L’italico spaghetto e l’orrore per la “Fusion”

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Questa RUBRICA parla di quel “consumo” incivile fatto da una società mercificata, la nostra; la stessa che qui prova a resistere con gesti locali e altre forme di autodeterminazione culturale (ispirati non di rado dal ‘mangiar e bere bene’)… mentre quel carrello della spesa si è smarrito in un momento di disattenzione del suo aguzzino

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Non esiste ne è mai esistita una contrapposizione tra le parole “fusion” e classico, “tradizionale” o sperimentale in cucina. La cucina è sempre un prototipo, ogni volta è una sola, unica! Fusion è una parola che usano i razzisti, i limitati bifolchi, gli imbecilli… Questo vale tra i fornelli come tra le persone, pertanto il mio è un appunto sulla questione dei movimenti tra i popoli e lo “ius soli”, dove qui intendo la versione ‘a tavola’.

La cucina tradizionale o classica, è figlia della Fusion, quindi questo vale anche al contrario (uovo o gallina?). Che sia per semplice fame o per dimostrazione di potere, la cucina è un divenire continuo che ha alla base la reperibilità della materia edibile, e la sua conservazione. Ancor meglio la sua trasformazione. Ne nasce un “surplus”, ergo la necessità di scambio, con merci e tecnologie per ovviare alle mancanze alimentari o di genere. Da quando è stato possibile avere una produzione e una riserva alimentare grazie all’agricoltura, si è visto nascere il commercio e quindi il Mercato. La cucina è stata il luogo principe dello scambio e del mix di culture. Questo vale in un senso o nell’altro. È ben risaputo ad un cuoco internazionale che le materie prime italiane, quando di qualità, sono prodotti eccezionali, e la nostra forza culinaria è nella disponibilità di oltre 600 prodotti commestibili di base, e il fatto che siano anche molto buoni e combinabili fa della nostra una delle migliori cucine al mondo. Questo ci mette al di sopra rispetto al Mali dove le specie edibili disponibili scendono al di sotto dei 50 prodotti. È facile produrre un sugo coi pomodori San Marzano, ma provateci a coltivarli in Finlandia e ditemi se è buono altrettanto.
Quindi da sempre per ovviare alla dieta ripetitiva o carente di proteine, di cereali, di frutta… si è provveduto attraverso il commercio, la rapina o la schiavitù: aumentare le risorse e gli scambi per poter procurare cibo migliore.

Così, per fare un esempio semplice vi parlerò degli spaghetti, il piatto tipico Italiano (? – ce ne siamo anche già occupati da tutti i punti di vista), ma anche della dieta fusion del Khan mongolo e della corte cinese nel XIII secolo.
Dal 1264 al 1368 Pechino è la capitale dell’Impero Mongolo della dinastia Yuan. È una città aperta, cosmopolita, ricca. A corte sono presenti dignitari arabi, iraniani, turchi, indiani… I Kahn trattano con commercianti europei, medici, uomini di lettere di ogni parte del mondo conosciuta. In questo contesto – di cui abbiamo notizia nei fantastici resoconti di Odorico da Pordenone e di Marco Polo – nel 1330 Hu Sihui, medico di corte, scrive un trattato medico di culinaria dal titolo moralistico: “I giusti principi del bere e del mangiare”. Non è un testo filosofico, è un ricettario, con l’indicazione delle droghe, le quantità, gli abbinamenti, l’uso, la conservazione del cibo e delle spezie, le modalità di cottura, e le prescrizioni per la cura della salute e del corpo. Il lavoro è stato dunque scritto nell’arco di dieci anni da un medico che ha praticato la cucina come medicina alla famiglia reale – leggendo i “Principi..” si ha un quadro vasto delle conoscenze e della cultura mongola-cinese.

Torniamo inoltre agli spaghetti.
In uno scavo archeologico lungo la via della seta in Karzakistan (o uno di quei paesi che stanno tra l’Afghanistan e la Cina) sono stati rinvenuti dei proto spaghetti datati circa 1.800 anni Avanti Cristo. Un qualche nomade o commerciante caucasico (georgiano o iraniano) si recava in Mongolia con una scorta di cibo fatta di farina di grano, sale e acqua: ammassati, mescolati ed essiccati. Da qui il nome di “pastasciutta” cioè impastato, o ammassati, da cui anche maccherone. Si era scoperto che per conservare la farina, sopratutto nei lunghi viaggi, era sufficiente darle una forma allungata in pasta, e poi farla rinvenire nell’acqua calda, cosa che andava di pari passo col pane azimo. Dal Caucaso la via attraverso gli arabi era verso Occidente ed era infatti occupata dagli Arabi che nel VI e VIII secolo d.C. erano i padroni della Sicilia, e qui ad Itriya (nei pressi di Palermo) nacque il primo pastificio italico; la sua distribuzione passa per la repubblica di Genova e si sposta nel resto dell’Europa.

Ora, lo stesso procedimento lo applicarono i cinesi con la farina di Riso con cui producono i noodles. Mentre con l’aggiunta di uova i greci producevano le lagane, presenti sia in Ungheria che anche nei racconti di Plinio e Cicerone.
Lo spaghetto, quindi, è un invenzione tipo la ruota.. in cui vedo cioè difficile attribuire una paternità.

Potrei fare pure altri esempi… Sempre attraverso lo stesso percorso una pianta come il basilico è pervenuta a noi attraverso una modificazione genetica dall’India. E che dire del Pomodoro? Trovato nelle Americhe, sino al 1600 è una pianta ornamentale che rimane gialla e di cui il picciolo (la parte verde) è nociva. In seguito per qualche miracolo i napoletani la convertirono in una divinità commestibile, e in breve tempo diventò una fonte di reddito incredibile. Oltremodo, dagli Arabi per fare un ultimo esempio, abbiamo importato nella nostra cucina anche altri quattro o cinque prodotti fondamentali quali: il riso, lo zucchero, le arance, le melanzane. Dalle Americhe la zucca, il mais, le patate, i pomodori e il cioccolato… e così via.

In sostanza, abbiamo visto che il più classico o tradizionale dei prodotti italiani, lo “spaghetto al pomodoro”, è figlio di una fusion internazionale durata 4000 anni. E questo la dice lunga sulle mode filologiche di questi ultimi tempi…

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Dunque, alla luce di una vera e antica tradizione ‘fusion’ (se proprio vi piace questo termine), torno allora a parlarvi dei “Buoni principi..”: il testo, se da un lato è la farmacopea per la cura attraverso il cibo, dall’altro è la prima descrizione dettagliata di cosa si mangiava a corte dell’imperatore. Sono oltre 250 ricette per una sana alimentazione, ma anche un ricettario di gran classe di cucina internazionale o fusion, se appunto volete chiamarla così.
Alla base di tutto c’è il principio che «il cibo che mangiamo è la nostra medicina», e «solo attraverso l’igiene, la freschezza, e una giusta dieta potremmo avere cura di noi e – soprattutto – dei nostri cari» (virgolettato perché nel testo).
È diviso in tre parti. La prima, più ampia, è la “Raccolta di vivande preziose e straordinarie”, un incredibile ricettario, un’esposizione dei cibi sani e di quelli fortificanti. Anche senza aspetti medici particolari. Ma con una predilezione per le zuppe di verdure e di carne. All’interno anche 50 ricette a base di pasta, pane con cereali e farine di legumi – piatti considerati europei – con almeno 20 le ricette a base di ceci (in cinese i fagioli arabi), e una ventina di piatti in agrodolce (che hanno per base lo zucchero e l’aceto). La dieta (il “Kosher” o la “regola”) prescritta all’Imperatore è una serie di ricette di cucina: misurate, provate, assaggiate; una cucina mongola o cinese, ma anche araba, turca, mediterranea, persiana e indiana; certamente una cucina fusion: tutte di sicuro dall’effetto salutare, gustose, ognuna testata alla corte imperiale di Pechino.
La seconda parte del testo è medica, contiene ricette di preparati, sciroppi e liquoripomate. 150 ricette ben dettagliate con esatte quantità e prescrizioni. La terza parte è l’esposizione della farmacia cinese, cioè di quelle miscele di ingredienti adatti a curare le malattie attraverso le spezie.
Di Hu Sihui si hanno poche notizie biografiche, si sa solo che era un dignitario di corte, e che a forza di zuppe di verdura ha curato non meno di tre membri della famiglia reale. Il libro è stato ampiamente diffuso in Cina, non solo alla corte dei Khan. L’Imperatore Jingtai della dinastia Ming – in lotta contro i Mongoli – nel 1449 scrisse personalmente la prefazione ad una edizione dei “Principi del bere e del mangiare”, indicando che il testo è un classico dell’identità nazionale cinese. Di nuovo Classico e Fusion si sovrappongono.

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Ora quando osservo i menù dei ristoranti da noi o in altri luoghi e mi si presentano “classici rivisitati” o piatti della tradizione in chiave fusion… penso alla piccolezza dell’uomo medio e alla sua incapacità di capire che non esistono leggi avverse alla natura dell’uomo, che poi è quella di ambire alla sua felicità o meglio alla sua dignità, e di trovarla ovunque se ne presenti l’occasione.
La tavola è il sintomo delle cose che succedono, e soprattutto che succederanno tra breve. In quattromila anni lo spaghetto si è imposto al mondo e con lui le mille trasformazioni che ha trovato utili… passando sopra imperi e divinità, regole, poteri e popoli. Sarà così anche domani, quando magari il classico sarà la combinazione di riso e alghe marine con insetti e chissà cosa. In fondo la tavola è un divenire… è solo lo specchio dello scambio tra popoli. E i popoli non si sono mai fermati alle leggi di piccoli Khan.

 

Daniele De Sanctis

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7 Comments

  • interessantissimo post. sempre fantastico de santis.
    certo e’ che in un arte come quella culinaria che si basa proprio sul mix di materie prime , sugli accostamenti, ecc….. come si puo’ parlare di fusion come genere a parte ….

  • BELLISSIMA LA STORIA DELLO SPAGHETTO , NON SAPEVO LA STORIA DEL NOSTRO PIATTO TIPICO ,CHE POI TANTO TIPICO NON E’ A QUESTO PUNTO……FORSE LA RICETTA

  • dice bene De Sanctis, forse il classico e la fusion si sovrappongono semplicemente
    e poi certo, è una moda!
    comunque davvero interessante, anche la storia dello spaghetto. questa rubirca è fighissima!!!

  • un libro questo che credo sia fondamentale per studiare le conoscenze dell’ epoca
    cosa che comunque gia da qua ci fa capire quanto stavano avanti

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