Intervista a Gianni Morelli: autore del romanzo “Un Campari a Veracruz”

Le atmosfere dell'America Latina in un racconto intriso di realismo magico

Gianni Maurizio Morelli, scrittore e geografo, ha viaggiato e vissuto in molti Paesi, soprattutto in America Latina; è stato co-ideatore delle guide di viaggio ClupGuide e ha collaborato e scritto per importanti realtà editoriali quali Istituto Geografico De Agostini, Mondadori, Giunti e National Geographic. “Un Campari a Veracruz” (Morellini Editore, 2023) è il terzo romanzo di una trilogia latinoamericana che comprende “Amori, altopiani e macchine parlanti” (Garzanti, 2009) e “Rosso Avana” (ADV Publishing House, Lugano, 2017), entrambi tradotti in spagnolo

  • Ci presenta il suo romanzo ambientato in Messico “Un Campari a Veracruz”?

“Un Campari a Veracruz” è un romanzo di sguardi, entusiasmi e illusioni. Una lunga rincorsa attraverso le chiacchiere di un bar pieno di storie, birre, Campari, scetticismo e partecipazione. Alla ricerca di una regina senza nome e della sua limousine bianca che appare e scompare tra le ombre della Sierra, fino al Messico meridionale dove la ricerca si toglie la maschera. La storia si racconta come il filo di un sarto che cuce uno sull’altro le luci della notte nel porto di Veracruz, il bancone di un bar chiamato Mocambo e i fiori multicolori ricamati sugli abiti delle donne di Juchitán. Riuscirà quel filo sottile a tenere insieme tutto questo o si spezzerà prima di trovare la regina che vorrebbe vestire di Luna?

  • Lei ha viaggiato molto nel corso della sua vita, soprattutto in America Latina e negli Stati Uniti; mi chiedo se il protagonista dell’opera Yani (Gianni appunto) sia stato caratterizzato partendo proprio dalla sua esperienza personale, e se sia quindi presente una componente autobiografica nel suo romanzo. Se fosse vero, da chi o cosa ha tratto ispirazione per delineare la figura della Regina Azteca, questa misteriosa donna che compare al protagonista quasi come un sogno, per poi svanire con la sua limousine bianca nelle terre della Sierra messicana?

La risposta è sì, Yani è Gianni, naturalmente trasformato nel protagonista di una commedia letteraria e adattato a una storia “inventata”, come quasi tutte le storie che si rispettino. Quanto alla Regina Azteca, essendo il volto di un sogno, nasce da qualcosa che ha a che fare con la fantasia, l’intuizione, l’emozione. Nell’insieme e soprattutto nei dettagli.

  • Uno dei punti di forza dell’opera è la presenza di un nutrito gruppo di personaggi di contorno, tutti ben delineati e con una propria voce. In particolare, si sofferma sulla descrizione degli avventori del bar Mocambo, che costituiscono un bizzarro campionario di tipologie umane. Qual è, tra loro, il personaggio che più ha amato caratterizzare, e perché?

I personaggi di contorno sono i comprimari e le comparse di un palcoscenico simile a quello delle opere liriche, immancabili ed essenziali. Molti di loro sono miei amici messicani o cubani, o meglio li ricordano. Proprio i due cubani vorrei ricordare, Bebo e Miguelon, perché erano amici carissimi e non ci sono più nella vita reale. E sono felice di averli portato con me al Mocambo perché mi mancano molto.

  • Dal suo romanzo: “Il Mocambo era diventato famoso soprattutto per il Campari. Il suo Campari terapeutico, fortemente consigliato dal barman, che si beveva per il mal di stomaco. E specialmente per la cruda, come già sappiamo, la mattina dopo una sera da dieci birre. Prima di andare a lavorare, un bicchiere di Campari, con poco ghiaccio, ti faceva sentire un altro. A detta di molti pazienti. In altre occasioni, al Mocambo, il Campari si beveva semplicemente per le storie”; in questa surreale osteria può accadere di tutto, anche di imbattersi in un uomo ossessionato dall’infatuazione per una donna con cui non ha mai neanche parlato, e di cui non sa neppure il nome. Un bar di scambi e di incroci, e soprattutto un posto dove si raccontano storie. So che il Mocambo esiste davvero; vorrebbe raccontarci un aneddoto relativo a questo affascinante luogo?

La storia del Campari al Mocambo è vera e io l’ho incontrata personalmente anche se, per essere sinceri, non ho mai provato a bere un bicchiere pieno di quello splendido liquido rosso, la mattina intendo. Il Mocambo è esistito fino a circa un anno fa quando è stato chiuso. Il locale era completamente cambiato. Diventato un luogo di spaccio, di furti, di violenza da strada. Qualche mese fa di lui restavano solo una saracinesca arrugginita e qualche scritta evocativa intorno.

  • La sua opera entra di diritto nel filone letterario del realismo magico, e non è un caso, infatti, che sia ambientata in America Latina, patria di questo modo di raccontare in cui si propone una visione realistica del mondo, aggiungendo anche degli elementi magici. Quali sono gli autori e le opere appartenenti a questo stile letterario che più l’hanno influenzata?

Borges, Paco Ignacio Taibo I e II, Calvino e, ca va sans dire, il grande García Márquez.

  • Cosa significa per lei scrivere e raccontare storie?

Per uno scrittore, o almeno per me, è una domanda semplice e complicata allo stesso tempo. Quando cominci a scrivere storie non puoi più smettere, almeno a me è accaduto questo. I scrivo racconti (per me) già alle scuole superiori mentre studiavo chimica. E all’università mentre studiavo matematica e poi geografia. Scrivo racconti e romanzi da vent’anni o forse più. C’è una sola cosa che potrebbe forse spingermi a trascurare la scrittura, ed è la musica. Vorrei essere un buon pianista jazz. Ma sarà per la prossima vita.

  • “Un Campari a Veracruz” è il terzo romanzo di una trilogia latinoamericana che comprende “Amori, altopiani e macchine parlanti” e “Rosso Avana”. Vuole farci una breve panoramica delle prime due opere? È importante leggere i tre libri in ordine di uscita, o possono essere approcciati anche indipendentemente l’uno dall’altro?

“Amori, altopiani e macchine parlanti” è una vicenda che si svolge nei primi anni del secolo scorso, lungo un percorso che attraversa buona parte dell’America Meridionale, da Buenos Aires fino a Cuzco in Perù lungo la catena andina argentina e boliviana. Protagonista è un giovane italiano appassionato di opera lirica che porta su una carovana di muli porta i grammofoni a tromba appena nati e i dischi di Caruso appena incisi al Grand Hotel et de Milan e li vende ai nobili e ai ricchi borghesi delle città della regione, tra spettacoli, storie d’amore e incontri inaspettati.
“Rosso Avana” è la storia di due storie habanere sul finire del 1958: un finto Principe di Costantinopoli che vende titoli nobiliari ai texani, arricchiti dalla scoperta del petrolio, in visita Cuba per il gioco e la prostituzione, e una cameriera dell’Habana Hilton che, accusata dell’omicidio di un uomo del regime, è costretta a fuggire trasformandosi in diversi personaggi. Alla fine le due storie incrociano, come da copione.
Come si capisce, la mia è una trilogia i cui legami interni stanno nella geografia e nella cultura ma non hanno niente in comune dal punto di vista della trama. Sono tre romanzi indipendenti da tutti i punti di vista e si possono leggere in qualsiasi ordine. O se ne può leggere uno solo e poi si vedrà. Oppure si possono non leggere, certo, ma questo sarebbe un errore anche perché non sono i libri di genere che ormai occupano tutti gli scaffali delle librerie, pieni di delitti, di commissari, di violenza, o di sdolcinatezze.

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