Luca Crovi: “Il Cuore Nero delle Donne”

Un'antologia quasi come una saga del delitto al femminile nei tempi, che celebra i grandi delitti della storia commessi da donne

Otto cuori neri di donne che dall’antichità al Novecento sono entrate nel “mito” come assassine: sono loro le protagoniste dell’antologia curata da Luca Crovi

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Storie di sangue e di delitti. Alcuni famosi, altri meno conosciuti, ma tutti con un denominatore comune: l’incontrollabile passione umana che scatena la furia e che può spingere persino all’assassinio.
Ma se il male è facile da leggere mettendosi nei panni della sua vittima, non lo è quando ci si veste di quelli del carnefice. E se il carnefice è una femmina, incastonata nello stereotipo violento di una dolcezza perfetta, tutto si complica.

Con questo libro (Guanda Ed.), di appena 300 pagine, Luca Crovi ci presenta otto penne rosa del noir (più un uomo), riunite in una antologia, quasi una saga del delitto al femminile nei tempi, che celebra i grandi delitti della storia, commessi da donne.
In un asse temporale lungo millenni, si ripercorre la vita di otto di loro. Da Clitemnestra a Rina Fort, passando per una Locusta e una Saponificatrice. Donne oscenamente perverse nel loro destino di vittime e carnefici. Vittime di convenzioni sociali o di genetica follia, carnefici di uomini e donne e bambini di cui incrociano il destino.

C’è Clitennestra la mitica, indifferente, altera e insoddisfatta sposa di Agamennone, un vero mostro di egoismo di Marta Morazzoni; dell’insana e terribile avvelenatrice della Roma imperiale Locusta, con la sua bulimica fame di delitti e di morte, di Barbara Di Gregorio; dell’angelicamente sofferta ma depravata figura rinascimentale di Lucrezia Borgia di Rosa Mogliasso e della tragica ma inutile rivalsa della vittima/carnefice/capro espiatorio Marianna de Levya, gettata in pasto ai giudici come La monaca di Monza per la penna di Ben Pastor che ben fa a concederle il dubbio.

Poi, passando al novecento, alla storia più recente, con gelosia e follia a far da morbosa cornice: la melanconica ricostruzione dell’amore impossibile o forse meglio dire del pericoloso odio/amore di Maria Elena Tiepoli Oggioni per l’ordinanza del marito ufficiale, di Elisabetta Bucciarelli; l’atroce storia della follemente efferata assassina seriale Leonarda Canciulli, la “saponificatrice di Collegno”, scritta dall’accoppiata Michael Gregorio; quella orribilmente passionale nata nella mente bacata di Rita Fort, che non si tirò indietro dal sterminare anche dei bambini, figli dell’amante e solo colpevoli di non essere suoi, di Lorenza Ghinelli e, per finire, quella celebre, per anni agli onori dei media per la notorietà della protagonista, la contessa Pia Bellentani che, umiliata e tradita dell’amante, Carlo Sacchi, l’uccise pubblicamente a colpi di pistola durante una serata di gala a Villa d’Este, di Cinzia Tani.
Cuori misteriosi, afflitti, gelosi, tormentati o feriti ma soprattutto neri come il buio che si impossessa di queste donne e fa scatenare la loro furia omicida. La vendetta e la gelosia diventano la degenerazione delle loro passioni.

 

Ma le autrici come hanno scelto la donna assassina da raccontare?
Per Lorenza Ghinelli, Rina Fort, più di altre assassine della Storia, divenne l’emblema della degenerazione morale dell’Italia del dopoguerra. Buzzati, Pratolini, Carrieri e tantissimi scrittori e giornalisti non si curarono dell’essere umano che continuava a esistere dietro l’etichetta di “Belva di San Gregorio”, ma utilizzarono quella tragedia per dipingere la Milano di allora. I media si scagliarono invece sul personaggio della Fort negandole completamente l’appartenenza al genere umano. «Ho scelto di raccontarla non certo per cercare una sua assoluzione, ma neppure per disconoscerla dalla razza umana. Era una donna intelligente, appassionata e capace, doti che di certo non erano destinate a essere ammirate e incoraggiate durante gli anni del Fascismo. Nel ’46, con la liberazione di Milano, il corpo del Duce venne esposto in piazzale Loreto, e accanto al suo quello di Clara Petacci». Come ricorda Clara Covelli «Per la prima volta nella storia dello stato unitario una donna occupa la scena pubblica, non nelle tradizionali vesti di madre e di moglie, ma in quelle di amante-prostituta e di corresponsabile dello sfascio della società e dello stato italiano. […]Per la prima volta un corpo femminile partecipa a un rituale politico». Il ’46 fu lo stesso anno in cui Rina Fort si macchiò del suo crimine. Le eroine al nero fecero così il loro ingresso nell’immaginario collettivo, e in un certo senso divennero il nuovo capro espiatorio delle angosce esistenziali che il dopoguerra poneva davanti a tutti. «Raccontare l’essere umano e non il mostro è stata per me un’esigenza imprescindibile».
Rosa Mogliasso ci porta davanti a Lucrezia Borgia, la figlia del papa Borgia. «Una donna bellissima usata dal padre e dal fratello come merce di scambio per le sue ambizioni di potere».

Barbara di Gregorio racconta la storia della Locusta, forse la prima serial killer della storia, da Atene nel cuore della Roma imperiale.
«L’erba Locusta esiste: sono io, oppure, ma è la stessa cosa, è il profondo disprezzo scatenato in me dai limiti che sono propri ai viventi. Un veleno perfetto che ha l’unica pecca di agire con esasperante lentezza».
Sono storie antiche ma anche moderne dove si parla di maltrattamenti, solitudine, ipocrisie, amore e seduzione, amore e gelosie. Amore e la sua degenerazione che può sfociare in un sentimento malsano.
Nessuna delle scrittrici ha voluto giustificare le otto “donne dal cuore nero”: ciascuna ha scelto un suo punto di vista per raccontare le storie, anche quello dei uomini che le hanno vissuto come testimoni.

Katia Valentini

 

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