Intervista a Vladimiro Bottone, autore del romanzo “Non c’ero mai stato”

Vladimiro Bottone (Napoli, 1957) ha pubblicato i romanzi “L’ospite della vita” (BEAT, 1999), selezionato al Premio Strega 2000, “Rebis” (Avagliano Editore, 2002), “Mozart in viaggio per Napoli” (Avagliano Editore, 2003), “Gli immortali” (Neri Pozza, 2008) e la raccolta di racconti “La principessa di Atlantide” (Avagliano Editore, 2006). Gli ultimi suoi libri, che formano un dittico storico, sono “Vicaria” (Rizzoli 2015, poi BEAT 2017) e “Il giardino degli inglesi” (Neri Pozza, 2017). Il suo ultimo romanzo è “Non c’ero mai stato” (Neri Pozza, 2020). Collabora a L’Indice dei libri del mese e al Corriere della Sera. Dal 2015 ad oggi pubblica, ogni domenica, un racconto sul Corriere del Mezzogiorno

Ci presenti il tuo nuovo romanzo “Non c’ero mai stato”?

Molto volentieri. La storia, dunque. Ernesto Aloja è un ex editor: ha passato l’intera vita professionale a correggere i romanzi degli altri, dopo aver rinunciato a scriverne in proprio. Da poco è tornato a Napoli, il luogo dei suoi traumi giovanili. Ernesto ne censura il ricordo con gli psicofarmaci e frequentando due amanti che non gli procureranno mai fastidi. Questa routine è spezzata dall’arrivo di un dattiloscritto. Si tratta di un romanzo chiaramente autobiografico, il racconto di esperienze disordinate e promiscue. D’istinto Ernesto si sbarazzerebbe di un testo che ha la capacità di turbarlo profondamente. Non può evitare, però, di incontrarne l’autrice. Lena Di Nardo è una trentenne magnetica e disturbante. Una giovane donna che condivide l’esistenza precaria e senza prospettive della propria generazione. Lena vive nell’hinterland napoletano, dove Ernesto non era mai stato. Tutto, quindi, congiura perché lei rimanga una predestinata a non farcela. Ernesto che ha sempre seguito la nascita di romanzi, stavolta ha l’impulso di far sbocciare una romanziera. Hanno così inizio i loro incontri settimanali, nella casa panoramica dove l’editor abita da solo. Quello di Ernesto e Lena si rivelerà, da subito, come un apprendistato reciproco: di Lena alle tecniche della scrittura, di Ernesto ad un mondo per lui inedito. Sia con le proprie pagine, sia facendosi accompagnare nelle sue scorribande notturne, Lena conduce l’editor in un mondo dove lui non era mai stato. Un mondo dove la fa da padrona la sessualità usa-e-getta dei coetanei di Lena, consumata durante notti in discoteca a base di alcol, sostanze e indifferenza per il senso del limite che ha improntato tutta la vita di Aloja. La destabilizzazione psicologica dell’editor, poi, è accentuata da strani episodi di cui la sua allieva è vittima. Alcuni pedinamenti; lo speronamento notturno dell’auto di Lena; un diverbio di lei con una misteriosa ragazza nel parcheggio della discoteca; alcune aggressioni verbali sul suo profilo Facebook. Il tutto mentre le notti di Aloja iniziano a venire disturbate da uno stillicidio di telefonate anonime. Troppo tardi Ernesto ha la sensazione di essersi avventurato in territori dove non era mai stato. Territori che riguardano il passato di Lena, ma anche quello personale dell’editor. Al fondo di questa discesa agli Inferi, una doppia rivelazione spietata come ogni verità rimossa. Una verità dove, sbagliando, ci sembra di non essere mai stati. Ernesto Aloja non potrà che scriverne, finalmente in prima persona.

– “Non c’ero mai stato”: cosa si cela dietro il titolo della tua opera?

La scoperta di mondi, di generazioni che l’Io narrante non conosceva. La scoperta di zone della propria sessualità, del proprio eros che Ernesto Aloja ignorava. Il ritorno ad un passato che lui avrebbe voluto disconoscere e che, invece, è costretto finalmente ad esplorare. Il rientro in una città, emblematica del suo proprio rimosso, che lui non aveva mai davvero lasciato. Il titolo, come immagini, muove da un verso di Caproni: Non c’ero mai stato, mi accorgo di esserci nato. Un sigillo perfetto, per questo romanzo. I grandi poeti sono tali anche perciò.

– Il protagonista del tuo romanzo è Ernesto Aloja, un ex editor di cinquantotto anni ormai rassegnato a un’esistenza vissuta senza particolari slanci. Vive in una bella casa che è diventata però una prigione dorata “dove nessuno rimane mai”, fino al momento in cui la sua quotidianità viene scossa da un evento che gli fa riprendere contatto con il suo lavoro di editor, e che lo fa entrare in una spirale ossessiva che lo desta dal suo torpore. Vuoi parlarci della genesi di questo intenso personaggio?

Per rispondere compiutamente dovrei dilungarmi a oltranza, risultando introspettivo oltre il lecito, contorto e noioso oltre il sopportabile. Meglio essere sintetici e approfittare di una formula bella e pronta, oltretutto assai efficace. Ernesto Aloja c’est moi.

Lena Di Nardo è la protagonista femminile del tuo romanzo. Una donna magnetica, a tratti scabrosa e allo stesso tempo infantile, vittima di un trauma di cui non riesce a parlare, espresso simbolicamente nel suo manoscritto attraverso il personaggio di Gilda Ninno, suo alter ego. Dal tuo romanzo: “Lena Di Nardo si muove in una specie di savana senza né ombra, né riparo possibile, dove vige la lotta per la sopravvivenza. Lei vive in mezzo agli approfittatori, ai depravati, alle cose vere, alle cose reali”. Ernesto vede Lena come un’equilibrista sul filo, che con quello stesso filo potrebbe però impiccarsi. Quali sono state le fonti di ispirazione per la tua protagonista? Hai fatto riferimento alle figure di certe sfortunate eroine letterarie, o è un personaggio di tua invenzione?

Lena Di Nardo, almeno in modo cosciente, per me non ha antecedenti letterari. Lena sorge dalla vita, quella vita che è fatta di incontri inattesi, capaci di far deviare la traiettoria della tua esistenza verso un altrove ignoto. Al limite di farla deragliare. Lena Di Nardo è realtà dei nostri anni, dei nostri giorni. Io l’ho reinventata, ma la vita mi ha fornito una materia prima che non conoscevo. Anche lì vale la confessione implicita nel titolo: Non c’ero mai stato.

Non c’ero mai stato racconta di memorie occultate e di dolorose rimozioni. È una storia di fantasmi che riescono a trovare una parvenza di pace grazie al rapporto complesso e immersivo che si viene a creare tra Ernesto e Lena. Lui è stato per tutta la vita un “manipolatore” di fantasmi, ma solo di quelli degli altri. Editor di professione, ha probabilmente vissuto più intensamente le vite altrui che non la propria. Nel corso del romanzo avviene il suo risveglio attraverso la riappropriazione di sé per mezzo della scrittura; egli fa finalmente emergere ciò che lo sta consumando: “stavo mettendo nero su bianco il mio arruolamento nel mondo”. Dopo una vita da spettatore delle storie altrui egli decide di scrivere la propria storia, di prendersi la responsabilità delle sue azioni e della sua esistenza. È questo il messaggio che hai voluto veicolare attraverso il racconto dell’evoluzione interiore di Ernesto?

Credo che ognuno di noi sia la narrazione che fa di se stesso. Scrivendo un diario della sua vicenda con Lena, che prenderà poi la forma di un romanzo, Ernesto decide di raccontarsi, finalmente. Raccontare significa creare o trovare un ordine. Creare o trovare un senso nella nostra storia, in ciò che siamo stati, siamo e saremo. Quello di Ernesto è anche un atto di fede nel potere della parola che racconta. Anche sotto questo riguardo Ernest Aloja c’est moi.

Dal tuo romanzo emerge una forte passione per la letteratura, non solo per la cura con la quale si racconta della figura dell’editor, ma anche per come vengono descritte le fasi del lavoro di editing. Si mostra nella vicenda di Ernesto e Lena tutta la potenza della letteratura, che è intimamente connessa alla vita. Cosa significa per te scrivere e raccontare storie?

Significa dare un senso, creare un ordine, instaurare un cosmos laddove era caos. Scrivere e raccontare significa dare forma all’informe e senso all’insensato. Perciò non scrivo per vivere, ma vivo per scrivere. Io credo fermamente nel paradosso di Mallarmé: il mondo esiste per finire in un bel libro. La vita esiste per prendere senso – e dunque esistere compiutamente – in un racconto (non un racconto purchessia: Mallarmé dice “bello”).

Di cosa tratta il tuo dittico storico composto dai romanzi Vicaria e Il giardino degli inglesi, rispettivamente pubblicati da Rizzoli e da Neri Pozza?

Della Napoli del primo Ottocento, dei suoi luoghi simbolo, di alcuni personaggi che mi ossessionavano. Della verità che non emergerà mai nei processi; della ingiustizia che regna nel mondo; di quanto bene e male, ombra e luce siano pericolosamente vicini. Rispondendo a questa domanda mi rendo conto che uno scrittore riscrive, per un’intera vita, più o meno la medesima storia. E questa storia ha la fisionomia del suo volto, quasi un autoritratto.

Antonella Quaglia

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