La carica dei 101 zombie

Ataviche paure creano surrogati sociali per esorcizzare una felicità che non si ha il coraggio di abbracciare

Dal finto annuncio di “corpi dei morti che stanno risorgendo dalle loro tombe e stanno attaccando i vivi“, andato in onda qualche giorno fa su tre stazioni locali statunitensi ad opera di qualche hacker creativo, alle pellicole cinematografiche, b-movies compresi, è tutta un’invasione di zombi sanguinolenti.

La virtualità presunta si trasporta banalmente e vivacemente nella realtà. Quella realtà che nei momenti di recessione si interroga su sé stessa e contestualmente si riappropria di paure e tabù ancestrali legati alla morte, al sangue e al corpo, e che si esplicita nel pericolo di invasioni esterne (come nel caso della Guerra Fredda con nemici provenienti da altri mondi) o in seno alla società esistente.

Fin troppo facile capire il parallelismo che ci vede tutti protagonisti. La lobotomia rappresenta la mancanza di volontà reattiva insita nella massa incapace di modificare situazioni esistenti insostenibili. Seppur, nella visione di George Romero, gli zombi fanno proprie istanze rivoluzionarie per cui mangiando carne umana fagocitano dinamiche culturali non più attinenti al comune sentire, in ogni caso, essi sono sempre espressione di una mancanza di potere evidente.

 

Dall’adolescente di “Warm bodies“, alla ricerca della propria umanità e del proprio posto nel mondo, al funzionario delle Nazioni Unite (?!) di “World War Z” che cerca di salvare la cultura umana, opere d’arte comprese, il vagare senza meta e random dei morti viventi rappresenta la difficoltà di approdo dei percorsi mentali della coscienza collettiva in naufragio perenne alla ricerca di punti fermi, costruttori di identità e contestualmente di felicità. Proprio quella felicità clonata da Walt Disney e dai sui cartoni che ne “La carica dei 101“, ripropone, in una versione fatata e sognante, esseri tutti uguali creati e moltiplicati per uno scopo prettamente economico nell’esaltazione di manie di grandezza di super ego super prepotenti.

La nostra, infatti, è una società alla continua ricerca della felicità. Spesso forzata ma molto più spesso surrogata a tal punto da creare picchi di smarrimento che non fanno altro che allontanarci sempre più dalla meta. In un lento vagare a zig zag.

Simbolico è il film -il secondo capitolo del ciclo Zombi – 1978- in cui frotte di corpi putrefatti si aggirano per un centro commerciale e richiamano la visione originaria degli nzumbe haitiani resi schiavi da piccoli angeli guardiani che ne inducono lo stato di letargia e sono leggenda funzionale al regime dittatoriale di Duvalier.

 

Ma gli zombie, nella loro privazione di essenza senziente, diventano prepotentemente gli eroi vincenti di un caos primordiale sulle cui macerie ricostruire un diverso sistema di relazioni, condivisioni, economia. La sopravvivenza è data dall’altro visto “solo” come cibo, principio nutritivo primario e materia creatrice del proprio futuro vitale.

In questa sonnolenza costante, però, sfacciatamente ci viene posta davanti agli occhi una realtà che ci ricorda di scrollarci di dosso il luccichio di cagnolini scodinzolanti in salsa dalmata per salvarci dallo sbrindallamento del cervello.

Evilia Di Lonardo

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