La lettera come forma narrativa

La luminosa bellezza delle lettere d’amore, le corrispondenze belliche, i carteggi dei potenti della terra, le memorie degli imperatori custodite nel segreto scrigno degli epistolari. Tutto questo affascina poiché la lettera è un qualcosa che viene creato dal nulla: si impugna una penna e si scrive

 

Un tempo la lettera era uno strumento, un veicolo di comunicazione straordinario. Imprescindibile in un mondo pretecnologico, laddove si poteva scomparire per anni e troncare qualsiasi tipo di relazione. Immaginiamo di vivere in una realtà senza Social Network, telefonini, Pc, tablet e quant’altro. Se lo facessimo non sarebbe difficile comprendere l’importanza della missiva o epistola nel corso della storia umana. La luminosa bellezza delle lettere d’amore, le corrispondenze belliche, i carteggi dei potenti, le memorie degli imperatori custodite nel segreto scrigno degli epistolari. Tutto questo affascina poiché la lettera è un qualcosa che viene creato dal nulla: si impugna una penna e si scrive. La carta si copre di inchiostro, lacrime e sudore, poi comincia a parlare il linguaggio della nostra interiorità. Un’azione manuale che risente delle emotività, delle gioie e delle angosce del momento, i tumulti e i soprassalti dell’umano. Mi tornano alla mente antiche letture, i libri che mi hanno formato sono anche gli epistolari che le grandi menti del passato hanno vergato, soprattutto per i posteri.

Comincio con le lettere di Paolo, sono tredici testi del Nuovo Testamento attribuiti dalla tradizione all’apostolo Paolo di Tarso. In esse Paolo scrive a varie comunità da lui fondate o visitate nei suoi viaggi apostolici; alcune lettere sono inoltre dedicate a persone a lui care. E sono proprio quelle che colpiscono di più, quando la scrittura si fa intima emerge il caleidoscopio dei sentimenti e si arriva a trasferire su carta l’essenza più profonda di noi stessi. La centralità dell’amore che per Paolo è gran parte della nostra esistenza: «…Egli tutto ammette, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’amore non avrà mai fine. Invece le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà, la scienza svanirà. Perché la nostra conoscenza è imperfetta e imperfetto è anche quello che profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, tutto quello che è imperfetto sarà annullato. Quando ero bambino, parlavo da bambino, sentivo da bambino. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera oscura, ma allora vedremo in modo chiaro, faccia a faccia; adesso conosco soltanto in modo imperfetto, allora invece conoscerò come sono conosciuto. Ora, dunque, rimangono la Fede, la Speranza e l’Amore. Questi tre. Ma quello più importante di tutti è l’Amore».

Nel solco tracciato da Paolo si incanalano anche le epistole di Giovanni: «L’amore vince la morte». Questo l’annuncio cristiano, questa la speranza proclamata dalla Prima lettera di Giovanni. Si può non credere in Dio, ma certamente si deve credere all’Amore. In questa lettera Giovanni trasmette la più grande parola di speranza che l’uomo attende, l’amore vince la morte, questo l’esito del duello più tragico nell’intera storia dell’umanità. Thanatos, la morte che tutto divora, che vince la vita, trova nell’amore l’unico nemico capace di resisterle. Soltanto la forma della lettera, nella sua struttura diretta, avrebbe potuto rendere il senso alto di un sentimento di cui non conosciamo la reale forza. L’alba dell’ultima solitudine si identifica proprio nella grandezza dell’amore donato e ricevuto. Il senso profondo della Prima lettera di Giovanni risiede in ciò che veramente ha un significato, quello che conta nella vita di ciascuno di noi è l’amore che siamo stati capaci di donare. Il bene che abbiamo voluto e desiderato per gli altri e quello che abbiamo ricevuto. Dinanzi alle derive del materialismo, delle malvagità, dei rancori, del cieco attaccamento alla superficie del vivere… la realtà dell’amore è l’unica che conferisce un senso alla nostra esistenza individuale.

In questa breve navigazione mi tornano alla mente le Lettere a Lucilio di Lucio Anneo Seneca. Il grande stoico è forse il più moderno dei filosofi antichi. Sicuramente il più vicino alla nostra sensibilità e al nostro gusto letterario. Nelle Lettere non propugna un sistema filosofico cui conformare la propria vita, ma traccia piuttosto un itinerario, di cui ogni lettera è una tappa, verso la virtù e la vera libertà interiore, proponendosi come compagno di viaggio più che come maestro. Nella forma epistolare Seneca dà vita ad uno stile particolarissimo, nervoso e inquieto, riflesso di un’inesausta ricerca nei segreti dell’animo umano e nelle contraddizioni che lo lacerano.

Nel secolo dei lumi J.J. Rousseau scrisse un monumentale epistolario a cui diede il titolo di “Giulia” o “La Nuova Eloisa“. Molti critici letterari considerano l’opera come l’atto di nascita del moderno romanzo, contendendo lo scettro al “Don Chisciotte” di Miguel de Cervantes Saavedra. “La nuova Eloisa” è un romanzo filosofico in cui Rousseau dibatte in modo aperto se sia più giusto abbandonarsi alla pura passione amorosa, sacra espressione della natura e dunque inalienabile diritto dell’individuo, oppure abbarbicarsi alle convenzioni sociali, solido fondamento della convivenza umana. Giulia d’Etange, figlia unica di una famiglia di nobili origini, ama il suo giovane precettore, Saint Preux, dotato delle più belle qualità dell’anima, ma povero e inferiore socialmente. Saint Preux è l’amore/passione. Dall’altra parte c’è Wolmar, uomo ricco e solido, vecchio amico del padre di Giulia che promette un sicuro vincolo coniugale. Attraverso le innumerevoli e fittissime lettere si dipanano i grandi temi del pensiero di Rousseau, ergo di una parte consistente del ‘700. La teoria delle passioni, l’intreccio tra autoritarismo ed eguaglianza; la concezione della donna come moglie e come madre sulla base di una radicale differenza dei sessi, infine il progetto pedagogico dell’educazione naturale e domestica.

Nel 1919 Franz Kafka, uno dei più grandi scrittori di ogni tempo, scrisse la Lettera al padre. Testo drammatico e sconcertante dove emerge uno dei cardini della letteratura kafkiana, il senso di colpa. Quello che Kafka mette in scena nella lettera è un conflitto asperrimo. La figura del padre viene tratteggiata con tinte fosche, incarna una autorità assoluta, che «ha l’aspetto truce dei tiranni, la cui legge si fonda sulla loro persona e non sul pensiero». Agli occhi di Kafka il padre appare come il rappresentante di un mondo da cui egli si sente escluso: pratico, utilitaristico, in balia del denaro, lontano dalle sue aspirazioni. L’animo sensibile di Kafka soffriva dinanzi all’arida concretezza di un’educazione stringente, dove si conosce il prezzo di tutto e il valore di nulla. Questo padre ossessivo e cieco di fronte alla vocazione artistica del figlio, si tramuta in un personaggio letterario al pari degli altri protagonisti dei romanzi e racconti di Kafka (rimando al mio ‘Perché‘ il “Kafka” di Pietro Citati).

La lettera può assumere anche la fisionomia di una lunga confessione, è il caso del “De Profundis” di Oscar Wilde. Si tratta di una straordinaria lettera privata scritta in carcere al giovane Lord Alfred Douglas, a cui Wilde imputa la sua detenzione. La penna graffiante e icastica dell’irlandese consegna al “De Profundis” la sua eloquenza, la sua cultura sterminata quanto puntuale, soprattutto il suo inimitabile senso dello stile; ma anche le debolezze, gli slanci, le passioni che dandole una dimensione umana finiscono per confermare l’imperitura vitalità di un personaggio emblematico della cultura moderna.

Le lettere dal carcere di Antonio Gramsci ci dicono che la missiva può divenire un mezzo di denuncia politica da parte degli intellettuali e non solo. Un modo per scuotere le catene e le coscienze. Dall’oscurità delle carceri fasciste Gramsci usò la penna come un’arma, un veicolo per educare le coscienze alla ribellione, a non abbassare mai il capo dinanzi ai soprusi liberticidi di qualsivoglia governo politico. Epistole di denuncia politica intrise di senso di responsabilità, ma anche intime, destinate ai parenti. Cito il finale della lettera alla madre: «…Io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico… In fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione… Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso… Cara mamma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini».

Karen Blixen, scrittrice danese, raccontò l’Africa attraverso novelle, romanzi ed epistolari. Lettere dall’Africa è un libro vivido e palpitante, capace di rendere il sapore del continente africano da lei vissuto per quasi venti anni. Durante il suo lungo soggiorno nell’Africa Orientale Britannica, sugli altopiani di quello che oggi si chiama Kenya, Karen Blixen scrisse continuamente a casa, alla madre, al fratello, alle zie, e queste splendide lettere sono come un controcanto segreto ed intimo alla sua opera maggiore, il romanzo autobiografico “La mia Africa“.

Nel Novecento italiano abbiamo il poeta Dino Campana e l’amore per Sibilla Aleramo, eternato da lettere memorabili e appassionanti.

Vincenzo Cardarelli scrisse lettere sarcastiche agli amori perduti, agli amici felloni, suggellando ogni stortura umana con una lettera lapidaria.

Infine, come non ricordare Cesare Pavese, il suo tormento e le sue nostalgie. Il grande romanziere italiano scrisse lettere ai famigliari, agli amici, agli amori veri e presunti, ai colleghi della casa editrice Einaudi. Un filo di disperazione priva di speranza attraversa le lettere di Pavese, soprattutto quelle dell’ultimo periodo; l’epistolario documenta quasi giorno per giorno il precipitare di una crisi. Si avverte la presenza di quel male che lo porterà al suicidio nel 1950, in una anonima stanza d’albergo e dopo aver vinto lo “Strega”.

 

Nulla come la forma narrativa della lettera fa emergere gli strati più profondi della nostra essenza, sino a farsi antidoto per la cura della nostra anima. Alle lettere consegniamo quello che siamo veramente, senza infingimenti o menzogne, lasciamo a loro il compito di raccontare chi eravamo.

 

Giuseppe Cetorelli

 

Share Button
More from Giuseppe Cetorelli

La Fine

Racconto breve di Giuseppe Cetorelli
Read More

6 Comments

  • Bello nel tempo dei Twitter il linguaggio e il tempo di attesa di riflessione hanno perso quel valore che rendeva la parola scritta degna compagna della nostra anima. Ma secondo te. Potrebbe il blog essere la nuova forma di letteratura del xxi secolo ?

  • Lo è già….. come è anche una nuova forma di giornalismo
    ora bisognerebbe capire le modalità o i parametri con cui inserirlo in un contesto professionale, giornalismo , o artistico , forma letteraria

  • come dice Giuseppe alla lettera consegnamo tutto noi stessi ,e’ sempre stata una scrittura molto personale,ecco perche’ se ne trovano di cosi’ belle quando scritte da grandi autori

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.