L’Idiota Sacro

Racconto breve...

Padre nostro che sei nei cieli e via dicendo.
Dacci il nostro pane quotidiano e tutto il resto.
Amen.
Applausi. Applausi inferociti.
L’intero cimitero in visibilio.
Poi l’ultimo lunghissimo abbraccio.
Pezzi di merda, grandi, solenni pezzi di merda.
Voi, l’Idiota Sacro, lo avete sempre odiato e ora siete qui, commossi, affranti, invadenti e perentori.
Vi siete presentati piangenti ad una festa a tema, senza che nessuno vi avesse assolutamente invitato.
Il tema della festa, è chiaro, è la morte.

.

L’Idiota Sacro

Oddio mio, quel ragazzo è un ordigno, un funghetto nucleare, una scheggia impazzita, è la vita epurata dalle logiche umane, è la frenesia che ti sbatte contro il muro e ti tocca tra le cosce.
«Adesso è troppo» gli dicevano, «Adesso stai esagerando, stai diventando veramente pericoloso».
«Oh Sì, finalmente», rispondeva lui.
Non si può dire che si muovesse, piuttosto che scoppiettasse.
Oddio mio, che forza della natura, avresti dovuto vederlo.

Diversi anni fa, durante l’assemblea d’istituto, prese il microfono, si erse sulla sedia e gridò: «Ragazzi, ascoltatemi bene, tutto quello che fate, la gente che vedete, le cose a cui pensate, sono numeri, simboli e diagrammi. Io di questo me ne frego. Non contate i giorni, non fate programmi, non parlate, non pensate a nulla. Arrendetevi stronzetti, io sono l’Idiota Sacro e vinco sempre io».
Bordate di fischi, insulti, lanci di oggetti, bestemmie e qualche ragazza che pensò oddio questo bastardo ha il fuoco dentro.
I vecchi saggi del consiglio d’istituto dicevano che era insicurezza, che quella vitalità isterica era il suo personalissimo trucco per non avere paura.
I vecchi saggi erano cinque o sei diciottenni che avevano imparato a memoria tutta la merda di Kafka, portando con dignità la barba, organizzando la vita della comunità scolastica, dando consigli ai più piccoli, dando dei modelli comportamentali coerenti, solidi, decorosissimi.
L’Idiota Sacro era metastasi, grandine, collisione, era un modello comportamentale coerente, solido, altamente indecoroso.
Io me lo ricordo nella sua corsa disperata e senza direzione.
Oddio, me lo ricordo bene, l’Idiota Sacro, che sfreccia con la sua motocicletta cromata e schizoide, fiero come un dio greco, risoluto come il pendolo che procede e non sbaglia un colpo.
Quel ragazzo è un pandemonio, non potete fermarlo, è Nietzsche che è sceso giù in città, folle, purpureo, dinamitardo.
L’Idiota Sacro, con la basetta squadrata e i ricci corvini, che gira la notte, vaneggiando, per i bar del centro, offre da bere e si siede irruento accanto alle donne, sussurrandogli all’orecchio qualche nuova, magnetica assurdità.
«Ragazza, sei di queste parti?».
«Sì, abito nella piazza in fondo la strada».
«Sei mai salita su una moto che grida?».
Lui aveva quel tuono nella voce e nello sguardo. Le donne lo sapevano, lo sentivano.
Più lo detestavano e più si annidava in loro la voglia madre. La furia sessuale. Il giovane e sfrontato martello degli dei.

I vecchi saggi del consiglio d’istituto lo temevano, pensavano che qualcuno tra i più giovani avrebbe potuto emularlo, avrebbe potuto dare adito alla sua furia anarchica, mettendo a repentaglio la comunità scolastica e tutto quello che negli anni era stato amabilmente edificato.
«Io vi spazzo via», disse l’Idiota Sacro ai vecchi saggi, «Io sono l’agnello di Dio, anzi, io sono Dio, anzi, sono lo Spirito Santo che vi balza in casa alle tre di notte e vi scopa le ragazze».

Dopo il liceo decise di non fare l’università, iniziò a lavorare da un meccanico per quattro spicci che a stento gli bastavano la sera per prendere da bere.
Lo trovavi facilmente al bancone di qualche bar, con una nuova amica, mentre sproloquiava, beveva e guardava i musicisti avvicendarsi sul piccolo palco legnoso del locale.
La gente lo guardava a distanza, affascinata e impaurita, «Attenti ragazzi, state alla larga da quel tizio, è l’Idiota Sacro, un pazzo, un teppista, un manipolatore squallido e ubriaco».
Si muoveva nella penombra del locale, ondeggiando, facendo ballare i fianchi esili, sputando il fumo della sigaretta.
Poi montava la motocicletta, la faceva urlare per bene e scompariva nell’oscurità della notte esoterica, diretto verso qualche altro bar, verso qualche nuova camera da letto, verso qualche nuovo inferno.

L’Idiota Sacro era pura energia e forza d’urto.
Dormiva tre ore a notte, mangiava solo quando capitava.
Non aveva bisogno di cibo e riposo, lui era la vita, la danza, il furore.
Ricordo quando una sera d’estate, dopo avere speso una fortuna, scappò dal club senza pagare.
I buttafuori lo inseguivano, ma lui era troppo veloce.
Anche la polizia prese a corrergli dietro.
Oddio, l’Idiota Sacro andava come il vento, con la camicia strappata e il cuore che pompava sangue impazzito. Le vene completamente fuoriuscite dal deserto della pelle.
L’Idiota Sacro che fuggiva e rideva, inseguito da una decina di persone che mangiavano la polvere alle sue spalle.
«Bastardi!» gli urlava, «Non mi prenderete mai, tornate a casa, dalle vostre mogli puttane».
In città lo conoscevano tutti molto bene.

Da piccolo era stato campione di minimoto, un bambino proiettile che incendiava le piste e divorava gli avversari, inafferrabile e rapace.
«Tremate bambini» gridava ai suoi coetanei, «Io sono l’Idiota Sacro e vinco sempre io».
Pilota consumato, sublime seduttore, ballerino d’altri tempi.
Si poteva pensare che possedesse il mistero dell’ubiquità.
La gente diceva «Ehi ragazzi, c’è l’Idiota Sacro che balla come un pazzo al club», qualcun altro interrompeva «Non è vero, l’ho visto impennare con la moto in piazza poco fa», e un altro ancora «Impossibile, ragazzi, sta baciando una bionda proprio dietro di noi».

Era troppo veloce, era il fulmine che solca l’aria e si schianta al suolo, avresti dovuto vederlo.
«Tu stai diventando fuori controllo» gli dicevano.
«Oh si, finalmente», ribatteva col suo ghigno indiavolato.
Eccolo, l’equilibrista pazzo che danza sulla lama del rasoio e volteggia senza mai guardare giù.
Eccolo, lo scattista indemoniato che corre a più non posso in una stanza senza porte né finestre.
Eccolo, il prodigio del caos, l’apocalisse fatta carne che si mescola con gli uomini e li folgora all’istante.

Qualche mese fa mi fermò fuori da un locale.
Disse che aveva letto alcuni dei miei scritti e che li aveva trovati elettrizzanti, si complimentò.
«Ma i tuoi finali fanno schifo» fece continuando la sua analisi.
«Scusami, perché?» gli chiesi.
«Il finale di ogni storia è soltanto uno e così sarà per sempre. Ogni racconto che si rispetti deve terminare con la morte, che è l’unica vera conclusione. Non ci sono ritorni, non ci sono irrisolti né sospesi, soltanto i ringraziamenti e poi titoli di coda».
Adesso, io non so se a tradirlo fu la moto o la troppa sicurezza o semplicemente la sfortuna.
E per l’appunto mi piace immaginarlo mentre vola dal ponte: in aria, sospeso a più di venti metri da terra, diretto verso la fine della storia, verso l’appuntamento più importante, mentre ride e urla alle nuvole e alle stelle: «Tremate gente, io sono l’Idiota Sacro e vinco sempre io!».

di Giuseppe Catanzaro

 

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