Quando conobbi Lia, mi ero appena rasato i capelli. Credevo che così avrei affrontato con più coraggio la vita.
Quell’anno, a dire il vero, fu molto particolare. Dall’esilio che mi ero imposto, mi ritrovai non so come e perché a stringere legami improbabili, con gente che mai prima di allora avrei creduto di poter frequentare. Erano per lo più membri di un’ “umanità di scarto”: alcolizzati, immigrati slavi, giocatori compulsivi, naufraghi, malgrado tutto, allegri, con i quali condividevo i miei pomeriggi nei giardinetti della villa comunale, bevendo il vino in cartone e Ceres spesso calde.
La realtà era, semplicemente era, senza il filtro della letteratura, come non l’avevo mai immaginata. Paradossale che tutto questo stesse avvenendo mentre ancora cercavo di farmi spazio tra le macerie del mio mondo crollato. Due anni prima, forse il battito d’ali di una farfalla, dall’altro capo della terra, aveva provocato un cataclisma tale nella mia esistenza che da un giorno all’altro mi ero ritrovato completamente solo, senza direzione, senza fiducia, senza alcun dio cui rivolgermi. Quel Dio al quale, malgrado la vita, tutto sommato avevo creduto…
Durante la deriva, io, legno dell’imbarcazione che portava il mio nome e che avrebbe dovuto scoprire nuovi continenti e rotte, mi trovai ad incrociare altri relitti, che come me venivano da ulteriori disastri. Con questi sostai per un po’, arenato sulla sabbia di isole sconosciute, prima che altre onde mi ributtassero in mare aperto.
Lia apparve in questo marasma dei giorni, una sera anomala d’estate, davanti al solito bar dove tutti obbligatoriamente si ritrovano per attraversare qualche girone della notte. Mi accorsi così che qualcun altro viveva nella nostra città, popolata di gente morta a propria insaputa.
La vita, dapprima, si palesò a me come lei stessa appariva: non particolarmente bella in volto: un naso aquilino che le cascava sulle labbra sottili, e gli occhi piccoli e grigi che non so per quale motivo mi rimandavano alla Russia di Bulgakov. Ma prima degli occhi e del viso, furono i suoi grossi, materni seni ad attirare la mia attenzione: due sfere perfette messe in evidenza dalla scollatura ampia e dal giacchetto nero che non arrivava a nasconderle; e sotto un vestitino rosso porpora che la faceva sembrare l’incarnazione della grande meretrice apocalittica, colei che cavalcherà il drago alla fine dei tempi.
Lia mi si avvicinò e disse: «Sembri un monaco medievale, con questa barba da eremita e la testa rasata». Ma non sorrise, anzi, piuttosto seria, mi chiese se credessi in Dio.
Ed io: «Credo che Dio sia sempre e solo il Dio dei morti».
Non commentò questa mia battuta; mi prese per mano, e di forza mi trascinò con lei.
Raggiungemmo una 500 bianca, parcheggiata in malo modo.
«Puoi accompagnarmi a casa?» chiese sottovoce, quasi con vergogna, porgendomi le chiavi dell’auto.
«Certo!» esclamai entusiasta, sicuro che sarebbe successo qualcosa.
Montammo in macchina. Lei mi guidava indicandomi la direzione. Arrivati davanti ad una vecchia scuola media, mi disse di imboccare la stradina a sinistra dell’edificio. Era un posto isolato, dove un panorama di palazzi di recente costruzione ci osservava disabitato. Mi ordinò di fermarmi lì.
Appena spento il motore, ci baciammo. La mia mano, impaziente, voleva subito arrivare al mistero, e così la toccai. Ebbi conferma che il mio gesto non le era dispiaciuto quando un lieve gemito mi accarezzò l’orecchio. Anche lei, impaziente, mi slacciò la cintura e, tirati via i pantaloni e i boxer, si inabissò verso il mio sesso, non prima di essersi messa in ginocchio sul sedile accanto al mio, genuflettendosi come in preghiera su di me.
Sollevato con decisione il vestitino rosso sulla schiena, eslporai con i polpastrelli ed il palmo la superficie liscia della pelle nuda, fino a trovare ristoro tra le sue natiche che si aprivano lasciando scorgere l’anfratto umido della sua vulva. I seni, intanto, pesanti si poggiavano caldi sul mio ventre. La penetrai, così, con gli occhi, con la lingua, con le mani… Avrei voluto entrare in lei per intero, farne una casa per passare l’inverno.
Quando ci sciogliemmo dalle nostre carni, il sole era prossimo a sorgere. Non ci rivestimmo subito.
Lei accese una sigaretta; tirando, il viso per poco le si illuminò di una ormai tenue luce rossa, e dopo aver cacciato fuori il fumo, ancora scomposta sul sediolino, quasi guardandomi dal vuoto muto riposto tra le sue gambe, formulò questa domanda:
«Hai mai ucciso qualcuno?».
«Ovviamente no» risposi rapidamente.
«Due anni fa, una sera d’estate, mi portarono in un posto desolato, proprio come questo… E mi violentarono. In seguito a quella violenza scoprii di essere rimasta incinta. Ero al limite, non mi restava molto tempo per decidere, e così abortii».
«Hai solo scelto di non protrarre la violenza che avevi subito… è un tuo diritto!».
«Già, questo è vero… Ma se credi che io mi senta in colpa per aver semplicemente abortito ti sbagli».
«Che vuoi dire?».
Fece un lungo tiro di sigaretta, trattenne per un po’ il fumo, poi rilasciatolo fuori dal finestrino riprese a parlare:
«Se ci pensi, l’annuncio di una gravidanza dopo uno stupro, dopo che ti hanno già uccisa, è un miracolo… né più né meno che rimanere incinta senza aver mai conosciuto un uomo».
«Non ti seguo… non credo di capire».
«È semplice: sto dicendo che da un cadavere poteva… anzi, che in un cadavere, quale io sono, si era nonostante tutto incarnata la Vita. Adesso capisci? Io ho ucciso lei, quella vita impossibile, divina, che nasce dal paradosso, quella vita che tutti aspettano persino sul letto di morte!».
«Ascoltami: sei ancora sconvolta per quanto ti è accaduto… razionalizza».
«Hai ragione, sono sconvolta… Ma questo non mi scusa del fatto che sia stata io ad uccidere il solo che poteva perdonarmi, perdonarci tutto questo male insensato che ci schiaccia e riduce a cose. Perché Lui solo, e non mio figlio, ma il Dio dei vivi che portavo in grembo poteva salvarci da questo mondo».
E dopo aver detto queste parole si gettò su di me, cercando consolazione.
Mentre lei premeva contro il mio petto, il riflesso del sole sulla finestra di un appartamento vuoto venne ad illuminarci e ad asciugarci dall’umidità della notte, e pensai alla vita che nasce dal paradosso, a quel Dio dei vivi morto che avrebbe potuto riscattarci tutti.
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di Antonio Vittorio Guarino
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la morte dentro
follia , amore , sofferenza su un velo di parole. mi piace questo nuovo autore
……….,.e le mancate risposte di dio ….
Bel racconto, complimenti a Guarino
partito da un intrigante atmosfera fino ad una melanconica uscita di scena …. scorre lasciando il segno
complimenti a Guarino , bel racconto
per trovare un riscatto con dio , c’e’ bisogno di una borsa col riscatto ( $ ) ,appunto
molto bello,potente e tragico,ma bello bello