Intervista a Roberto Cecchetti, autore del saggio “Il ritmo del desiderio. Da Jung alle pratiche filosofiche”

Nel volume l’autore fiesolano analizza e approfondisce i concetti di libertà, desiderio e libido nel pensiero di Carl Gustav Jung, e la teoria dello sviluppo della coscienza individuale strettamente intrecciata all’inconscio collettivo di Erich Neumann

Roberto Cecchetti è un analista filosofo e docente di filosofia. Ha frequentato la Scuola Philo di Milano, nella convinzione che la filosofia debba tornare a essere una pratica di vita e uno strumento di cura. Collabora con diverse riviste tra le quali: “Giornale Critico di Storia delle Idee”, “Antàres. Prospettive antimoderne”, “Intellettuale Dissidente” e “Axis Mundi”. Pubblica la sua autobiografia “La metrica dell’apparenza” (Attucci Editore, 2017) e il saggio “Il ritmo del desiderio. Da Jung alle pratiche filosofiche” (Mimesis Edizioni, 2019)

Di cosa tratta il suo saggio “Il ritmo del desiderio. Da Jung alle pratiche filosofiche”?

La figura che può riassumere il senso di questo mio lavoro potrebbe essere quella del dio Prajapati, il dio primordiale della creazione. Prajapati crea senza sapere chi sia, egli è il creatore di ogni cosa ma non sa di averla posta in essere, di averla resa manifesta. Egli avrà bisogno di suo figlio Indra, cioè del rapporto con l’altro, per iniziare a comprendere se stesso. Prajapati, come ricorda Roberto Calasso ne L’ardore, è anche il custode dell’insondabilità ultima delle cose. Per questo in fin dei conti egli si erge quale garante della possibilità stessa del domandare. Il mio scritto parte da un presupposto molto simile, ovvero dal fatto che siccome la nostra esistenza è quasi interamente inconscia, anche noi come Prajapati creiamo inconsapevolmente la nostra realtà. Il punto centrale allora è, per uscire dalla rappresentazione del mito, qualcosa che da sempre rappresenta la massima aspirazione dell’uomo: come posso diventare il creatore della mia realtà in modo consapevole? Come posso essere il padrone del mio destino? Già perché il destino, seguendo le indicazioni della psicologia del profondo, risulta già da sempre iscritto nell’inconscio. E che cos’è l’inconscio? L’inconscio è dinamico, cioè è energia, ed insieme è anche desiderio, ma appunto è desiderio inconscio… Possiamo padroneggiare il nostro desiderio inconscio? Ecco la domanda alla quale tento di dare una risposta, attraverso la lettura di Jung, di Nuemann e degli autori della tradizione.

Quali sono i motivi che l’hanno spinta a scrivere la sua opera?

Il motivo principale è che un filosofo, se è tale, ha una sua personale visione delle cose e questo spesso implica la necessità di comunicarla agli altri.
Quando studiavo l’Opera di Jung, la studiavo da un ponto di vista filosofico, ma anche dal punto di vista dell’appassionato di storia delle religioni, di metafisica, di esoterismo, di tradizione. Ad un certo punto mi accorsi che il tema di fondo della ricerca junghiana verteva su alcune domande ultime e che in modo originale e molto spesso implicito, l’autore riusciva a dare ragione di certi interrogativi molto interessanti. Credo che Jung avesse compreso il segreto della magia, ad esempio. Credo anche che avesse compreso il senso dell’alchimia. Queste spiegazioni e rivelazioni che Jung ci offre si sposano con alcune teorie che nei primi anni del Novecento rappresentavano la continuazione più radicale dell’idealismo tedesco. Il lavoro che il soggetto deve compiere, emancipandosi dall’inconscio collettivo seguendo l’esempio del mito, è un esercizio di individuazione in cui il soggetto cosciente ritorna sul proprio inconscio al fine di renderlo esplicito. Viene subito alla mente l’opera di superamento dialettico di sé da parte dell’Io che per un certo idealismo deve avanzare verso l’Io assoluto, ed è l’io assoluto che per Fichte ha posto ciò che è, un pò come abbiamo visto accadere nel mito di Prajapati.
Credo che fra le altre cose imparare a ritirare le nostre proiezioni, imparare a vedere noi stessi come artefici della creazione della realtà sia qualcosa di fortemente etico e nient’affatto egoistico. Si tratta anche di un metodo per riuscire ad accogliere l’ombra, a vederla ed accettarla, a fare i conti con il negativo. Come si capisce c’è in gioco qualcosa di molto importante.

Che cosa significa essere un analista filosofo?

Significa rivolgersi a individui cosiddetti sani, perché quasi sempre anche gli individui “normali” non sono in cammino verso se stessi, non hanno seguito il proprio demone, e non hanno sviluppato un senso critico. Per me l’analisi filosofica è qualcosa che mira al superamento di una condizione di normale e quotidiana insensatezza. Basta uscire fuori e vedere le nostre strade piene di ragazzini e di gente anche adulta che beve, che trova soddisfazione solo in un’evasione effimera ed illusoria come quella che offrono le sostanze. Penso che quando si trova il demone, quando finalmente ci si affaccia in una dimensione dei senso, tutte le nostre risorse ancora implicite vengono alla luce, è come rinascere, ed allora si comincia a comprendere il nostro funzionamento, la meraviglia della trasformazione, ed allora tutte le cose che prima erano mere illusioni e distrazioni scompaiono. Chiaramente questo percorso va fatto in senso filosofico, ovvero interrogandosi in un dialogo che tenga conto delle specificità di ciascuno ma anche del contesto. Per quanto mi riguarda ho deciso anche di diventare psicoterapeuta ed ho toccato con mano l’importanza di uno studio in tal senso, assolutamente necessario se intendiamo rivolgerci alla cura delle psicopatologie.

Come può la pratica filosofica essere di aiuto all’uomo contemporaneo?

Dopo aver accennato all’analisi filosofica, posso dire che la pratica filosofica è molto interessante anche come pratica che avviene in gruppo. Tengo serate di pratiche filosofiche nella mia città, a Prato, dopo essermi formato per anni alla Scuola Philo di Milano e devo dire che l’esperienza più interessante è quella di rendere vissuta e concreta la teoria. Ogni volta che il gruppo si riunisce introduco un tema diverso e poi ci esercitiamo attraverso il dialogo, la scrittura, il confronto con un testo, con la messa in scena che sfrutta tecniche riprese dal teatro… Molto spesso, in breve tempo, emergono cose sorprendenti e le persone sono molto contente; è come se finalmente avessero trovato il modo per sperimentare il nuovo, per uscire dalla consuetudine.

Quali sono i suoi autori di riferimento?

I miei autori sono senz’altro quelli che poi si ritrovano nel testo: Elémire Zolla, Mircea Eliade, Cristina Campo, Simone Weil, Emanuele Severino, Roberto Calasso, Massimo Donà, Martin Heidegger, ovviamente Jung, Evola, Neumann… ma anche Borges, Gadda, Cacciari. La lista potrebbe continuare. Come si vede alcuni sono filosofi, altri psicologi o psichiatri, altri invece sono scrittori. Devo molto al grande Elémire Zolla, la sua conoscenza è sterminata, assolutamente sconvolgente. L’incontro con la prosa di Gadda fu altrettanto esaltante, era come ritrovarsi finalmente di fronte allo spettacolo più singolare e veramente artistico che si possa concepire, in cui l’ironia si sposa con la tragicità, il dialetto con la filosofia e l’introspezione con la boutade. Alto e basso in Gadda si congiungono.

Nel 2017 ha pubblicato l’autobiografia La metrica dell’apparenza. Vuole parlarcene?

Si tratta di un lavoro a cui sono molto legato e che per me significa ancora molto. Non solo perché è il mio primo lavoro di narrativa ma anche perché se è vero che lo scrittore non fa altro che riscrivere in modi diversi lo stesso libro, io credo che mi ritroverò a fare i conti con quel libro lì. Mi capita di rileggerlo a distanza di tempo e mi pare ancora significativo, questo significa che è ben riuscito. Devo molto all’editore, Attucci, che volle credere in questo testo scritto in modo complesso, sicuramente non convenzionale, a tratti gaddiano, a tratti filosofico. La più grande soddisfazione fu presentarlo al Circolo Filologico milanese insieme a Romano Màdera e a Luca Siniscalco per Bookcity 2019. Un editore locale che viene premiato per la qualità del volume è una cosa rara, un bel riconoscimento. Dimenticavo: si tratta della mia autobiografia. Non si può essere analisti filosofi senza aver scritto una autobiografia…

È già a lavoro su un nuovo saggio o ha in mente di scriverlo? Quali argomenti vorrebbe trattare?

Da poco è uscito un interessante volume collettando per Gog edizioni, dal titolo Oltre il reale. Siamo cinque attori che scrivono su cinque scrittori del fantastico, io mi sono occupato di Gustav Meyrink al quale fra l’altro si ispirò lo stesso Jung.
Ho alcuni progetti legati soprattutto alla cura. Vorrei dedicarmi in futuro ad un tema che da sempre mi affascina e che trovo decisivo: il rapporto fra legge e psiche.
Ma ancora è presto per i dettagli.

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