Nascere è più terribile, più assurdo che morire; l’esplosione della materia nel Big Bang, che si diffonde con inauditi cataclismi per creare innumerevoli vite effimere e dolorose, è più spaventosa della lenta entropia in cui forse alla fine si spegnerà, dolcemente e stancamente, l’universo, simile al decrepito e svanito ricoverato in una casa di riposo. La palla di fuoco che nei primordi si da forma tra nubi di gas, eruzioni e collassi è più inimmaginabile e paurosa della fine del mondo tante volte rappresentata come diluvio o come rogo, immensi ma ancor più sempre umani, abbracciabili nella nostra mente. Anche la nascita del bambino espulso dal ventre materno è un’irruzione nel mondo più sconvolgente, più inconcepibile dell’uscita dal palcoscenico alla fine dello spettacolo.
L’arte, in quanto creazione, partecipa di questa violenza, di questo squarcio insito in ogni atto creativo che estrae qualcosa dal nulla, che stupra il non essere, il nulla.
Un libro che indaga questo choc del processo creativo è il saggio di George Steiner, “Grammatiche della creazione“. È un capolavoro critico che spazia nella letteratura di ogni tempo, con un fortissimo senso della storicità di ogni opera d’arte e insieme della sua sovratemporalità, di ciò che, nascendo nel tempo e portando tutte le stigmate del tempo, lo trascende. Steiner è uno dei pochi maestri che si muovano come a casa loro nella letteratura universale ed è pure un’errante e uno sradicato, un uomo dell’esilio che vive nella sua intelligenza e nella sua sensibilità la dura, kafkiana verità della diaspora, la condizione dell’uomo esiliato da ogni terra promessa, da ogni casa natale. Sa essere insieme grand seigneur e Luftmensch, come dice la parola tedesca che indicava l’esistenza precaria, quasi campata in aria e fatta di nulla, degli ebrei orientali costretti a vivere di incerti espedienti, in una esistenza perennemente fluttuante. Tutto questo gli permette di ripercorrere i capisaldi della letteratura occidentale e i meandri della creatività, oggi a suo avviso sul punto di sparire, messa fuori gioco da una tecnologia che soppianta, egli dice, l’uomo stesso.
Ma è sopratutto la tensione fra essere e non-essere, tra origine e fine, tra emergere dal nulla e sparire nel nulla che percorre come un basso continuo, tutto il libro. Come la creazione divina, l’opera poetica include, evoca, dice il non essere da cui proviene, il nulla da cui scaturisce, il vacuum che c’è non solo dietro, prima, ma anche dentro ogni fiat. Ogni creazione è tremenda perché rivela e comunica lo sconvolgimento delle origini, come il poema di Borges illustrato nella mostra di Barcellona; il caos selvaggio, informe e inumano da cui nascono la vita e la forma.
La morte e la fine sono terribili, ma sono pur sempre il prevedibile o quanto meno inevitabile finire di una persona o di una realtà umana, avvengono in un contesto in qualche modo conosciuto, che la ragione può pensare e comprendere. Il niente che vibra nell’origine –e dunque in ogni creazione, che è sempre a suo modo originaria– è rabbrividente perché è assolutamente non umano, impensabile, radicalmente altro rispetto a tutto ciò che pensiamo, sentiamo, desideriamo, temiamo, immaginiamo.
Ogni creazione ergo vince il nulla ma insieme lo scatena, lo introduce nel mondo; è anche un buco aperto nel reale, uno squarcio, una falla. Ci si potrebbe chiedere se questo sia un male o un bene, una minaccia o una speranza. Un cumulo enorme di sofferenze induce spesso a chiedere: perché mi avete imposto di esistere?
Questo grido non è una domanda ma una protesta; vuol dire che sarebbe stato meglio non esistere e dunque che creare è violenza, è male, e che è bene risparire il più presto possibile, nel niente da cui si proviene. Secondo Nietzsche, Lutero avrebbe detto che dio ha creato il mondo in un momento di sbadataggine. Che l’abbia detta Lutero o Nietzsche, attribuendola a lui questa frase è fin troppo confermata da come ci si presenta il mondo e ci costringe a viverlo; ciò non significa non amare tanti, infiniti aspetti della vita, non essere incantati dalla sua grazia; è anzi proprio l’amore per l’esistenza che rende più acuto lo scandalo che essa suscita. Se -scrive Steiner– siamo alla fine e stanno già sparecchiando, non credo che ciò avvenga, come egli dice, a causa della tecnologia e dell’intelligenza artificiale, del computer capace di creare la bellezza del Museo di Bilbao, degna del Partenone. E’ piuttosto con la manipolazione genetica che sta avvenendo una vera mutazione antropologica, prevista da Nietzsche, forse preludio all’avvento di una nuova specie, post-umana.
Steiner ricorda una tradizione rabbinica secondo la quale ventisei tentativi divini falliti, ventisei creazioni abortite hanno preceduto quella del Genesi narrata nella Bibbia. Talvolta viene la tentazione di pensare che anche la ventisettesima, quella in cui viviamo o crediamo di vivere, sia un abbozzo mancato, una brutta copia destinata al cestino.
Giuseppe Cetorelli
punto di vista interessante, oltreché condivisibile
nessuno ha chiesto di nascere…
e si nasce nella sofferenza del parto
si ok, questo è chiaro. ma il concetto dell'autore, più che la sofferenza, credo sia quello che la nascita è una "falla"… in realtà qualcosa di più inspiegabile
in effetti la creazione avviene da una perturbazione dell'origine celestiale, del Nirvana, dell' "equilibrio" del Caos.. di dio
è una rottura da lui!
meglio: una separazione
bell'articolo. leggerò il saggio di Steiner
l'immensità della vita ci dona lo scandalo del divenire. è il gioco della vita.queste sono le domande che illuminano la conoscenza.
interessante articolo
siamo una sbadataggine di dio, o dell'universo, come dir si voglia.
mentre la manipolazione genetica non è una sbadataggine, ma un crimine contro natura