L’inquietudine di Fernando Pessoa

Fernando Pessoa, poeta–letterato e filosofo, ha composto un florilegio di pensieri che si innalza come un’opera senza pari nella letteratura del Novecento

Il cielo ingrigisce spesso sulle tiepide pietre di una Lisbona pensosa. Le sue tenui brezze avvolgono di polvere i corpi di persone stanche della vita, ignari dell’inesistenza di un senso. In Portogallo la letteratura è lo specchio di luoghi, atmosfere e climi: l’Atlantico maestoso gli si apre davanti e possiede ancora l’odore di quello che conobbe l’Ulisse omerico, quando varcò lo stretto che separava il conosciuto dall’ignoto. Il Portogallo, terra mitica, sembra quasi piegare le dita dei suoi poeti, vellicare la loro intelligenza, dettare versi e romanzi alla loro mente creativa. Fernando Pessoa è stato un poeta delizioso, nato nel 1888 a Lisbona, città suscitatrice di forti passioni, egli non era passionale. Sapeva amare come pochi ma con estrema delicatezza e sensibilità esasperata, la leggerezza calviniana dei poeti e il coraggio di raccontare i sentimenti che traboccano dal cuore dell’umanità.

L’unica grande opera narrativa che Pessoa ci abbia lasciato è il racconto di un’anima, è l’itinerario di un cuore che ha cercato per tutta la vita sprazzi di serenità. Chiuso in ufficio ad esercitare la professione di aiuto contabile, Pessoa ha tentato di sfuggire alla monotonia intraprendendo un viaggio al contrario. Ha raggiunto i luoghi di serenità immergendosi nell’oceano della sua anima. “Il Libro dell’inquietudine” parla di noi, delle nostre angosce, della realtà orribile che non vogliamo vedere. Illumina gli angoli oscuri dell’esistenza, quelli che per timore di troppa verità nascondiamo inutilmente al nostro sguardo. La lettura di questa grande opera postuma e plurima ci insegna che la serenità e la beatitudine sono le condizioni di un cuore, esistono ovunque e in nessun luogo. Vani sono i tentativi di cercare fuori quello che possiamo reperire solo nel profondo della nostra interiorità. Utilizzando l’eteronimo di Bernardo Soares Pessoa ci regala uno zibaldone apparentemente disordinato, il quale, però, trova nel tedio e nella noia la definizione dell’esistenza pratica dell’uomo. Realtà che egli vede, sente e definisce come tormentosa e dalla quale cerca di scappare accecando gli occhi del corpo e aprendo quelli dell’anima.

Inevitabile è collocare Pessoa nell’empireo dei grandi scrittori, quando un poeta si cimenta con la narrativa spesso genera capolavori; inviterei a leggere gli scritti di Antonio Tabucchi, tra cui “Un baule pieno di gente“, libro di saggi sulla figura del poeta-scrittore portoghese.

Ai lusitanisti il libro “non libro” di Pessoa si presenta in carte sparse, ritagli, appunti di tutta una vita pensati per un’opera da comporre in un futuro indeterminato, fu pubblicato solo dopo la scomparsa dell’autore, grazie a editori e curatori che hanno scelto e organizzato i materiali secondo il loro gusto. Nell’opera si avverte la presenza della filosofia e della morale stoica. La vita è sicuramente dolore e l’uomo, come i greci insegnano, non deve domandarsi da quale parte provenga il male. Deve “reggerlo”, anche se talvolta può sembrare impossibile, affrontarlo con mente fredda e cuore calmo. Il male della vita, il male di vivere (come direbbe E. Montale), il dolore che scandisce l’esistenza di ciascuno come un orologio infallibile può essere attenuato conferendo maggiore importanza alla vita contemplativa. Il che non significa dimenticare che l’esistere comporta la presenza di una dimensione pratica, nella quale siamo immersi come pesci che non possono vivere in un oceano senz’acqua.

Il capolavoro di Pessoa è anche un libro di solitudini, pieno di vite anonime macinate dal tempo che scorre inesorabile. Le monadi che il portoghese descrive sono i nostri colleghi di lavoro, gli amici, la famiglia, persino le persone che teneramente amiamo. «Siamo isole nel mare della vita», disse il poeta britannico Matthew Arnold. Nulla di più vero verrebbe da aggiungere, la vita è il mare solcato dalle nostre esistenze. Passeranno gli anni e passeremo anche noi. Come le stelle, tutte le grandezze si faran piccole, l’incommensurabile fuoco diverrà fiammella e tutto si estinguerà nel vortice dell’infinito. Le persone che smettono di passare nella strada abituale del paese, dove vanno? Ora ci sono, domani non ci sono più. «Domani anch’io – l’anima che sente e pensa, l’universo che sono per me, anch’io sarò colui che ha smesso di passare per quella strada, che gli altri nebulosamente evocheranno con un “che ne sarà stato di lui?” E tutto quel che faccio, tutto quel che sento, tutto quel che vivo, non sarà nient’altro che un passante in meno nella quotidianità delle strade di una città qualsiasi». ‘Frammento 444’. In ogni piccola prosa è racchiuso un mondo denso di vita, di luci proustiane, di volti e immagini che continuano a vivere solo perché c’è qualcuno che le ricorda. È la vita stessa che attribuisce un senso alla nostra navigazione, al nostro esistere.
La fine ultima è descritta mirabilmente da Pessoa nel ‘Frammento 414’, dopo una riflessione dal sapore filosofico riprende in mano la penna del grande scrittore: «Quando vedo un morto, la morte mi sembra una partenza. Il cadavere mi dà l’impressione di un vestito abbandonato. Qualcuno se n’è andato via e non ha avuto bisogno di portarsi dietro quell’unico abito che indossava».

Fernando Pessoa, come Franz Kafka, è stato un dilettante della letteratura. Come Kafka ha nominato i travagli dell’uomo moderno. Di professione traduttore estero per imprese commerciali, nei ritagli di tempo scriveva poesie e piccole prose che hanno il sapore della vita. Di quella vita che non riusciamo a scorgere perché soffocata dalla monotonia dei gesti quotidiani. Leggendo “Il Libro dell’inquietudine“, ho riascoltato la voce di Pascal (“Pensieri”), il genio di Leopardi (“Ricordanze”), l’orribile tarlo di Baudelaire (“I fiori del Male”) e l’essere di Sartre (“Esistenzialismo”). La nausea che talvolta il vivere ci suscita, dove tutto alla fine appare inutile, dove tutto è di troppo, persino la nostra esistenza. Una sottile corrente carsica di sonorità attraversa questo libro che scruta e ascolta l’universo come un osservatorio astronomico, ma freme e tace come un film muto. «Per me l’umanità è un gran motivo decorativo, che vivo tramite vista e udito e, inoltre, tramite l’emozione psicologica. Dalla vita non voglio altro che starla a guardare. Da me stesso non voglio altro che stare a guardare la vita. Sono come un essere di un’altra esistenza che passa». ‘Frammento 127’. Tutto vi è registrato come in una nuova Recherche: echi di voci, melodie, volti scomparsi, immagini morte, tutto riprende vita come l’apertura di un sipario che mostra ai nostri occhi una vita che non c’è più.

 

Pessoa fu una grande anima tormentata, come il nostro Cesare Pavese aveva il dono di una rara sensibilità umana prima che artistica. Per artisti di tale grandezza il dolore assume sempre coloriture tragiche, inguaribili patologie dell’anima: «Nel momento in cui soffriamo il dolore umano ci pare infinito. Ma neanche il dolore umano è infinito, in quanto nulla di umano è infinito». Una sensibilità che può opprimere, soffocare e persino uccidere per l’eccessivo sentire. Nel 1935, a 47 anni, il grande poeta portoghese si spense a causa di una cirrosi epatica dovuta all’abuso di alcol. Vorrei concludere citando un verso del poeta francese Arthur Rimbaud, che in qualche maniera rappresenta l’esistenza di tutte le grandi anime: «Per delicatezza ho perduto la mia vita».

 

Giuseppe Cetorelli

 

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