Lewis Carroll: dalla filosofia zen a Matrix

Ci sono elementi culturali che trascendono il tempo e lo spazio, e che costituiscono conoscenze universali che sono parte di un inconscio collettivo

Con quanto ho scritto vi voglio trasportare in un “viaggio paradossale” che non risponderà a nessuna vostra domanda, ma che piuttosto vi farà dubitare ancora di più.

 

Chi non ha mai letto i racconti di Lewis Carroll (pseudonimo dell’inglese Charles Dodgson), sulle avventure di Alice?

Alice nel Paese delle Meraviglie” (1865) e “Alice attraverso lo Specchio” (1872) rappresentano una pietra miliare nella letteratura per l’infanzia, tanto al tempo della loro uscita, quanto ai giorni nostri.

Le opere di Dodgson possono, però, essere interpretate al di là della loro “vena fanciullesca”: da studioso di matematica, Carroll è riuscito a fare di queste storie un vero e proprio emblema della letteratura del non senso.

Ad esempio, leggendo i dialoghi tra Alice, la Regina Rossa e la Regina Bianca (capitolo IX “Alice attraverso lo specchio“), a chi non è venuto il mal di testa o è rimasto allibito?

Infatti leggiamo:

< […]Proviamo un altro calcolo di Sottrazione. Sottrai un osso al cane –che cosa rimane?». Alice ci pensò sopra. «Non rimane l’osso, naturalmente, perché l’ho preso io –e non rimane nemmeno il cane, perché mi correrebbe dietro per mordermi- e non ci rimmarrei nemmeno io, di certo!». «Allora, secondo te, non rimarrebbe niente?» chiese la Regina Rossa. «Penso che quella sia la risposta». «Sbagliata, come al solito» replicò la regina Rossa; «Rimarrebbe la pazienza del cane». «Mah, non capisco». «Allora, senti!» esclamò la Regina Rossa. «Il cane perderebbe la pazienza, vero o no?»[…] «Allora se il cane se ne va via, rimane la pazienza!» esclamò la Regina, trionfante. Alice disse […] «Ma di cosa stiamo parlando? È un orribile nonsenso!».

 

È questo un esempio di quello che lo stesso Carroll definiva “sillygismo” (da silly = sciocchezza); il termine è mutuato dal concetto aristotelico di sillogismo, cioè un’ argomentazione logica in cui, a partire da due premesse si giunge, per collegamento, ad una conclusione del tipo: se A = B e B = C, allora A = C.

Ma l’autore va al di là: i sillygismi carrolliani contraddicono quello che comunemente viene definito come senso di realtà; Carroll parte da due premesse assurde da cui si produce una conseguenza, errata per ragionamento logico ma coerente alle premesse, per quanto sciocche. Questi esempi di logica non-sense implicano, però, la presenza di un senso, perché il non-sense carrolliano non è una mancanza di senso, ma solo una negazione di esso: un uso apparentemente sensato di parole insensate, un uso apparentemente insensato di parole sensate.

I sillygismi carrolliani, sono esempi di quello che Alice chiama «indovinelli senza risposta» osservando che «sono certamente nella mia lingua, ma non li capisco».

 

Questo tipo di non-sense può essere interpretato come una reincarnazione inglese del “koan zen“.

La tecnica koan, “certificazione pubblica“, fu inventata, all’interno della scuola Ch’an, verso la fine del IX secolo; ad una prima lettura potrebbero sembrare una serie di racconti insensati, ma è proprio questa loro vena paradossale che ha lo scopo di stimolare il raggiungimento dell’illuminazione, presentando problemi che, non potendosi risolvere con la logica convenzionale, dovrebbero portare “l’allievo” a risvegliare una profonda consapevolezza della realtà.

Come il maestro zen, anche Carroll ci vuole portare all’illuminazione di un nuovo piano di realtà, in cui, nel caso dell’inglese, il vero e il falso si trasformano e si integrano in un tutto unico che diventa immaginazione, e le parole non delineano solo un oggetto, ma rappresentano un varco per un mondo parallelo, un mondo “speculare” in cui niente è come sembra.

Se proviamo a leggere le avventure di Alice alla luce di una consapevolezza più “matura”, ci viene da chiedere se Alice, non sia, in realtà, all’interno di quella “caverna” di platoniana creazione, sulle pareti della quale il fuoco proietta ombre che vengono scambiate per vere figure.

Ma chi è in realtà all’interno della caverna? Alice o noi?

Alice, in un verso o nell’altro, è consapevole di sognare; e noi?

Questo ci porta a fare un secondo paragone con la filosofia orientale.

La storia di Alice attraverso lo specchio riproduce la storiella della farfalla del Chuang Tzu:

«Una volta Chuang Tzu sognò che era una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte, e ignara di essere Chuang Tzu. Bruscamente si risvegliò, e si accorse con stupore di essere Chuang Tzu. Non seppe più allora se era Tzu che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Tzu».

 

Carroll affida a Tweedledum e Tweedledee il compito di dire ad Alice che l’intera storia da lei vissuta è soltanto un sogno del Re Rosso:

< […] «Sta sognando» disse Tweedledee, «Secondo te, cosa sogna?». Alice rispose: «E chi può saperlo!». «Ma come sta sognando te» esclamò Tweedledee, battendo le mani trionfante, «E se smettesse di sognarti, dove pensi che saresti?». «Dove sono adesso , naturalmente» rispose Alice. «No, […] Tu sei solo una specie di cosa dentro il suo sogno. […] Tu sai benissimo di non essere vera».

 

Quando Alice si sveglia si trova nelle stesse condizioni della Farfalla di Chuang Tzu: chi dei due ha sognato l’altro?

É lo stesso Carroll che, secondo Kincaid, alla fine ci chiede di decidere sulle sorti della piccola Alice: «Secondo voi, chi ha fatto il sogno?».

Ma nell’ultimo verso della poesia finale sembra voler aiutarci a risolvere “l’indovinello” affermando: «La vita che cos’è, se non un sogno?».

Carroll affronta, qui, un tema molto caro alla filosofia e alla letteratura: l’indistinguibilità fra sonno e veglia.

Già Platone nel “Teeteto” (158) scriveva:

«SOCRATE: Cosa si potrebbe dimostrare a chi ci chiedesse se, per esempio, in questo momento stiamo sognando , oppure siamo svegli?

TEETETO: In verità, Socrate, non sarebbe possibile dimostrare niente, perché le due situazioni sono indistinguibili fra loro. Quello che ora diciamo, potremmo anche dircelo sognando. E quando in sogno ci diciamo qualcosa, ci sembra incredibilmente di dircelo nella veglia».

 

Per non andare così lontano possiamo fare riferimento a Calderòn de la Barca che ci insinua il dubbio che, forse «La vita è sogno», oppure a William Shakespeare che ci dice che «We are such stuff as dreams are made on» (“Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”).

 

Per riportare l’attenzione ai giorni nostri basta pensare al capolavoro che è “Matrix” dei fratelli Wachowski. Cos’è Matrix se non un sogno inconsapevole, in cui il paradosso dell’indistinguibilità tra veglia e sogno viene riprodotto in maniera particolarmente convincente per l’uomo tecnologico.

Anche Christopher Nolan, con “Inception“, ci trasporta in un circolo senza fine di sogno nel sogno, nel sogno, nel sogno, fino ad arrivare in un “limbo” in cui ormai distinguere la realtà (?) del sogno diventa impossibile.

 

Quindi, vi lascio con una domanda: “Sogno o son desto?”

Katia Valentini

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