L’amant (Parte Terza)

Analisi atipica di un intreccio filmico-letterario a puntate

Puntata n.3: Eros e Thanatos

 

«Lo desidero. Gli dico il desiderio che ho di lui. Aspetta, dice. Mi parla, dice di aver capito subito, fin dall’attraversamento del fiume, che sarei stata così dopo aver fatto l’amore, che avrei amato amare, dice di saper già che lo ingannerò, che ingannerò tutti gli uomini che avrò e che lui è stato lo strumento della propria infelicità. Sono contenta di quanto mi annuncia e glielo dico. Diventa violento, un sentimento disperato lo scuote, mi si getta addosso, morde i seni da bambina, grida, insulta. Chiudo gli occhi per l’intensità del piacere. Penso: è abituato, non fa altro nella vita, è abituato,  fa solo l’amore, solo questo. Le mani sono abili, meravigliose, perfette. Sono fortunata, evidentemente, è come se per lui fosse un mestiere; senza saperlo, sa con esattezza che cosa deve fare, dire. Mi tratta da puttana, da schifosa, dice sono il suo unico amore, questo deve dire, questo si dice quando si da libero corso alle parole, quando si lascia il corpo fare, cercare, trovare, prendere quel che vuole, tutto va bene, senza residui, i residui vengono occultati, tutto è trascinato dal torrente, dalla forza del desiderio».

 

Desiderio.

«Il piacere fa tendere il corpo, lo contrae a volte fino a farlo sussultare e, facendolo passare per ogni sorta di colori, gesti, di ansiti, dà luogo a un sovraeccitamento generale e a grida da alieno…e il malato viene così a dire di se stesso, o gli altri di lui, che gode di tutti quei piaceri fino a morirne; così, continuamente li insegue con tanta maggiore intensità quanto minore è il suo ritegno e la sua temperanza». (Platone, Filebo, 47b).

La volontà di andare sempre più in là, oltre il limite, al di là della vita, si insinua come un serpente nella mente degli amanti lacerandola ad ogni amplesso, rendendola schiava del desiderio e del piacere del desiderio. Così, in preda a bramosia cannibalesca, gli amanti si cercando, si trovano, si annientano l’un l’altro nella carne divorata e rigurgitata nella morte orgasmica.

«Gli avevo chiesto di farlo ancora e ancora. di farmi così. L’aveva fatto, l’aveva fatto nella vischiosità del sangue. Ed è stato proprio come morire».

Il desiderio è, dunque, morte, smania e piacere di morte reiterata all’infinito. «Il mare: l’immensità che si accavalla, si allontana, ritorna».

«Sono stremata dal desiderio. Voglio portare con me Hélène Lagonelle, là dove ogni sera, ad occhi chiusi, aspetto il piacere che mi fa gridare. Vorrei dare  Hélène Lagonelle a quell’uomo perché facesse su di lei quello che fa su di me. in mia presenza, secondo il mio desiderio, che si offrisse dove io mi offro. Passando dal corpo di Hélène, attraverso il suo corpo, il piacere mi arriverebbe, allora definitivo, da lui. Da morirne».

Ma la volontà di morte è altresì volontà di uccisione dell’altro, il piacere dell’assassinio. Desiderio come  il suicidio nell’omicidio, ma anche il pentimento della ragione, la colpa, lo struggimento. Dice Foucault: «Si vede allora che l’importanza accordata all’atto sessuale e alle forme della sua rarefazione non dipende solo dai suoi effetti negativi sul corpo, ma da ciò che esso è in se stesso per natura: violenza che sfugge alla volontà, dispendio che logora le forze, procreazione legata alla morte futura dell’individuo. L’atto sessuale è fonte di inquietudine non già perché è male, ma perché turba e minaccia il rapporto dell’individuo con se stesso e la sua costituzione come soggetto morale; porta con sé, se non è regolato e distribuito come si deve, lo scatenamento di forze involontarie, l’indebolimento dell’energia fisica e la morte senza discendenza onorevole». (Michel Foucault, L’uso dei piaceri, storia della sessualità 2)

Questo inquietante dualismo è la sintesi dell’uomo: rito e sacrificio dell’Eros trovano la loro ragion d’essere nellapiccola mortedell’orgasmo, il Thanatos. L’Eros è nel Thanatos così come il Thanatos è nell’Eros. L’uno imprescindibilmente congiunto all’altro, inesistente senza l’altro. L’uno è l’altro. Questa l’infinita contraddittorietà dell’essere di cui parla Foucault, e questo il senso de L’amant, la scoperta di sé che passa attraverso il desiderio dell’amore e della volontà di morte in cui ruotano tutti i personaggi e le vicende del racconto, l’amante cinese,  la famiglia, della madre, Paulo, Elene, la miseria della casa di Sadec, il fratello maggiore, la stanza del quartiere di Cholen.

Parole scritte e immagini visive sono a questo punto della narrazione sciolte in un unico grande universo di sensazioni contrastanti, morire, uccidere, rinascere, amare, odiare, sentire. Semplicemente non esistono e voi siete irrimediabilmente persi in esso, parte integrante del suo essere. Voi siete la ragazzina, l’amante; siete il piacere e il dolore; siete Eros e Thanatos. Voi siete il desiderio.

Ma siete anche lo specchio dove si riflette il simbolico di tutto ciò, poiché siete il loro sguardo. «L’occhio occupa un rango estremamente elevato nell’orrore essendo tra l’altro occhio della coscienza» (G. Bataille, documentes 1929).  Ed è proprio in voi, nel vostro sguardo/coscienza che la ragione si riflette mostrando agli amanti la verità dell’inevitabile fine: «È la grandezza e la debolezza della prova: perché il dolore non sia dolore, perché la morte non sia l’orrore della morte, occorre che essi non siano più nella realtà. È la fine, la morte del desiderio».

«Era successo improvvisamente, a sua insaputa. Il suo corpo non voleva più colei che era decisa a partire, a tradire. Diceva: non posso più prenderti, credevo di poter ancora, non posso più diceva di essere morto».

Dunque la fine dell’Eros, ma anche la fine del Thanatos, la morte della morte.

Il corpo insensibile, definitivamente distrutto dal desiderio.

La scissione imminente degli amanti, delle loro vite, del vostro sguardo su di essi. L’addio, dove la fine coincide con l’inizio di un nuovo percorso dove il cerchio si chiude e si riapre in uno nuovo.

Come dice Schlegel: «È soltanto nell’entusiasmo della distruzione che si rivela il senso della creazione divina. È soltanto nel bel mezzo della morte che sfolgora la vita eterna» (Ideen, Minor).

E questo il significato sotteso de L’amant, testo e film all’unisono.

E questo il senso della vita dell’uomo che si manifesta chiaramente nell’immagine finale della storia, la nave che parte dal porto e la ragazzina che guarda l’orizzonte. Come al principio, la ragazzina col cappello da uomo e le scarpe da ballerina sul parapetto della nave e la macchina nera dell’amante cinese. La fine è l’inizio. Non a caso, tutto accade in un non luogo come un traghetto e si chiude in un non luogo come la nave, entrambi legati all’acqua che scorre via inesorabilmente come la vita.

«La grossa automobile era lì, lunga e nera, con l’autista vestito di bianco al volante. Era un po’ in disparte dal parcheggio delle Messaggerie Marittime, isolata. L’aveva riconosciuta da questo. Era lui sul sedile posteriore, quella forma appena visibile, immobile, abbattuta. Lei stava appoggiata al parapetto. Come sul traghetto, la prima volta, sapeva che la stava guardando. Anche lei lo guardava, non lo vedeva più ma continuava a guardare verso la forma dell’automobile nera. E poi alla fine non l’aveva più vista. Era sparito il porto e poi la terra».

E nel simbolico dell’acqua questi non luoghi smettono la loro funzione fisica di transito per assumere la dimensione allegorica di luoghi della memoria come percorsi metaforici personali, inconsci, onirici nei quali si perpetua il racconto della vita di ciascuno, che come un cerchio inizia e finisce nello stesso punto all’infinito. Vere e proprie raffigurazioni di una vita dove ognuno si rifugia una volta che essa volge al fine. Così la stanza dell’amore oltre il fiume.

«È quello il posto dove mi rifugerò, una volta abbandonato il presente, solo quello. Le ore passate nella garçonniere di Cholen me lo fanno apparire sotto una luce fresca, nuova. È un posto irrespirabile che rasenta la morte, un posto di violenza, di dolore, di disperazione, di disordine. È Cholen. Dall’altra parte del fiume, appena attraversato il fiume».

E lì, nel profondo di questi luoghi, il desiderio del corpo morto rivive nella dimensione spirituale, latente, risvegliandosi nella memoria e diventando così eterno.

«Anni e anni dopo la guerra, dopo i matrimoni, i figli, i divorzi, i libri, era venuto a Parigi con la moglie. Le aveva telefonato. Sono io. Lei l’aveva riconosciuto dalla voce. […]Era intimidito, aveva paura come prima, la voce improvvisamente gli tremava e in quel tremito, improvvisamente, lei aveva ritrovato l’accento cinese. […]E poi sembrava che non avesse altro da dire. Ma poi glielo aveva detto. Le aveva detto che era come prima, che l’amava ancora, che non avrebbe mai potuto smettere d’amarla, che l’avrebbe amata fino alla morte».

Giusy Mandalà

Cast & Credits

Marguerite Duras, L’amante, Feltrinelli Editore, Milano 2003
Marguerite Duras, L’amante della Cina del nord, Feltrinelli Editore 1999

L’Amant

Genere: Drammatico
Anno: 1992
Regia: Jean Jacques Annaud
Attori: Jane March, Tony Leung Ka Fai, Frédérique Meininger, Arnaud Giovaninetti, Melvil Poupaud. Lisa Faulkner, Xiem Mang, Philippe Le Dem, Ann Schaufuss, Quach Van An, Tania Torrens, Raymonde Heudeline, Yvonne Wingerter, Do Minh Vien, Hélène Patarot
Durata: 115 min
Paese: Francia/Inghilterra

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Forse

(Rogo, prigione; fiamme, catene; carbone, recinti; vivere, “vivere”)
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14 Comments

  • il linguaggio archetipico è universale, concordo, il testo è immortale, concordo, lei è la Dea della penna, concordo…

    per il vero "significato sotteso"… non credo ce ne sia solo uno.

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