Fra gli specchi di Maya

L’incantesimo a doppia lama dell’essere l’altro in sé

. – «E se provassi a capire? Non sono tuo. Non siamo tuoi!».

Gridò una straziante voce maschile all’interno del riflesso. Ma la sbarra di ferro che Maya stringeva nel pugno era ormai troppo veloce per fermarsi; se non per riuscirci nel centro preciso dello specchio mandando in frantumi la sfumata immagine del ragazzo al suo interno. L’arma che brandiva, insieme ai numerosi specchi, era l’unico arredamento di una stanza altrimenti povera, buia, scarna e brutta. Tirò dietro di sé la porta e si assicurò che fosse chiusa provando a riaprirla dopo aver girato per due scatti la chiave all’interno della vecchia serratura. Uscì, come se nulla fosse, in strada, vestendosi di quel lungo sorriso che, come un vecchio capo consumato, la copriva, da sempre, nella vita di tutti giorni.

– «Non è giusto».

Un lampo illuminò il grigiore dei suoi pensieri e un tuono lo seguì. Al rumore della sua stessa voce:

– «Devi sopravvivere».

La sua collezione era sempre più completa: adulatori, estimatori, amanti, mentori, amici. Tutti allineati nella sua vitrea mostra personale dove rimanevano esposti e imprigionati; erano carcasse imbalsamate nella dimora di un cacciatore. E in ogni loro riflesso Maya viveva. Viveva in vetrina: preziosa e distante.

– «Non voglio; non voglio mai più trovarmi nuda in quella stanza».

Sapeva anche lei che per la prima volta un’esitazione stava sorgendo a scaldare la sua fortezza.

– «Che rimangano lì. Che rimangano lì. Che rimangano lì», continuava a ripetersi sussurrando.

Il suo castello, costruito con così tanta fatica; quella rocca che al tocco scottava alla maniera del ghiaccio, appariva mai come adesso estremamente delicata.

«Tum».

Si bloccò. Immobilizzata da uno strano terrore. Provò ad avanzare, ignorandolo.

«Tum»; «tum»; «tum»; «tum».

Bussava troppo forte per far finta di non sentire. Dei piccoli colpi scrivevano, come con una vecchia macchina da scrivere, qualcosa che non sarebbe stato possibile cancellare. Dei piccoli colpi rimbombavano in tutto il cranio rendendo impossibile capire se provenissero dal petto o dalla mente. Si fermò arresa.

– «NO». Un ordine di quelli che non si vorrebbe mai impartire e a cui mai si vorrebbe obbedire era reso ancora più amaro dal fatto che in questo caso i due ruoli coincidevano. In Maya.

Prese a correre verso casa; si gettò verso la serratura in cui inserì le chiavi: quanto le sembrò lungo il tempo necessario per ripercorrere, all’indietro, i due giri con cui ogni volta chiudeva quella dannata porta. Non si diede il tempo di richiudere; i resti della sua ultima vittima brillavano lì sul pavimento. In preda ad un disperato pianto afferrò con presa decisa gli affilati frammenti dilaniandosi le dita nel tentativo di ricomporre la figura. Ma il sangue scorreva sempre più copioso e ogni pezzo scivolava due, cinque, dieci volte prima di lasciarsi catturare; continuando, senza scrupolo alcuno, a infierire sugli squarci già aperti. Con i lunghi capelli incollati al viso dalle lacrime, a stento vide che i pochi tasselli riordinati non erano affatto stabili; tremavano. L’ occhio vuoto e pieno di terrore fu richiamato da tutti gli altri specchi che avevano cominciato a vibrare all’unisono, a sussultare corteggiando sempre più sfacciatamente il punto di rottura. Le mani imbrattate di sangue a graffiarsi il viso: urlò. A bassa e spezzata voce:

– «No. No. Vi prego, no».

Tutto esplose in frantumi. Eruppe verso l’esterno. Trafisse il suo corpo con quei brandelli taglienti più di lame.
Cadde esanime; il viso baciava il pavimento mentre una pozza di sangue cominciava a colorare il nero suolo su cui giaceva; ebbe il tempo di girare la testa; di osservare il suo viso sfregiato in un pezzo di vetro accanto a lei. Ebbe il tempo di osservarsi provare, con pallida e delicata mano da bambina, a raggiungerlo, a toccarlo per sentirlo vivo. Ma l’inarrivabile oggetto la intrappolò così; i verdi occhi sbarrati; immobile, spaventata e sorridente.

di Simone Fossella

Immagine copertina: Caterina Medici

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