IV Round
Da bordo ring i colpi si rivelano subito in tutta la loro violenza.
Colpi sordi, passi leggeri, veloce frusciare di braccia vigorose che attraversano l’aria.
Due giganti che si pestano, a neanche un metro di distanza. Uno spazio vuoto, riempito solo dai mulinelli di ganci e montanti.
L’ultimo posto in cui augurarsi di capitare mai.
Il mezzo metro più pericoloso della Terra.
L’avversario di Amistad è un bisonte, tutto petto e braccia, volto di roccia sputato fuori dalle viscere sudice di qualche sperduto vicolo del mondo.
Un monolite al centro del ring.
All’angolo lo assistono un vecchio allenatore paonazzo ed uno zoppo incappucciato.
La prima ripresa finisce che sembra un assolo di batteria, un accanimento in crescere sulla grancassa.
«Ha un taglio sul sopracciglio, cazzo» fa Mr. Cubo «Passami la pomata, presto…».
«Oh, cazzo!».
L’ho scordata nello spogliatoio.
Bel secondo sono.
Corro, sguscio tra le sedie e sono nello spogliatoio vuoto. Il medicinale è sul tavolo, nella solitudine delle cose senza vita.
Lo avvinghio e riparto.
E la vedo.
Di fianco all’angolo degli avversari, una borsa sportiva verde.
In pelle.
Leggermente aperta.
Piena zeppa di soldi.
.
Nella seconda ripresa Amistad è molto più volenteroso. Ed anche violento.
Violenteroso.
Saltella a destra e sinistra, avanti e indietro. È ovunque.
90 Kg. almeno di africano che muove leggero e colpisce per fare male.
Il Male d’Africa.
Lo Spettacolo Negroide.
Amistad.
Due diretti al volto e manda l’avversario alle corde. Quello incassa neanche fosse un sacco inanimato. Ma non può incassare a lungo.
Infatti passa all’attacco.
Sono di nuovo al centro.
Tira fuori un paio di uno-due che fanno sbandare il nostro # 1.
Finte di corpo e schivate veloci.
Non te l’aspetteresti tanta rapidità, da un malato di gigantismo come lui.
Amistad è nei guai.
Il pubblico si scalda.
Quello ha tecnica, e forza, e furbizia.
Poi, tra l’intrico di ganci, diretti e montanti, tra la selva fitta di sganassoni, lo riconosco.
È come scorgere il corpo di un passero tra i rami.
È lui, non c’è dubbio.
Il secondo nell’angolo avversario dico, quello zoppo.
Il cappuccio scivola giù per un attimo, e la sua testa spunta tra il tessuto fine.
È il Tizio.
Quel pezzo di stronzo.
.
«Cristo Iddio, è troppo forte».
“Vedrai Cubo, Amistad ce la farà”.
«No, no sei cieco? Quello boxa meglio, punto».
Ed è vero.
È la sua tecnica, e la sua brutalità.
Nato per creare vedove. Belva metropolitana che ha la rissa per habitat naturale.
Amistad fa il possibile, ma è dimesso come una colonia soggiogata.
La Colonia d’Africa, razziata e maltrattata.
La Giungla caduta a terra, mutilata dal macete.
L’avanzare di città corrotte che divorano il deserto.
Alla fine della ripresa si abbandona sullo sgabello che faccio appena in tempo a poggiare sul tappeto.
Ha il fiato cortissimo.
«Io getto la spugna, alle brutte» dico.
«E io ti rompo il culo» fa.
«Ok, non la getto».
Poi è il turno di Mr. Cubo: tieni basso il bacino, non essere precipitoso e prendigli il tempo, il tempo capito?
Se ti vedo ancora in difficoltà non posso non gettare, mi capisci? Usa il sinistro e muoviti, muoviti più che puoi.
«Ragazzi conosco il loro secondo».
Mi guardano.
«È un baro, un falso. Un truffatore!».
.
Succede quasi allo scadere della terza.
Il copione è lo stesso: Amistad è in balia di quella furia di avversario.
Ed è proprio per questo che stupisce tanto.
È proprio per questo che il pubblico ammutolisce di colpo.
Schivata laterale di Amistad, diretto sinistro leggero per guadagnare un po’ di spazio.
Sfiora appena appena il bestione sul volto e lo catapulta al tappeto.
Steso.
K.O.
L’unico che non ha battuto ciglio è il tizio, che ancora finge di non avermi riconosciuto.
Che stronzo.
Che merda di stronzo del cazzo.
Agguanto lo sgabello e lo lancio nella sua direzione, con tutta la forza che ho. Amistad capisce tutto, e parte giusto un secondo dopo dello sgabello verso l’angolo avversario.
Poi è una grandinata di sedie.
99.
Prendo il tizio per la maglia e lo colpisco più volte.
«Pensavi di fare il furbo eh?».
«No, no dopo ti avrei cercato…».
Colpisco.
«Ti giuro».
Colpisco.
Quello K.O. deve aver visto la Madonna, e per grazia ricevuta salta subito in piedi. Mi sento alzare di peso, poi volo verso quella che un tempo era la prima fila di spettatori.
Atterro, corro verso l’angolo e tolgo dalla borsa verde tutti i pacchi di banconote che riesco. Scambio qualche pugno tra il caos.
Poi corro.
È la mia Mossa Speciale.
Attraverso la rissa, che ormai è una selva di pugni, gomitate e calci nei coglioni.
Amistad mi segue, picchiando tutto ciò che vede muoversi.
Una volta fuori ci precipitiamo giù per la strada.
Mi accorgo di avere le ginocchia sbucciate.
Le prime sirene si odono in lontananza.
.
Al mattino il capanno è tutto sottosopra.
Mr. Cubo al centro della sala spazza mucchi di ogni cosa. La devastazione è ovunque, come in uno scenario di guerra. I cadaveri mutilati delle 99 sedie giacciono tra i monconi di gambe, braccioli e schienali spezzati.
«Avevi ragione» mi fa Mr. Cubo «quei truffatori truccavano gli incontri… che schifo, a queste categorie poi… lui è stato qui tutto il tempo, ti vuole parlare».
Mi giro e d’istinto mi metto in guardia, ma giusto perché ostruisce la porta, altrimenti sarei fuggito lontano.
È il bestione, che torreggia sopra me.
Il Povero Me.
Tende la mano e scusate, scusate dice.
Con gli incontri truccati ho chiuso, ho davvero chiuso.
Scambio la stretta e la mia mano scompare nella sua. Alzo l’unica sedia intatta e ci lascio cadere sopra un paio di mazzi di banconote.
«100» dico sorridendo al Cubo.
Poi esco con i due bestioni.
.
Seduti su una panchina in silenzio, proviamo a curarci un po’ le ferite.
Amistad strappa in due un fazzolettone imbevuto di alcool, me ne porge un pezzo ed inizia a tamponarsi con l’angolo del suo.
Io non so da dove iniziare, tra il mio incontro e la rissa sono proprio a pezzi.
Così mi butto lo straccio intero sul volto, come fosse un sudario.
Poi passo alle ginocchia.
«Ora che farai?».
«Torno a casa» risponde Amistad.
«Bé, certo. La nostalgia dell’Africa, la savana selvaggia e l’odore forte di natura incontaminata. Lo capisco, il richiamo del deserto, la potenza vitalistica di un’ esistenza selvatica, il Sole che brucia la pelle. Dev’essere dura conoscere tutto questo e perderlo nei percorsi tentacolari delle grandi città. Dev’essere dura barattare la Terra viva sotto i piedi con l’asfalto grigio e morto. Perché è questo che continuiamo a fare, camminare sulle cose morte…».
«Amico, amico» mi interrompe d’un tratto.
«Non sono africano».
Sono Austriaco.
E mi torna tutto in mente.
Höffer Franz e la sua banda. Certo.
«Sai, carissimo, credo che ti seguirò».
«Anch’io verrei, ma come si fa, senza soldi?» dice il bestione.
Sventolo le banconote sotto i nasi rotti dei due.
In tre non facciamo un naso.
«Se è per questo, non c’è problema».
Cosi parto, con i miei propositi segreti per una nuova carriera, un po’ di denaro e due uragani come accompagno.
Il Bestion Prodigo ed Amistad.
Il Negro Asburgico.
I Miei Flagelli.
di Danilo Pette
(Copertina. Bato)
spettacolo
davvero bel racconto del Pette. complimenti
uff…è finito
pure i disegni delle copertina sono bellissimi
davvero fico. complimenti al Pette
LOL