.

Chi ha urlato? Sono stato io? Sognavo di essere in mare aperto, ho sognato del negro, ho sognato che cercava di affondarmi per salirmi in groppa e usarmi come zattera. Esco in coperta e subito la donna con le tette a melone mi viene incontro. È sera, stanno mangiando, seduto al piccolo tavolo c’è l’uomo che mi ha rianimato. Vengo su guardingo e prudente, prima che gli occhi si abituino alla luce fioca di una candela. L’uomo fa segno di sedermi e mi offre una sigaretta, poco dopo la donna mi porge un piatto con dentro una pappa gialla e tocchetti rosa. Con il pollice contro il mento faccio segno che voglio bere: ho sete, tutta la sete del mondo. L’uomo mi parla ancora in due lingue diverse, mi dice che sono italiani: certo, genio, l’ho capito che siete italiani. La donna prova un blablabla veloce e subito dopo mi mostra il tubetto di sbobba che prima mi ha spalmato sulla faccia. Certo che voglio la tua sbobba: ho le labbra in fiamme, forse rimarrò ustionato a vita.

Blabla bla blablabla. Non hanno ancora capito che non è possibile intendersi a parole, continuano a parlarmi con un tono caldo e rassicurante, con frasi piene di vocali, con le bocche sempre più aperte. Blaaablaaablaaa. Che brutta lingua che è l’italiano, che dio mi protegga.

Allora l’uomo fa uno schizzo su un foglietto a quadri, disegna una barca. Che cazzo vuol dire? Lo so che siamo su una barca. E allora? Prendo il foglio e disegno anch’io una barca con tanti omini a bordo, poi il mare e tra le onde un uomo a galla, io, e uno steso, galleggiante, morto: si capisce che è il morto. Faccio due cerchi spessi attorno al morto, voglio sapere del negro, glielo passo.

Loro si guardano perplessi. Gli faccio cenno con l’indice calcando forte sul cerchio che incornicia il negro: allora?

L’uomo comincia a fare smorfie strane con la faccia, con le mani: indica me, la donna, poi ancora me, poi il mare. Non capisco un cazzo. Riafferra il foglio e disegna ancora. Disegna di nuovo una barca, più grande, senza vele, la rifinisce con una striscia sui bordi e scrive: SOS. Mi guarda e punta l’indice verso il mare aperto, poi tracciando una lunga parabola torna a puntarlo su di me. Ripete il gesto due o tre volte: SOS. Mi volto in direzione dell’orizzonte seguendo con le torsioni del collo il suo dito da là a qua, dal mare a me: SOS. Poi ci arrivo.

Merda: SOS. Hanno chiamato i soccorsi, hanno avvertito la capitaneria di porto, hanno avvertito la polizia, verranno a prendermi, tra poco saranno qua, mi porteranno via, mi rispediranno a casa. Maringlen, sorella mia, come faccio? Non posso tornare a casa, non posso, bastardi maledetti, mi hanno fregato, ho pagato 2.000 euro per salire su quella merda di bagnarola, non mi ci farete tornare indietro, col cazzo che ci torno. Scatto in piedi mandando all’aria il tavolo con tutti gli stupidi cocci che lo imbandiscono. A piedi nudi cammino sulle stoviglie, sulle forchette, perdo l’equilibrio ma non cado, punto una mano a terra e con un colpo di reni sono ancora su, corro come preso da una scossa elettrica, in un attimo sono a poppa. Uno due, mi butto: tre. Cazzo, non posso tornare laggiù. Mi volto e vedo l’uomo venirmi incontro. Faccio per saltare e gli intimo di non avvicinarsi. Che mi butto, giuro che mi butto se fai un altro passo brutta testa di cazzo. Pare che questo lo abbia capito: rimane fermo lì dov’è, immobile come un animale impagliato. La donna lo chiama: Roberto, Roberto…

Roberto, dico anch’io, ma non so che cosa aggiungere perché non so cosa fare: sono in trappola. Guardo di nuovo il mare, è una latrina buia e orribile di olio nero e morte, mi sporgo con un piede nel vuoto, chiudo gli occhi, trattengo il fiato. E un secondo dopo sono addosso a Roberto, con una testata gli spacco il setto nasale. L’uomo ruzzola a terra contratto dal dolore, lo colpisco ancora una due tre volte, tre calci alla bocca dello stomaco, Roberto mugola in una pappa di sangue e schiuma dalla bocca, la donna urla impietrita, non sa far altro che urlare, idiota, avrebbe potuto darmi una botta in testa con una bottiglia piuttosto che frignare. E invece devo occuparmi anche di lei. Le mollo un pugno in pieno viso, cade, l’afferro per i capelli e la scaravento sottocoperta, stramazza di faccia conto il piede del tavolo per le carte nautiche, deve aver dato una gran botta perché un suono greve rimbomba come un boato in una grotta. Ha perso i sensi, non si muove. Torno da Roberto che continua a contorcersi come un cetaceo arenato, lo trascino per le caviglie e scaravento anche lui di sotto. Un secondo dopo mi ritrovo a guardarli, la donna ancora svenuta e Roberto una maschera di sangue, con gli occhi sbarrati di chi non può credere che stia succedendo proprio a lui di essere fottuto da uno stronzo ripescato in mare. Li attorciglio ben bene a forma di doppio insaccato, con i polsi legati stretti e violacei a una estremità del tavolo e le caviglie alla porta del cesso.

Adesso devo riflettere.

Fuori, a parte il caos dovuto al ribaltamento del tavolino, tutto è calmo, tutto è ordine e silenzio. Ogni tanto mi arrivano da sotto i mugolii di Roberto che, bavaglio in bocca e naso fracassato, prova a protestare per la fine ignobile che gli è toccata, ma non mi lascio disturbare. Devo pensare, vado su e giù sul pontile, mi guardo attorno, cerco la candela tra le macerie di cibo appallottolato ovunque e plastica rotolata. Mi accendo una sigaretta e ridò vita alla fiammella che circoscrive una porzione dolce e morbida di spazio rassicurante, riesco a rilassarmi, stendo le ginocchia, aspiro e inspiro lentamente, dal naso lascio che il fumo vada a mischiarsi spedito alla luce fioca della candela, mi piace, fa un bell’effetto, mi sembra di essere in una sauna con l’asciugamano attorno ai fianchi e una cedrata da sorseggiare piano. Mi guardo attorno.

Le barche a vela hanno il motore, lo so. Questa non è la prima volta che ci salgo. A Vlore, il padre di Sali d’estate faceva attraccare le barche al molo e la notte ci dava il permesso di salire a bordo per dare un’occhiata: nel caso in cui avessimo trovato qualcosa di interessante avremmo steccato in tre, ma non c’era mai niente di grande valore, robetta, qualche orologio, poca bigiotteria, creme solari…

Spengo la cicca e mi accosto al cassone dentro cui dovrebbe esserci il motore, apro e… C’è! Devo far partire questa merda e cambiare rotta, non ci devono trovare. Arriverò in un punto qualsiasi lungo la costa, tra gli scogli, lontano dal faro, lontano dal porto, abbandonerò la barca, a nuoto arriverò a terra e poi sarò libero. Ecco, questo è quello che devo fare.

Scendo sottocoperta, afferro la carta. Roberto mi guarda nella sua maschera di sangue, gli occhi allampanati che sembrano volersi scagliare via dalla fronte e fare una passeggiata. Mi fa pena. Gli svuoto una mezza bottiglia d’acqua sulla testa e piano piano, lavando via il sangue, ricompaiono le labbra e il naso, gonfio come una pera e accartocciato tutto verso sinistra. Fa impressione. Gli porgo la carta, lui non reagisce, mugola, dovrei togliergli il bavaglio ma non me la sento, comincerebbe a frignare, lo so, gli italiani non hanno fegato, sono tutti delle mezze checche con quei foulard attorno al collo e quelle facce piene di cerone. Gli indico un punto sulla carta. Siamo qua? Dico. Lui niente. Siamo qua? Minaccio, alzando il tono. Lui scuote la testa. Qua? Ancora no. Qua? No. Dove cazzo siamo allora? Non può indicarmi il punto, è legato come un salame, ma certo non faccio la stronzata di liberarlo. Mi guardo intorno e i miei occhi si poggiano sul compasso caduto a terra, incastrato in un angolo. Lo accosto alla sua faccia, ma Roberto si agita, sbuffa urla soffocate dietro il bavaglio. Non ti faccio niente, idiota, pensa che voglia infilarglielo in un occhio, perché dovrei? Imbecille. Scosto il bavaglio quanto basta per intravedere una fessura tra le sue labbra e glielo caccio in bocca, stampandogli la carta contro il muso. Ora dimmi dove siamo, dimmelo! Roberto capisce e con un colpo di mandibola segna un punto preciso nella distesa d’acqua. Ci infilzo l’aculeo del compasso e faccio per tornarmene fuori quando l’occhio mi cade sulla testa della donna che segue sballottolando il moto delle onde. Non sarà mica morta? Le tasto l’aorta. No, è viva, solo svenuta. Le scarico addosso l’altra metà della bottiglia, ma niente. Pazienza, si riprenderà.

All’esterno mi studio la carta, non siamo lontani dalla costa, col motore ce la possiamo fare in un paio d’ore, però devo cambiare rotta, mi avvicino al timone, disinserisco il pilota automatico e… No, cazzo, devo prima accendere il motore.

Ok, ci provo. Ripeto le operazioni ripassate a mente e zack, la macchina si mette in moto, è viva, funziona. Do gas e viro tutto a sinistra, la barca si piega violentemente, sembra capovolgersi, si solleva gigantesca da destra a sinistra, quasi mi rimbalza in mare, puttana, mi tengo stretto al timone, si sollevano ettolitri d’acqua, ho girato troppo in fretta, i due di sotto saranno sommersi da un’apocalisse di cianfrusaglie e tutto il resto, gli alberi si piegano, le vele toccano la superficie del mare, l’acqua entra dappertutto, ma non mi preoccupo: sono o non sono studiate a posta queste bagnarole per non ribaltarsi mai? Riprendo finalmente la rotta, la barca si riadagia tranquilla sulla superficie delle onde, fluttua e va veloce, insomma: più veloce di prima, ma non basta. Ingrano un’altra marcia, in fondo è come guidare un trattore, c’è un piccolo scatto, ma non quello che mi aspettavo. Guardo le vele spiegate: ecco perché! Bisogna arrotolarle, cazzo, non si può andare a motore con le vele spiegate, rallentano la corsa, sono inutili, le vele servono solo per il vento, per andar piano, per quelli che vanno in vacanza e non per i fuggiaschi, per i clandestini, per i disperati come me. Abbandono il timone e mi dirigo verso il fiocco. Arrotolo prima quello, perché da quanto mi ricordo è il più facile e in cinque minuti me la dovrei cavare, poi forse basta arrotolarne una sola di vela, meglio iniziare dalle cose semplici.

Slaccio una cima grossa come una salsiccia tesa attorno a una specie di rullo gigantesco, do fiato alla corda e quella va, va per davvero, la vela si affloscia piano piano come un pallone forato. Con la corda tra le mani mi avvicino all’albero, devo raccogliere quel che resta della vela accasciata attorno al legno in modo che stia buona e non sia d’impiccio, mi avvicino e inizio ad arrotolare chilometri di fune e di telo umido e scivoloso. Sono a piedi nudi nel pantano di schiuma che continua a schizzare malgrado il mare sia una tavola e il cielo pieno di stelle. Perché cazzo si agita tanto questa barca? Cazzo, il pilota automatico. Ho lasciato il timone incustodito, la barca sballa in balia del nulla, sembra impazzita, non prende una direzione, mi pare quasi che si stia attorcinando su se stessa, prua e poppa si librano pesanti nel cielo facendo a gara a chi arriva più in alto, mollo il fiocco e la fune e mi dirigo verso il comando.

Faccio un passo e una sbuffata di schizzi e schiuma mi inzuppa dalla testa ai piedi, mi scosto dalla fronte i capelli appiccicati e salati lungo tutto il viso fino al mento, metto a fuoco il timone, devo arrivarci in fretta, la candela si è spenta da un pezzo, non vedo un cazzo, il suolo mi si scioglie sotto i piedi, scivolo, ma riesco a non cadere aggrappandomi ai bordi di ferro, un rumore stridulo mi schiaccia i timpani, viene da dietro, mi aggredisce alle spalle, dietro la nuca, ho solo il tempo di voltarmi ma non di mettere a fuoco l’immenso telone bianco che mi si sta schiantando sulla faccia, mi schiaccio schiena alla ringhiera facendomi più piccolo di uno sputo ma la botta arriva lo stesso, agghiacciante, malvagia, contro lo sterno, contro il mento che rimbalza all’indietro e sbilancia il corpo e la testa al di là della protezione di metallo, piedi all’aria e testa in giù, sono in aria lungo e contratto verso il buio, un attimo che sa di millenni e poi il mare mi ingoia dalla testa, gli occhi la bocca, mi risucchia avido fino alle caviglie, mi manda giù, a fondo, lontano, nel luogo più buio della memoria, silenzio senza fiato, mi muovo a rilento, sono finito in acqua, devo riemergere in fretta, devo riprendere la barca, vengo su strozzato, sputo bile e poltiglia salata, muovo le braccia in un gesto automatico, sto nuotando, disperato, inferocito, nuotando come un pazzo, come un razzo moscio verso quella fottuta barca che sola e sbarellata si allontana a vista d’occhio, nuoto, la raggiungerò, giuro su mio padre, nuoto e nuoto, un braccio dopo l’altro seguo la scia del motore, vedo ancora l’albero maestro, lo vedo, vedo la prua, la vedo, nuoto nuoto senza badare al torace che a ogni bracciata si riempie di lame, la vedo ancora, si allontana sempre più macinando schiuma e miglia e speranze, la vedo piccola e sempre più scura, si confonde tra pennellate di buio pesto, la scia è sempre più sommessa, è il ricordo di un manto, di un mantello sfilacciato, non la vedo più, l’ho persa, giro come una trottola su me stesso, tutt’attorno a me è buio e livido, ancora acqua, ancora sale, sono sfinito, trivellato dai crampi, mi esploderà una gamba, sento il torace spaccarsi in due come un melograno sanguinolento, mi esplode il cuore, si spappola implodendo nella gabbia toracica.

Sono fottuto.

 

Mi chiamo Visar Zihiti e le mie dita sono diventate molli e rugose come la melma delle alghe tra gli scogli. Sto facendo il morto a galla.

 di Monica Nardozi

 

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