L’uomo prova empatia per i robot

Scansioni funzionali a risonanza magnetica del cervello mostrano le stesse reazioni quando un robot viene minacciato allo stesso modo degli esseri umani

Inchiesta sull’empatia tra esseri umani e robot utilizzando misure psicofisiologiche e fMRI”: così si chiama il rapporto che Astrid Rosenthal-von der Pütten e Nicole Krämer hanno presentato alla 63° conferenza annuale della’Associazione Internazionale della Comunicazione, tenutasi a Londra dal 17 al 21 luglio 2013. Credo che sia il caso di fare le dovute presentazioni.

Innanzitutto questa relazione riguarda quello che è il rapporto di empatia, possibile a stabilirsi, tra uomini e robot. Le due studiose citate sono coloro che si sono interessate alla relazione uomo-robot e che hanno compiuto esperimenti in tal senso. Credo che sia opportuno analizzare dapprima cosa si intende per empatia, poi il rapporto di empatia che stabiliamo con degli oggetti fittizi, cercando di capire se anche i robot possono essere considerati tali dato che sono costruiti da noi, e poi presentare gli esperimenti eseguiti, le loro finalità e la loro utilità, per dare una degna conclusione alla nostra disamina, tutto nel futuristico quadro di una umanità che potrebbe presto dover interagire con dei robot, o automi.

 

Il primo ad analizzare l’empatia nel rapporto tra uomo e uomo fu Husserl (cfr. E. Husserl, “Le idee per una fenomenologia e per una filosofia fenomenologica“, a cura di V. Costa, Einaudi editore, Torino 2002). Prima di lui Vischer aveva parlato di empatia come quel fenomeno di proiezione di sé nell’oggetto d’arte, quindi riferendosi esclusivamente al rapporto estetico che l’uomo stabilisce con l’oggetto frutto di produzione artistica. Secondo Husserl l’empatia è quel fenomeno alla base di tutte le relazioni umane. Sempre a partire dallo stabilire una relazione con qualcosa di esterno a noi, nel rapporto intersoggettivo l’empatia nasce perché l’altra persona non è concepita come mero dato fisico, ma come un altro che vive in un mondo di significati, mondo che ha in comune con noi. Ed è in questo modo che è possibile anche mettermi nei panni dell’altro.

 

Chiarito come può essere intesa l’empatia, possiamo capire come sia possibile che questa nasca con gli oggetti fittizi, quelli propri della letteratura e di cui leggiamo, per esempio, nei romanzi. Senza dilungarci troppo (per approfondire la questione rimando alla lettura di un piccolo e piacevole saggio che discute proprio di questo tema e che si chiama “Chi ha paura di Mr. Hide?“, di C. Barbero, pubblicato da Il Melangolo, Genova 2010) definiamo subito gli oggetti fittizi come degli oggetti inesistenti, perché creati all’interno della finzione letteraria, ma ontologicamente esistenti, nel senso di oggetti delineati da precise caratteristiche e particolarità, il che ci rende possibile provare dei sentimenti e delle emozioni a partire da ciò che succede loro.

La domanda ora è questa: possono i robot, e secondo me è necessario parlare più specificatamente di automi (umanoidi), suscitare in noi emozioni come ad esempio quella dell’empatia? Bhe, forse sì, ad una prima analisi. Riflettiamo un attimo: i robot sono prodotti di fantasia, però anche se creati dall’immaginazione, assumono una consistenza reale. Quindi credo si possa dire che riassumono in sé sia le caratteristiche degli oggetti fittizi, in quanto produzioni della mente umana verso cui è possibile provare emozioni, sia quelle dell’uomo verso il quale proviamo empatia, in quanto condividono il nostro stesso spazio vitale.

 

Quanto è stato esposto forse riesce a chiarire gli esperimenti condotti in quel di Washington dalle due studiose citate precedentemente. La questione alla base dei loro esperimenti, due nello specifico, riguardava la reazione emotiva degli uomini nei confronti dei robot, e io insisto con gli automi perché questi, avendo fattezze umanoidi, guadagnerebbero punti nei nostri cuori, rispetto al robot a forma di disco che pulisce da solo i nostri pavimenti e che quindi di umano non ha proprio nulla. Il primo esperimento, condotto anche da Matthias Brand, coinvolgeva 40 volontari messi davanti ad un video, in cui un piccolo robot-dinosauro veniva trattato ora affettuosamente ora violentemente. Si rilevava nei volontari un certo grado di eccitazione psicofisica, quindi si poteva chiaramente riconoscere una loro reazione emotiva alle scene viste, avvalorata dalle loro stesse testimonianze alla fine della proiezione.

Il secondo studio era più complesso, in quanto investigava sulle diversità correzionali tra i rapporti tra esseri umani e quelli umano-robot. Ai 14 volontari erano mostrati dei video, i cui protagonisti erano un uomo in uno, un oggetto inanimato in un altro, e un robot in un altro ancora. I trattamenti erano sia affettuosi che violenti. In collaborazione con l’Istituto di Risonanza Magnetica Erwin L. Hann di Essen, tramite scansioni funzionali a risonanza magnetica (fMRI), si è rilevato come sia nel caso di affetto sia in quello di violenza, negli spettatori vi fossero reazioni emotive, a vedere sia l’umano che il robot. Ma nel caso di violenza, queste reazioni erano di maggiore intensità.

Tutto questo è utile al fine di implementare dei modelli emozionali da impiantare nei futuri robot, che dovranno interagire direttamente con noi.

 

Ma è un bene dotare dei robot, degli automi, di emozioni umane? Anche i robot saranno soggetti ad una evoluzione non più dipendente dall’uomo? E se questi si evolvessero talmente tanto da ribellarsi a noi? Forse saremo più contenti se diventassero dei robot come quelli di “Futurama” che come quelli descritti da uno dei protagonisti de “La mappa del tempo“ di Felix J. Plama.

Roberto Morra

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