È il 1857 quando il pittore Joseph-Benoit Guichard scrive alla madre delle sue due allieve Berthe ed Edna Morisot affermando con decisione che le due ragazze «Diventeranno delle pittrici…»: un destino che provocherà, secondo lui, «..una rivoluzione», «..se non una vera catastrofe», nell’ambiente altoborghese. Guichard insinua un dubbio nella mente della madre delle due artiste: «È sicura di non arrivare un giorno a maledire quell’arte che […] diventerà la sola padrona del destino delle sue figlie?». Il tono allarmato del pittore sembra manifestare la stessa incertezza che il mondo professionale legato al mercato dei beni culturali viveva nel XIX secolo, nel momento in cui la donna vuole fare della propria arte un mestiere per creare delle vere e proprie carriere culturali, allora monopolio dell’uomo. A discapito di tutte le difficoltà, il nome di una delle due sorelle Morisot, Berthe si è imposta per la forza del suo temperamento e per la fitta rete di relazioni con personaggi che la critica porrà in rilievo.
Grazie ai nomi degli amici impressionisti e della ricostruzione di una storia dell’arte “al femminile“, iniziata negli anni ’70, è stato possibile recuperare il nome di questa donna che altrimenti sarebbe stata potenzialmente trascurata pur avendo avuto in vita importanti riconoscimenti. Cosa è accaduto invece a quelle donne che si legarono a dei circoli, che non ebbero fortuna presso la critica, e a quell’arte “accademica“, divenuta ingiustamente simbolo negativo dello sterile conservatorismo, come se non fornisse esempi di talento e non servisse a comprendere l’evoluzione del pensiero umano tra il XIX e il XX secolo? A loro semplicemente l’oblio o una difficilissima affermazione nella memoria a causa di una storia dell’arte che ha superficialmente tacciato la donna come dilettante ed essere incapace di produrre della grande arte a causa di un “essenzialismo femminile”.
Non si è per nulla sorpresi quindi che il nome della pittrice italiana Juana Romani, vissuta a Parigi e “consumata” nella piena belle époque, sia sconosciuto al vasto pubblico pur avendo avuto in vita una certa fama e aver fornito esempi di arte non certamente “meschina”. L’oblio della sua figura non solo è dovuto alla riscrittura della storia dell’arte che ha marginalizzato le donne e alla prima svalutazione da parte della critica modernista del genere redditizio del ritratto di cui la Romani è stata pienamente interprete, ma anche alle stesse scelte di vita operate della pittrice e il suo destino di malata mentale. Inoltre il disinteresse nei confronti dell’arte “accademica” dei piccoli gruppi d’artista, come quello dei Caldarrosti fondato a Roma nel 1861 con i cui membri la pittrice sarà in stretta amicizia, e il tramonto del mercato della pittura di Terza Repubblica in rapporto alle opere d’avanguardia hanno fatto sì che venisse dimenticata.
Quel «Elles deviendront des peintres» scritto da Guichard in quella lettera del 1857 evolve e si modifica divenendo per Juana Romani, negli appunti d’atelier pubblicati e scritti nel 1925 da Émile Durand-Gréville, in un «Elle est devenue depuis un peintre de talent. C’est m.lle Juana Romani», come se nel giro di diversi decenni la mentalità fosse riuscita finalmente a metabolizzare la presenza e la possibilità d’affermazione delle donne pittrici: accettare però non significa necessariamente comprendere. Molto è affidato al pregiudizio e la critica dell’epoca, composta in prevalenza da uomini, anche mettendo in rilievo le opere delle donne tende a intravedere in esse la solita leziosità femminile: certamente potevano esistere delle pittrici, ma a loro restava una pittura leggera, da «ricamo», poco seria. Lì dove la donna “traboccava” in talento o dove riusciva a imporre un proprio stile come la Romani, la critica non poteva che definire quell’artista “virile“, avendo come apice ed esempio massimo del genio d’artista esclusivamente l’uomo.
Juana Romani, come scrive Armand Silvestre letterato d’ispirazione parnassiana, è la “più virile” nel gruppo di pittrici che abitano a Parigi, pur facendo dell’arte di un “femminismo esagerato”. Lei nasce nel 1867 a Velletri, una città tra la pianura pontina e la campagna romana, da una madre sarta e da un padre brigante. La piccola sarà poi affidata al nuovo marito della madre, un musicista di una agiata famiglia di proprietari terrieri. Per Juana tutto era pervaso da un senso misterioso, non solo per la fortuna del proprio talento, ma anche per l’incomprensibile concatenarsi di eventi che l’avevano sempre spinta a migliorarsi. Una “mendicante” viene definita dai giornali inglesi e statunitensi nei primi anni del Novecento indicando la Romani nel periodo della sua adolescenza nella capitale francese, poi, con il successo, le attribuiscono il titolo di “donna più produttiva di Francia“, «Una delle più illustri pittrici del mondo», una delle «Quaranta immortali che rappresentano l’Italia» assieme alla regina Margherita di Savoia e all’artista Eleonora Duse: era una predestinazione che traeva energia dalla voglia di elevarsi da uno stato di miseria.
La Romani dipinge sole donne prendendo a modello, per molti dei suoi quadri, sé stessa: come afferma la storica Malosetti Costa è «Il principio della moda in senso moderno». Lei dipinge l’Elena non colpevole, ma innalzata presso gli altari pagani, rappresenta la donna in quelle componenti oscure e misteriose dove gli occhi diventano di fuoco, dove i seni come frutti succosi risvegliano il borghese impotente e affamato d’esotico, d’erotico. Per penetrare così profondamente nell’enigma del suo essere e arrivare, come lei stessa afferma, a rendere gli ideali, fa la scelta della castità, mortificando gli istinti terreni per elevare tutto il suo essere sensibile verso le fuggevoli ma, a volte, pressanti e ossessive visioni della bellezza. Raffigura Salomé, Giuditta, Erodiade, Bianca Capello, la figlia di Teodora, la Maddalena «..colle loro dilatate pupille nevrasteniche», semplicemente avvolte nei tessuti dalle decorazioni medievali e rinascimentali.
Oscillando tra l’estetica simbolista e preraffaellita, la Romani non dipinge che sé stessa trovandosi in quelle donne dalla forte personalità, che irradiano luce propria, che si perdono sullo sfondo neutro assurgendo a simbolo. La pittrice dà priorità alla componente istintuale dell’artista rispetto alle capacità tecniche affermando che: «Tutta la stancante e straziante schiavitù dello studio, che spesso serve, rischia di schiacciare la scintilla tremolante del fuoco sacro ed esaltare al suo posto l’accurata mediocrità o l’abilità meccanica della mano». Quel fuoco sacro non è che il talento, ma allo stesso tempo lo spirito del melanconico che cerca di dare forma alle sue pulsioni, di limitare attraverso l’ordine le passioni e gli umori incontrollabili.
Juana Romani proprio per la sua tensione verso l’ideale cerca di mettere in pratica quello sdoppiamento psichico e reale che anche l’uomo artista fa scindendosi in essere fisiologico ed estetico. L’attenzione della Romani per l’individuo in sé la porta ad elaborare una visione molto elitaria dell’arte dominata da talento e virtù. La scelta di castità si mostra quindi come una rinuncia alla maternità in pieno favore dell’arte.
Il trasferimento della famiglia nel 1877 dal paese natale a Parigi che stava divenendo la “capitale della modernità”, il suo precoce mestiere di modella d’artista che le ha permesso di fare amicizia con i pittori e gli scultori con i quali lavorava e la relazione intima con Ferdinand Roybet, allora artista riconosciuto e apprezzato, e poi ancora la partecipazione a quelle che lei definiva le «vanità ufficiali», alle esposizioni universali del 1889 e del 1900 nella sezione italiana assieme a Boldini, Mancini, Michetti, Sartorio, Segantini etc…, ai Salon parigini dal 1888 al 1904 e alla biennale di Venezia, la fortunata amicizia con la famiglia Lumière portando a Velletri il primo “cinematografo”, la compera di diverse sue opere da parte dello Stato francese: una carriera brillante fatta di premiazioni e tormenti.
La Romani pur formandosi in atelier privati di artisti francesi, essendoci per la donna fino al 1902 il divieto di entrare nelle accademie pubbliche d’arte, e vivendo per più di vent’anni a Parigi, crea ed espone esclusivamente per l’Italia, scelta che la condannerà alla perdita di senno. Nel 1894 aveva esclamato a un giornalista: «Io rialzerò l’arte in Italia!». Ma se la patria per la quale lavora non le riconosce i pregi, cosa può accadere in quella donna che ha fatto del dipingere la sua stessa motivazione di vita e dell’Italia la sua guida ideale?
Pur ricevendo apprezzamenti dalla sua città natale che le titola in vita una via, una scuola d’arte e un premio annuo per gli alunni meritevoli e avendo un supporto nel suo maestro e amante Roybet, vent’anni più vecchio di lei, non può che cedere alla distruzione completa della propria personalità costruita sull’arte, le virtù e l’Italia. Viene considerata un «accidente artistico..» del suo Paese d’origine: miope di fronte sé stessa insiste volendo contribuire all’evoluzione artistica dell’Italia e forse, intimamente, divenire la prima tra le artiste italiane: «Se non ci riuscirò avrò dolore, ma non ne avrò rimorso», disse.
Il suo è prima di tutto un dramma esistenziale e d’appartenenza, un problema di identità che le genera allucinazioni: lei è e rimane figlia di una sarta analfabeta e di un brigante che non conoscerà mai, figliastra di un musicista nella cui famiglia non verrà mai accettata, una donna che con ambizione tenta di imporsi a parità degli uomini e di penetrare da parvenue gli strati sociali più alti: quella pittrice dalla leggera «pronuncia trasteverina..», amica dei Rothschild, dei principi Borghese, dei Murat, non più italiana, ma neanche francese, isolata dal gruppo delle donne pittrici e scultrici e dalla comunità viva degli artisti italiani a Parigi, soccombe. Il New York Times annuncia la sua fine artistica nel 1905. Accomunata dalla stesso destino della sua collega Camille Claudel, nel massimo del successo, viene internata in più manicomi: morirà cieca e deforme nel 1923, nel più assoluto silenzio e abbandono. Nessun giornale annuncia la sua prematura scomparsa. Poi, l’oblio.
«Parecchi che non la osservano bene la potevano prendere a volte per una brava bambina sorridente; ma, in lei, la donna non abdica all’artista, al contrario la sua arte sarebbe piuttosto fatta di un femminismo esagerato. La Fontaine si era ben chiesto cosa avrebbero dipinto i leoni se avessero saputo dipingere. Ebbene, immagino che se le grandi incantatrici Dalila, Giuditta, Lucrezia avessero saputo dipingere avrebbero tracciato queste immagini allo stesso tempo fiere e deliziose come fece Juana Rimani, nelle quali mi e` sempre sembrato che ci fosse molto di lei stessa». Paul-Armand Silvestre per Juana Romani, 1894.
Gabriele Romani
l’oblio che inghiotta i reietti, i dissidenti… grande storia. non conoscevo questa pittrice. i suoi quadri sono di un fascino misterioso
bellissimo articolo. complimenti a Romani.. omonimo?
dipinti dall’attrattiva liquida ma terrosa, carnale, inesplicabili quasi. una bellezza arcana. un tocco scuro e vellutato. davvero interessante
bravissima. sarebbe davvero da riscoprire
………in nome dell’ arte!
complimenti a Gabriele R. per lo splendido articolo <3
che donna! un esempio ante litteram. non conoscevo neanche io , grazie per questo bel post i quadri sono incantevoli
un «accidente artistico..» … oggi la fuga dei cervelli. eppure siamo il popolo dei scienziati e degli artisti . anche se riconosciuta non siamo stati in grado di dargli la giusta posizione sociale. il manicomio era meglio adatto per quei bigotti
bellissimo post. complimenti a gabriele