Julie’s Haircut: intervista esclusiva su eventi cosmici!

Con il loro sesto album, "Ashram Equinox", la band emiliana approda allo Psych Fest tra jazz-rock, space rock e psichedelia

Anche Roma ha finalmente un suo Psych Fest.  L’evento arriva ai blocchi di partenza dopo il successo della preview primaverile e animato dall’urgenza di ricontestualizzare l’immaginario e gli stilemi che hanno caratterizzato la rivoluzione culturale e artistica di fine anni ’60, ancora così attuali e influenti. Si tratta del primo vero festival capitolino dedicato alla musica e alle arti psichedeliche: due giorni, tre palchi, 18 band nazionali ed estere, dj set ed esposizioni per un excursus delle nuove tendenze legate all’universo psichedelico contemporaneo. L’appuntamento è sabato 1 e domenica 2 Ottobre al Monk di Roma, che si presenterà più che mai trasformato grazie al coinvolgimento di artisti visivi e all’interazione dinamica e significativa di visual, video mapping e installazioni con la proposta musicale.

Una delle band che promette faville sul palco dello Psych Fest sarà quella dei Julie’s Haircut, la band emiliana giunta ormai ad un’esaltante miscela tra space rock e psichedelia, è stata qui prontamente intervistata per l’occasione..

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Quanto ha influito su di voi e sulla vostra produzione musicale il fatto di aver cominciato a suonare negli anni ’90 e di aver attraversato il periodo a cavallo tra la fine di quei anni e l’ inizio del 2000?

LUCA: È ovviamente molto difficile dirlo standoci dentro. Negli anni ’90 tutto si muoveva più lentamente, dobbiamo renderci conto che se parliamo del mondo prima che Internet diventasse il più diffuso mezzo di comunicazione, prima dei Social, prima addirittura delle e-mail, parliamo di un mondo strutturalmente differente in tutto da quello attuale e noi apparteniamo a quella generazione che ha vissuto questo passaggio nel pieno della propria giovinezza. In generale direi che era un mondo meno demistificato, in cui il mistero aveva un ruolo ancora centrale, perché per ottenere un’informazione non era possibile consultare all’istante uno smartphone. Tutto ciò aveva le proprie conseguenze in ogni ambito della vita, ad esempio c’era sicuramente un maggiore pudore della propria intimità prima di tutte le leggi sulla privacy. In ambito musicale si traduceva nel fatto che, anche senza bisogno di mascherarsi, le band che ci incuriosivano erano per lo più un enigma, al di là della musica, che potevamo ascoltare. Erano una cosa da scoprire e la scoperta richiedeva tempo e dunque passione e convinzione. Curiosità vera. Questo secondo me generava una partecipazione emotiva maggiore negli appassionati.
Per il resto però credo anche che ci si debba adeguare ad ogni cambiamento, saper distinguere il significativo dal trascurabile ed incorporare lo spirito dei tempi vivendoli. La nostra musica è sempre cambiata a seconda di come cambiavamo noi. Ma faccio davvero tesoro di aver avuto l’opportunità di fare musica prima del nuovo millennio, è stata un’ottima scuola.

 

E quanto hanno influito i vari cambiamenti di line-up, che hanno portato, nel 2015,  ad accogliere tra di voi anche una sassofonista?

LUCA: I cambi di line up sono sempre avvenuti in maniera naturale, anche con le difficoltà del caso, strade che si incrociano e altre che amichevolmente si separano. Ma nel nostro caso la filosofia è opposta a quella di Mark E. Smith che dice «I Fall sono io e chiunque altro sia sul palco in quel momento». Da noi invece: «Julie una volta, Julie per sempre».

 

Come descrivereste la vostra musica e la vostra evoluzione musicale ad una persona che ancora non vi conosce?

LUCA: Gli farei ascoltare l’ultimo album pubblicato e se gli interessa andrei a ritroso, senza spiegare nulla.

 

Quanto lavoro c’è dietro un album come “Ashram Equinox”? È un album ‘perfetto’ e sembra manifestare una cura maniacale nella scelta dei suoni migliori.

LUCA: Se “Ashram Equinox” ha mai avuto un segreto, è proprio, viceversa, la sua sistematica imperfezione. È vero, sulla cura dei suoni abbiamo lavorato moltissimo, ma lo facciamo da sempre. Tutto quello che senti però non è altro che un “aver messo un minimo di ordine” su alcune improvvisazioni registrate senza prove. Certamente, questo processo di messa a punto è stato piuttosto minuzioso e ha richiesto molto tempo, anche perché accontentare noi stessi non è poi così semplice.

 

Da chi parte l’idea di scrittura di un pezzo? Lavorate insieme dall’inizio o uno di voi getta una bozza su cui poi lavorate collettivamente?

LUCA: Non c’è una regola fissa, ma ultimamente tutto nasce da improvvisazioni registrate in studio che poi vengono prodotte, ovvero editate, strutturate, arricchite di sovraincisioni, linee melodiche, a volte cantati. È simile a un procedimento alchemico: il trucco sta nel prendere una materia prima informe e confusa e raffinarla per stadi fino a sprigionarne tutto il potenziale, ma stando attenti a non ingabbiarla tanto da renderla innocua.

 

Riuscireste a stilare una top-five degli album più importanti ed influenti per voi?

LUCA: No, ma posso dirtene cinque che oggi mi rendo conto hanno contribuito al mio modo di approcciare la chitarra. “The Velvet Underground and Nico”, “Exile on Main Street” degli Stones, “Tommy” degli Who, “Dirty” dei Sonic Youth e “Lightnin’ and the Blues” di Lightnin’ Hopkins.
NICOLA: Una domanda simile ci è già stata fatta qualche tempo fa, alla fine del consulto tra tutta la band (però mancava Ulisse) sono saltati fuori “Exile…” degli Stones, “Funhouse” degli Stooges, “What’s Goin On” di Marvin Gaye e “Harvest” di Neil Young. Tutta roba nuovissima come vedi.

 

C’è un episodio legato ad un live, o anche alla scrittura di un pezzo, che ricordate con piacere?

NICOLA: Difficile rispondere, in oltre 20 anni di cose belle ne sono successe tante. La scrittura dei pezzi da tempo ormai segue percorsi poco ortodossi, più legati all’improvvisazione che alla scrittura a tavolino, mentre per quanto riguarda il live mi verrebbe da dire che, visto che siamo a Roma, questa è forse la città italiana in cui negli anni è cresciuta maggiormente l’attenzione per la nostra musica. Siamo molto affezionati al pubblico romano.

 

Il vostro album d’ esordio “Fever in the funk house”, secondo voi, godrebbe di una risonanza maggiore se venisse pubblicato ora, nel 2016? O verrebbe accolto come un album fuori tempo ?

LUCA: Non credo avrebbe più risonanza di quella che ricevette nel 1999, non foss’altro che mezz’ora dopo la pubblicazione sarebbero già usciti altri 50 dischi che sbracciano per un po’ d’attenzione.

 

Ci sono dei brani a cui siete particolarmente legati? Se si, perché?

LUCA: “The Devil in Kate Moss” per tanti motivi si è rivelata una delle nostre immancabili nei concerti.
NICOLA: La nostra rilettura di “The Tarot”, dalla colonna sonora di “The Holy Mountain” di Jodorowsky. Ci abbiamo messo un anno per arrivarci in fondo, per me rappresenta un passaggio importante nel nostro percorso musicale.

 

Vi aspettiamo con ansia al Monk per il Rome Psych Fest!

 

Alfredo Cannizzaro

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