In un caffè

di Giuseppe Cetorelli

Era un pomeriggio freddo e Trieste si vestiva di grigio, le strade erano battute da un vento impetuoso, indomabile, la bora spirava da diversi giorni e le piazze, al mattino deserte, desolate come quelle immaginate da De Chirico, nel meriggio si riempivano di impiegati dal passo frettoloso, era un istante, un fulmine a ciel sereno ma intensissimo. In quella plumbea città la vita sociale si poteva scorgere dietro le vetrine dei negozi, e io mi divertivo a veder riflessa la mia immagine e dietro la mia quella dei passanti, ignari di essere scrutati. La sensazione che si provava nell’insinuare lo sguardo all’ interno degli eleganti caffè triestini era di convivialità, calore, intimità, luoghi dove si davano appuntamento intellettuali, poeti, letterati d’ogni sorta, presi nelle loro disquisizioni, dall’ultima raccolta pubblicata, dalle evoluzioni dello strutturalismo alle figure retoriche, il tutto ritmato dal brusio educato degli avventori che per osmosi misuravano i gesti, le parole, il tono era quasi prelatizio. Entrare in un caffè triestino era come varcare la soglia di un tempio laico. Dopo più di mezzo secolo due signori, l’uno distinto l’altro dall’aria negletta, si ritrovarono, senza saperlo, in uno di quei fascinosi ambienti, sulle prime non si riconobbero, erano stati compagni di classe alle scuole elementari e medie, non particolarmente amici ma compagni di studio e marachelle, si guardavano alternando lo sguardo per evitare incroci imbarazzanti, ogni segno poteva essere rivelatore. L’uomo compito si chiamava Claudio e se ne stava appoggiato al suo bastone finemente intagliato, sotto la giacca emergeva il lucore dei gemelli, la sua educazione parigina era magnifica, l’ostentata eleganza decadente avrebbe fatto perdere la testa ad Oscar Wilde. Dall’altro lato Egidio pareva sul punto di stramazzare con la testa sul tavolo che lo sosteneva, aveva alzato un po il gomito, la situazione non era sfuggita al proprietario che sedeva due tavoli dietro ma non se la sentiva di avvicinarsi, anche perché non c’era nessun motivo, si trattava solo di un cliente assonnato e tutto sommato ancora padrone di sé. Claudio ebbe modo di osservarlo meglio, le movenze seppure adulterate dall’alcol gli sembravano familiari, quel suo modo di stringere le palpebre come se una lama lo trafiggesse lo fece tornare indietro di dieci lustri, e improvvisamente quell’uomo accasciato, sonnolento tornò ad essere l’amico di un tempo, il compagno di giochi, quello con il quale si divertiva a catapultare pezzi di carta dall’ultimo al primo banco, a schernire le ragazze per le loro maldestre azioni, i primi libri, gli approcci amorosi ancora acerbi, i ritrovi abituali distrutti dalla guerra. Prese coraggio si staccò dal bancone e claudicante gli si sedette di fronte, Egidio appariva come assente ma d’un tratto senza preamboli disse:

-Come stai?! ..Claudio ecco il tuo nome, ti avevo riconosciuto subito sai, sono un fisionomista io, nonostante i cinquant’anni trascorsi ti trovo bene, dopo la licenza media sei scomparso e nessuno ti ha più visto qui a Trieste.

Come hai trascorso questo mezzo secolo?

-Non sarei dovuto mai tornare a Trieste, disse Claudio, ormai avevo quasi dimenticato il suo mesto grigiore, era divenuto un luogo lontano dalla mia realtà, teatro della mia infanzia e lieta giovinezza, bello per gli abbracci di mia madre, ma tragico per la prematura morte di mio padre, non so se ricordi il droghiere vicino al museo civico Revoltella…

-Sì ricordo perfettamente, è proprio con tuo padre che imparai a contare i soldi e ad evitare fregature.

-Vedi, dopo la sua morte avvenuta poco prima degli esami di licenza media la mia famiglia ha subito un tracollo psicologico, le ristrettezze economiche nelle quali ci ritrovammo ci costrinsero a consumare un pasto al giorno, ad abitare in una decadente palazzina, dove gatti, topi e persone convivevano, l’odore acre dell’orina era costante e insopportabile. Le condizioni della mia famiglia erano pessime già prima della guerra, la quale come una livella appianò le differenze.

Decisi di partire volontario, facendomi addirittura raccomandare la domanda, fu accolta e mi inviarono di stanza in Africa col grado di sottotenente. Alle traversie, alle crudeltà della guerra, al sangue versato, faceva da contraltare la sensazione di essere un personaggio di Kipling, sempre a cavallo, madido per via delle temperature, le allegre compagnie delle giovani donne autoctone. Poi la guerra finì, tornato in patria mi diplomai alle scuole magistrali e feci il maestro elementare; talvolta il pensiero di ritrovare i luoghi dell’infanzia e della prima giovinezza si faceva pressante, i lutti familiari però si susseguirono senza posa, mia madre con il suo dolce sorriso venne a mancare qualche anno dopo il mio ritorno, un fratello disperso nella gelata steppa russa, un altro morto da partigiano nelle carceri fasciste, come il grande letterato Leone Ginzburg a Regina Coeli; tutto questo procrastinò il mio ritorno qui a Trieste e ora che sono anziano mi ritrovo in un caffè a raccontare la mia vita ad un vecchio amico.

Egidio ascoltò in religioso silenzio, ancora annebbiato dal vino ma presente a se stesso:

-Sono felice che tu sia qui davanti a me, a differenza della tua la mia vita non ha oltrepassato la provincia di Trieste, la guerra l’ho vissuta nella casa paterna, ho assistito ai bombardamenti e alla distruzione della mia città, ancora sento le grida dei tedeschi durante i rastrellamenti mescolarsi ai passi frettolosi della gente in fuga, le sirene, il rombo dei ricognitori disturbano ancora i miei sonni e poi gli scherani di Tito, che deportarono intere famiglie della Venezia Giulia, perseguendo l’obiettivo della pulizia etnica. Anche io ripresi gli studi mi laureai in lettere classiche cominciando ad insegnare con grande entusiasmo. Mi sposai con Marta una impiegata di banca, destinata qui nel dopoguerra, che creatura magnifica, credevo fosse venuta da cielo in terra a “miracol mostrare” e si fosse presentata a me per caso, fu una storia d’amore travolgente, come capita di rado nella vita, passione, stima, rispetto, ammirazione, progettualità, tutti questi elementi mi parve scorgere in lei e nella nostra unione.

Morì dando alla luce nostro figlio a tre anni dal matrimonio, aveva solo ventotto anni.

Mai avrei creduto di conoscere l’inferno in vita, ebbene la morte di mia moglie mi gettò in uno stato di perenne turbamento che ancora mi accompagna come un sottofondo tragico. Non potevo cedere c’era Francesco da crescere, educare, al quale il compito più difficile fu quello di far conoscere sua madre attraverso i miei ricordi, le foto, gli oggetti, le cose che amava. La tentazione più forte era quella di deformare, con la lente del ricordo, la sua immagine restituendola in maniera distorta; senza presunzione credo di aver fatto un buon lavoro con mio figlio, poiché di sua madre ha imparato a conoscere tutto: pregi, difetti, fisime, esaltazioni; come un biografo cercai di ricostruire il suo passato e quel breve ma intenso tratto di strada percorso insieme.

Ora che ha una famiglia propria si è trasferito in Svizzera, ed io sono tornato a parlare con la mia solitudine, per questo non potrò mai ringraziarti abbastanza di aver rotto, seppure per pochi istanti l’ombra della mia depressione.

Intanto Claudio ascoltando, con l’orecchio teso, lo scampanellio dell’uscio ad ogni entrata e uscita si ritrovò improvvisamente nella drogheria di suo padre, la memoria involontaria resuscitò un luogo scomparso da tempo, anche lui applicò i campanelli alla porta, in maniera tale da essere sempre avvisato e pronto ad accogliere i clienti; il volto di suo padre lo attraversò come una folgore e, una silenziosa lacrima rigò la sua guancia; Egidio si accorse che qualcosa turbava la sensibilità del suo interlocutore e lo rispettò con un silenzio pieno di compartecipazione.

Si alzarono insieme dal tavolo, sempre in silenzio uscirono dall’elegante caffè, uno teneva la porta, l’altro, urtando il bastone intarsiato contro la maniglia ne usciva, Egidio appariva stranamente lucido, non aveva più quell’andatura sbilenca tipica degli avvinazzati; ritti uno di fronte all’altro si salutarono affettuosamente, Claudio appariva ancora scosso da quel ricordo e strinse come una morsa Egidio, uno di quegli abbracci che aveva visto fare solo durante l’occupazione, da madri e mogli disperate consapevoli che sarebbe stato l’ultimo.

Il vento non accennava a placarsi, si scambiarono ancora poche frasi, Egidio non riuscì a capire quasi nulla, il rumore prodotto dalla bora lo impediva, i mulinelli trascinavano foglie, carte spiegazzate, polvere, mentre Claudio si allontanava salutandolo con ampi gesti e gridandogli il civico dove poteva trovarlo, Via Italo Svevo numero dodici, numero dodici! Ripeté scandendo le parole, finalmente Egidio riuscì ad udire.

L’ indomani si recò a quel civico poiché ebbe la sensazione di una conversazione incompiuta, suonò, la risposta tardava, provò ancora, finalmente una mano venne fuori dalla finestra invitandolo ad entrare; Claudio abitava in un appartamento molto grande che appariva rimpicciolito per la gran quantità di cose e oggetti accumulati, le magioni raccontano molto della persona che vi abita, ogni oggetto se lo si osserva con attenzione ci suggerisce un elemento della sua personalità, i quadri appesi alle pareti, la presenza dei libri, i dischi in vinile, l’odore che vi si trova tutto contribuisce a delineare i contorni del proprietario. Una voce invitò Egidio ad accomodarsi, era quella di Claudio quasi irriconoscibile rispetto al pomeriggio precedente, è incredibile, pensò Egidio, comeanche l’esatta percezione di una voce possa perdersi nei luoghi di ritrovo, sovrapponendosi alle altre; Claudio arrivò lentamente appariva invecchiato di una decina d’anni a poche ore di distanza, portava due tazze di tè, si potevano vedere le goccioline che correvano lungo la porcellana fermandosi sulle increspature ben disegnate, le appoggiò sul tavolo senza vassoio scusandosi per lo sgangherato servizio; il possente tavolo di noce era continuamente investito da una luce ferma che filtrava dalla finestra, sotto la quale il pulviscolo danzava senza sosta, gli occhi di una splendida giornata venivano esaltati in quell’ appartamento di via Italo Svevo.

-Sono venuto a trovarti per continuare la nostra chiacchierata, spero di non averti disturbato, disse Egidio entusiasta.

-Ma no, è un piacere parlare con te, con un uomo intelligente anche due chiacchere sono interessanti e condividere con un amico i propri ricordi mescolandoli con i suoi, edificando il mosaico delle rispettive esistenze è come vivere di nuovo, ad una età come la nostra dove il futuro non ci appartiene più, e si vive il presente con lo sguardo rivolto al passato, la condivisione è imprescindibile per innamorarsi ancora della vita. (condividere per innamorarsi ancora).

-Innamorarsi ancora una volta Claudio, della vita, di una donna, di un’arte, forse hai ragione, il segreto per apprezzare l’ultima fase dell’ esistenza, quando il corpo non risponde più, costretti a trascinarlo penosamente, quando gli affetti vengono a mancare così come gli amici e il trascorrere del tempo ci costringe in una nicchia, è proprio questo, in fondo quello che siamo vive e si identifica nel passato.

Il presente si estingue rapidamente, il futuro non è più affar nostro impossibile da vaticinare, dunque il passato ci determina, è un bagaglio che portiamo sempre con noi e tramite il ricordo lo rendiamo agli altri. L’enorme potere della memoria ci sorprende con la sua forza, ci rende simili agli dei che tutto potevano, cavalcare il tempo, servirsene a piacimento, fermarlo all’occorrenza, rivivere i momenti felici assieme a quelli negativi che parimenti ci compongono.

-Come Proust ! Caro Egidio, esclamò Claudio, che visse solo cinquant’anni ma è come se avesse vissuto quattro vite in fila, la più grande esperienza che un uomo possa fare è quella di ripercorre l’intera esistenza, raccontando ogni passo compiuto, rievocando i volti, i luoghi, le sensazioni che ogni stilla di vita ha suscitato in noi, ed è in questo che consiste il suo capolavoro, Alla ricerca del tempo perduto, che lessi quando avevo circa trenta anni e che ha trasformato completamente la mia visione del mondo.

Mentre parlavano una melodia li raggiunse, struggente e dolcissima, proveniva dall’abitazione di fronte, cercavano entrambi di insinuare lo sguardo ma riuscirono a vedere soltanto il grammofono che la emetteva, si trattava del solo di Cavaradossi, l’amante di Tosca nel terzo atto, ascoltarono in silenzio, rapiti da quella splendida romanza di Puccini, attesero prima di riprendere la conversazione.

-Questo è uno dei motivi per i quali ho deciso di trascorrere i miei ultimi giorni qui a Trieste e proprio in questa casa, sono malato da tempo ormai, il medico dice che il mio cuore non riuscirà a resistere ancora per molto; la vicinanza di un musicista è tra le cose più belle che possano capitare ad un anziano con un piede nella fossa, per osmosi anche io respiro l’enorme quantità di vita che la musica porta con se, e i gioielli che custodisce, come in uno scrigno. Vedi Egidio non so se lo stesso vale per te, ma il tempo passando mi ha, come dire, calpestato coi suoi maledetti piedi di bronzo, ha lentamente consumato la mia carcassa, si aprono falle ovunque e come uno scafo reduce da mille battaglie aspetto il naufragio, consapevole che a spegnersi sarà soltanto il corpo e che noi continueremo a vivere nelle cose che lasceremo, e soprattutto nel ricordo delle persone care. E’ una specie di miracolo, nel momento in cui rievochiamo un volto scomparso da tempo, è come se tornasse in vita e lo sentissimo non vicino a noi, ma dentro di noi, come se lo accarezzassimo con i palmi della nostra anima, è quello che accade quando penso ai miei genitori.

-Sì il tempo è un’orribile tiranno porta via ogni cosa, indebolisce i corpi, ingiallisce i libri, abbatte muri e case, ma nulla può contro l’amore che fa risorgere le persone amate, ricostruisce ogni cosa, priva il tempo delle sue armi. Io credo, Claudio, che il mondo sia uno specchio del nostro volto e che attraversandolo, lasciamo pezzi di noi stessi in luoghi e paesaggi, ma anche nel cuore e negli occhi di alcune persone, come brandelli di un vestito strappato da arbusti spinosi durante una corsa in fuga.

-E’ passato più di mezzo secolo ed è un’altra vita, tutto passa, cambia volto, le persone ora ci sono ora non ci sono più.

Mentre Claudio pronunciava quella frase un tramonto bellissimo colorava di rosso la sala dove avevano finito di bere il tè, si resero conto di aver conversato per ore senza accorgersene, di aver denudato non solo la propria anima, ma di aver messo in comunicazione due esistenze che si sono sviluppate altrove, ritrovandosi poi dopo decenni di lontananza a condividere gli elementi di una spiccata sensibilità. L’uno ha permesso all’altro di osservare gli angoli che per tutta la vita hanno tenuto gelosamente al riparo da sguardi indiscreti.

Si salutarono, questa volta non c’era la bora a disturbare le loro effusioni, Trieste appariva stranamente colorata, priva di quel grigiore abituale, accompagnò Egidio il quale sentiva di essere ringiovanito dopo quell’incontro.

Passarono due settimane e di Claudio nessuno ebbe più notizia, Egidio preoccupato gli telefonò ma nessuno rispose, decise allora di verificare se fosse ancora presente a Trieste, si recò al numero dodici di via Italo Svevo, bussò ma nessuno rispose ,stava per bussare ancora una volta quando si accorse che bastava piegare la maniglia per entrare, lo fece salì le scale di slancio, gradino dopo gradino l’odore di aria viziata lo avvolse come una coperta, l’appartamento non splendeva più come l’ultima volta, sembrava che nessuno avesse badato più alla casa dall’ ultimo incontro, polvere dappertutto, piatti con rimasugli di cibo, in sole due settimane l’ ambiente si presentava completamente diverso, nella sala teatro della loro conversazione le tazze, dove sorseggiarono il tè, erano ancora sul tavolo, come se il tempo si fosse fermato e le due settimane non fossero passate, percorrendo il corridoio che portava alle camere, un funesto presagio fece rallentare il passo ad Egidio, il passo si fece lentissimo mentre i battiti del cuore aumentarono vertiginosamente, fermatosi sulla soglia della camera da letto vide un elegante poltrona, rivolta verso la grande finestra da cui si poteva ammirare la città dal punto più alto, dalla penombra emergeva la testa reclina di Claudio, che Egidio riconobbe subito dalla calvizie, sulle prime volle credere che stesse dormendo allontanando quel terribile pensiero e mentendo a se stesso; avvicinandosi avvertì l’odore graveolente della putrefazione, raggiunto il corpo ormai esanime del suo amico, rimase stupito dall’espressione serena cristallizzata in un sorriso, forse era tornato a Trieste per approdare da dove era salpato tanti anni prima e casualmente incontrò Egidio. Se ne stava seduto in poltrona, fermo ma non rigido, in una posizione elegante, il bastone intarsiato appoggiato al bracciolo sinistro, la testa leggermente inclinata a destra, la palandrana in ordine, il volto non presentava il pallore tipico di un corpo privo di vita, deve essersene andato nel sonno pensò Egidio. Dopo lo stordimento iniziale, recuperata la lucidità necessaria chiamò il medico e senza aspettarlo se ne andò, percorrendo tutta l’abitazione e fermando lo sguardo sulle cose che insieme avevano osservato, toccando la tazza dalla quale bevve l’ultimo tè, ripercorrendo le fasi dell’incontro, dal caffè in una Trieste plumbea, all’ultimo saluto in una giornata di sole, gli argomenti di cui parlarono, solo un elemento risultava assente, il grammofono non emetteva più quella dolce e disperata melodia in si minore, l’abitazione di fronte era chiusa e aveva l’aspetto d’esserlo da molto tempo, come se la musica di Giacomo Puccini avesse assistito Claudio fino alla morte e fosse sparita dopo il suo ultimo respiro.

 di Giuseppe Cetorelli

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