Nel nostro vocabolario la pazzia viene definita come un’alterazione mentale, che genera stravaganza, comportamenti irragionevoli, assurdità incoerenti. Esulando dalla patologia mentale, nell’immaginario collettivo la pazzia è assimilata all’artista, estroso, bizzarro, irrefrenabile nella sua creatività e potente immaginazione.
Nell’antichità fu Platone a rilevare la maniacalità del temperamento, distinguendo losquilibrio psichico di origine patologica dall’entusiasmo creativo, il “divino furore” che ispira poeti, compositori e veggenti.
Poi Aristotele sulla base della dottrina degli umori che istituiva un collegamento tra prevalenza di bile nera nel corpo e temperamento melanconico, affermò che tutti gli uomini straordinari, eccellenti nella filosofia, nella politica, nella poesia e nelle arti sono palesemente melanconici, postulando una connessione tra genio e melanconia che collocava l’uomo melanconico in una zona prossima all’alterazione: di qui il celebre detto di Seneca «Nessun uomo grande fu mai senza mistura di pazzia».
Associata per tutto il medioevo al vizio dell’accidia la melanconia fu nuovamente percepita come fonte di creatività soltanto nel primo Rinascimento, sulla scia della riscoperta della divina frenesia platonica, si diffuse l’idea dell’artista matto ancora oggi molto presente.
Nell’epoca cavalleresca, XVI – XVII secolo, Ludovico Ariosto ci ha mostrato un aspetto del delirio, della pazzia legata all’amore, l’ “Orlando furioso” riprende le vicende dei paladini di Carlo Magno dal punto in cui si era interrotta la narrazione dell’incompiuto Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo. Nel furioso la componente sentimentale viene sottolineata a tal punto che l’eroico Orlando è portato alle soglie della pazzia a causa dell’amore spasmodico che prova per l’inafferrabile Angelica, principessa del Catai. Al centro dell’opera c’è poi un’altra coppia di innamorati, quella formata da Bradamante e Ruggero. La leggerezza della poesia del furioso, estremamente elegante, accoglie però tematiche tutt’altro che gioiose. Dalle ottave del suo poema l’Ariosto guarda il mondo con disincantata ironia mista a un fondo di disillusa tristezza.
Il genio e la pazzia come due facce della stessa medaglia, l’amore spasmodico, intensissimo che porta alle soglie della follia, sono queste le tematiche della pazzia nel seicento, la pazzia è infatti amore della vita nella sua semplicità, contrapposta alla saggezza artificiosa ed arcigna e alla scienza di chi sa tutto tranne che vivere ed amare. Nel poema cavalleresco l’amore è pazzia come aspirazione all’essere autentico, risvegliata da quella manifestazione più amabile e più evidente di esso che è la bellezza, è la pazzia amorosa alla quale l’uomo è invogliato dal ricordo della bellezza ideale evocato in lui dalla gradevolezza delle cose del mondo.
L’ “Elogio della pazzia” di Erasmo da Rotterdam è la più famosa difesa di questo significato del termine, la pazzia di cui parla Erasmo è la semplicità della vita, che si contenta di nutrire illusioni e speranze; o, nel campo della religione è la fede e la carità contrapposte alle cerimonie esterne, ai riti meccanizzati e all’ipocrisia dei banchettoni. Questa forma di pazzia non ha, ovviamente, nulla a che fare con un’ispirazione divina, ma è umana e laica e non per nulla l’elogio di essa è uno dei documenti più significativi del Rinascimento.
Agli albori del ventesimo secolo uno studio approfondito sulle connessioni tra arte e follia fu realizzato da Walter Morgenthaler, psichiatra svizzero la cui fama è indissolubilmente legata al saggio “Arte e follia in Adolf Wolfli”.
Il caso di Wolfli fu paradigmatico dacché per la prima volta si studiarono le realizzazioni figurative e pittoriche di un malato di mente, uno schizofrenico nella fattispecie, al quale venivano somministrati fogli bianchi di varie dimensioni, matite colorate, riviste e giornali a scopo terapeutico. Lo studio pionieristico di Morgenthaler orbitava attorno ad una domanda: come poté un uomo, benché schizofrenico -nato a Berna nel 1864 da una famiglia di umilissime origini, di mestiere bracciante, tagliapietre, semianalfabeta, per tutta la vita chiuso ermeticamente nella sua categoria sociale- cominciare a dipingere, scrivere e comporre musica ininterrottamente fino al 1930, anno della sua morte?
A questa domanda ne seguì un’altra, il dubbio che l’arte di Adolf Wolfli fosse la direttaespressione della sua malattia, o viceversa il linguaggio dell’ordine contro il disordine mentale.
Giuseppe Cetorelli