La lontananza

Il mondo in cui viviamo è estremamente piccolo rispetto a quello di altre epoche, la rivoluzione tecnologica ha mutato il significato di lontananza

La lontananza oggi nell’immaginario collettivo è profondamente mutata, «..gli interminati spazi e i sovrumani silenzi» di Leopardi non esistono più nella realtà, forse continuano ad essere presenti nell’anima e nella sensibilità di pochi virtuosi, ma ormai è impossibile trarre ispirazione dal sentimento nostalgico che invece un tempo ha suggestionato poeti e artisti, instillando loro sublimi pensieri e insuperate opere.

In un mondo tecnologizzato, dove le distanze si sono assottigliate progressivamente grazie a strumenti dalle straordinarie potenzialità: telefoni, Tv, internet, siamo senza posa in comunicazione con il mondo intero, il fascino di pensare alla persona cara lontana ha perduto la sua ragion d’essere. Quante poesie, arie d’opera, raffigurazioni pittoriche, dobbiamo al sentimento malinconico e nostalgico, legato alla perduta lontananza, quanti epistolari sono stati scritti, quanta creatività e “disio” hanno trovato alimento alla fonte della nostalgia.

 

I filosofi hanno definito postmoderna l’epoca in cui viviamo, dove si assiste alla crescita del benessere nell’emisfero socio-economico opulento e, alla continua regressione delle condizioni di vita in quello estenuato dall’inopia. Anche i sentimenti sono mutati, l’egoismo è cresciuto esponenzialmente in luogo delle nobili passioni dettate dalla distanza, così come il cieco attaccamento al denaro, al materialismo, che hanno depauperato l’interiorità delle persone, non più aduse al sentimento, alla dolcezza e meraviglia dei palpiti che ci fanno vibrare.

Con ripugnanza mista a sbigottimento mi è capitato di assistere all’esibizione di sentimenti ipocriti, finalizzati al mero interesse. Il relativismo culturale, lo sfrenato individualismo (solipsismo) contro cui si scaglia la Chiesa è una battaglia che l’intera umanità deve combattere, per ritrovare le radici di un sostrato etico, che aiuti la società a riemergere dal gorgo materialista in cui è precipitata. Il denaro, il successo da conseguire ad ogni costo, sono assurti a una dimensione divina laddove l’essenza dell’uomo e, i luoghi dell’anima non trovano più spazio. Da un lato assistiamo con stupefazione al progresso inarrestabile della tecnologia che tocca ogni settore, con una velocità che tramuta in antiquato ciò che a noi sembra ancora da scoprire, facendo emergere la durezza del nostro comprendonio.

 

Non v’è dubbio che tutto questo semplifica gli aspetti pratici della vita, alleggerisce il fardello quotidiano, ci consente di condurre una vita mediamente lunghissima rispetto ad altre epoche dell’umanità, parallelamente si evidenzia un’involuzione culturale ed emozionale.

Provate a chiedere a un giovane le modalità atte ad utilizzare al meglio un nuovo programma computeristico e vedrete che sarà più che esaustivo nell’illustrarvi il funzionamento, parimenti domandategli qual’è l’autore in prosa o in poesia che più l’affascina, e vedrete che fornirà risposte di circostanza (nomi sentiti a scuola), profondamente insincere, date solo per coprire un’ignoranza che peraltro non suscita vergogna. L’insipienza libresca non viene percepita come vuoto negativo, poiché anche l’accezione della parola cultura ha subito deformazioni semantiche. La cultura non è sinonimo di savoir-faire tecnologico e computeristico che trova immediati riscontri pratici, la cultura attiene a ciò che vive dentro di noi, alle nostre sensibilità, all’energia vitale indirizzata verso ciò che è legato all’uomo ma al contempo lo trascende. L’intelligenza viene superata dall’immaginazione riempiendo gli spazi vuoti che ci circondano. È questa la realtà in cui vivono gli artisti, i poeti, gli scrittori, una dimensione dove a regnare è la bellezza stupefacente dei paesaggi interiori, luoghi accessibili solo a chi ha la facoltà di assaporare il nettare della vita.

 

«Il vero viaggio di scoperta non consiste nel vedere nuovi panorami, ma nell’avere occhi nuovi» ebbe a scrivere Proust nella “Prigioniera” (quinto volume de “Alla Ricerca del Tempo Perduto“), occhi nuovi per osservare il mondo nella sua selvaggia e intrinseca naturalezza, le persone nei loro aspetti più reconditi, i luoghi e gli oggetti attraverso una lente di ingrandimento, rischiarati da una luce nuova.

La realtà non è solo quella che vediamo con gli occhi della carne, c’è molto di più e il riferimento a Proust è quanto di più emblematico si possa rintracciare. Egli ha fornito all’umanità un punto di vista nuovo con cui guardare il nostro essere presenti nel tempo e nello spazio. È il dettaglio che rende eterna la vita individuale dell’uomo. Senza nessun riferimento al trascendente Proust ci ha insegnato a cercare l’infinito e l’eterno nell’immanenza dell’arte, che è la parte dominante dell’uomo.

Giuseppe Cetorelli

 

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