Fortunato: l’assassino

Racconto breve di Giuseppe Cetorelli

“Ogni dolore può essere sopportato se lo si narra o se ne fa una storia“. (Karen Blixen). [..a mio nonno].

I

Non completò il suo folle disegno. Il suo corpo fu ritrovato a poca distanza dal luogo in cui uccise per la seconda volta. Presentava escoriazioni sulle braccia, sulle gambe e la parte occipitale del cranio era aperta. Il colpo entrò piccolo ma uscì grande, gli squarciò la testa. “Alla fine si suicidò, quel bastardo si suicidò” ripetevano i familiari delle vittime. “Sarebbe stato meglio non fosse mai nato” diceva Genoveffa, e lo ripeté sino alla fine. “La morte mi troverà morta, sono andata via assieme al mio Achille tanti anni fa” disse ad uno dei suoi nipoti, un 12 ottobre.

II

Il giorno in cui avrebbero conosciuto la morte, Achille e Maurizio Romani si alzarono presto. Alle 6,00 stavano già lavorando e la giornata era quella di un ottobre fresco, piacevole, cadenzato da un sole a tratti forte. Le giornate ancora lunghe consentivano di proiettare il pensiero in profondità, era quello che faceva ogni mattina il vecchio Achille davanti allo specchio della sua camera. Le gote solcate da rughe donavano fiera nobiltà al pastore, ogni giorno radendosi le contava una alla volta. “Amava le sue rughe” disse sua moglie 15 anni dopo, ricordando i fatti atroci di quel duplice omicidio. “Achille sognava molto e non di pecore e cani, sognava boschi rigogliosi e prati infiniti”. Genoveffa era nota in paese per la sua generosità e, talvolta, nei momenti di solitudine ripeteva quello che diceva suo marito. Era come ritrovarselo lì accanto, nell’altra stanza, ruvido e forte come sempre. La notte che precedette quella giornata infausta, Achille non sognò. Si svegliò in un bagno di sudore, il giorno avanti accusò violenti dolori al basso ventre, ma non diede peso al malessere. Si curò con i rimedi che gli insegnò suo nonno Ubaldo, scomparso 50 anni prima. Dopo la rasatura calzò, come ogni giorno, gli scarponi da pecoraio. La camicia, la giubba, il tascapane, ed infine il cappello che proteggeva la testa calva.

Quel giorno, come sua abitudine, salutò la moglie prima di aprire l’uscio di casa e si avviò verso la stalla, dalle amate bestie. Non sarebbe più rientrato, ma era ignaro del suo destino. Chissà, forse sarebbe scappato, non sarebbe uscito di casa se avesse saputo di andare incontro ai colpi di fucile che l’avrebbero smembrato. Non incontrò nessuno quella mattina, liberò il piccolo gregge e capeggiandolo si diresse verso la croce. “E’ lì che cadde come un tronco nodoso tagliato improvvisamente” ricordava Genoveffa agli amici che le domandavano di Achille.
Maurizio morì cinque ore prima. Aveva appena 38 anni e il suo volto non aveva rughe, solo qualche ferita. Achille era suo zio, fratello del padre e, come suo zio si levò alle 5,00. Fece un salto dalla madre, la quale, come sempre lo aspettava per poi salutarlo dalla porta, una volta allontanatosi. Cadde tre ore dopo essersi alzato, accanto alla sua macchina. Nessuno vide la scena, i passanti si accorsero prima del sangue e poi del corpo. Tutti ricordarono l’urlo della signora Ada alla vista del figlio morto, ricordarono il corpo affogato nel sangue. “Mai avrei creduto che un uomo potesse contenerne tanto” disse un conoscente arrivato una manciata di minuti dopo. Quella era anche una giornata di festa; le campane, però, non suonarono nel pomeriggio. Si sentirono solo le sirene delle volanti, voci concitate per tutto il paese, le strade divennero presidi militari. L’assassino, dopo aver ammazzato a colpi di fucile, scappò. Muovendosi con l’istinto di un animale selvatico.

 

Si chiamava Fortunato “lo era di nome, non di fatto” dicevano. Molti anni prima stuprò una ragazzina di 14 anni, Achille denunciò l’accaduto e lui si fece diversi anni di carcere. Era un farabutto semianalfabeta e forte bevitore. In carcere conobbe esseri che nulla avevano di umano, per sopravvivere dovette diventare più cattivo di loro e, a quanto pare, riuscì nell’intento. “Era consumato dalla rabbia” dissero gli inquirenti. Nella sua abitazione, oltre alla sporcizia, trovarono fogli di carta su cui scrisse i nomi di coloro che avrebbe dovuto uccidere. C’erano i nomi delle vittime, ma anche quello di Genoveffa, la moglie di Achille. “Mi venne a cercare, voleva fare fuori anche me” ricordò sempre da anziana. In effetti i cani dei Carabinieri annusarono tutto il perimetro circostante la loro casa dopo i fatti. L’abitazione era un vecchio mulino ad acqua, il fiume silenzioso scorreva lì accanto. I quattro figli di Achille e Genoveffa conobbero la bontà delle sue acque, cristalline al punto che si potevano contare i ciottoli uno alla volta. “E’ per i figli che vale la pena vivere” questa la frase che Achille pronunciò qualche giorno prima di morire, proprio vicino al fiume sul prato della croce. Gli uomini del nucleo speciale lo trovarono riverso a terra cinque ore dopo suo nipote, il corpo era diverso da quello che videro i figli sul tavolo dell’obitorio. Prono e con le gambe strette, il viso si nascondeva tra l’erba del prato; lo voltarono e fecero un passo indietro, il grosso calibro produsse una voragine appena sotto lo sterno. All’obitorio il medico legale scoprì il cadavere fin sopra lo sterno, non ritenne opportuno andare oltre, tuttavia, il quarto dei suoi figli volle vedere. Sotto il lenzuolo bianco si intravedeva una depressione. La vista di quell’orrore fece trasalire persino il medico, il silenzio durò secondi interminabili. Poi un pianto sommesso, lento e soffocato ruppe la tensione vitrea, era Maria la terzogenita. Si era allontanata con pudore piangendo in un angolo. Il figlio che volle vedere fece un cenno risoluto al medico, “basta così” disse. Abbracciò la sorella e uscirono.
“E’ morto al primo colpo, non si è accorto di nulla” disse il medico, “il proiettile ha distrutto gli organi vitali prima che potesse realizzare di essere stato colpito”, questo fu il referto del medico legale.
“Ebbero cinque ore per salvarlo, cinque ore”. Genoveffa non si spiegò mai il perché di tanta impreparazione. Achille fu ucciso cinque ore dopo Maurizio, intorno alle tredici del pomeriggio.
“Certo è che se l’andava cercando il giovane Maurizio” disse un suo amico, “La sera prima lo vidi più in forma che mai”. In effetti Maurizio era un giocherellone, scherzava e alle volte si prendeva gioco di Fortunato. Dopo qualche bicchiere di vino, senza ubriacarsi, diventava irresistibile. “Si vedeva che il suo modo di fare gli era insopportabile, per Fortunato era già morto”. Frequentavano lo stesso bar e tutti sapevano. Sapevano dell’odio strisciante che Fortunato covava da anni nei confronti della famiglia Romani. Il fatto è testimoniato dai soliti biglietti rinvenuti nella sua abitazione. In uno di questi diede corpo alla sua collera : “Un giorno la farò finita con quella famiglia di bastardi, mi hanno rovinato la vita. Non so come ma lo farò. Li ucciderò tutti, come si fa con i cani rabbiosi”. In un altro l’intento omicidiario assunse contorni più definiti: “Ho deciso, comincerò con quelli che vivono qui. Meritano di morire tutti quanti”.
Quelli che videro Maurizio in una pozza di sangue alle 8,00 del mattino rimasero impietriti. In paese avevano visto uccidere cinghiali, sgozzare maiali, sparare ai lupi, ma non videro mai un uomo con la mandibola strappata a colpi di fucile. L’assassino si era appostato su un muricciolo alto un metro e settanta, i gomiti a terra e il calcio del fucile piantato nella spalla. Lo vide avvicinarsi all’auto e aprire la portiera, lo chiamò, voleva sfigurarlo. Fece fuoco tre volte, a ripetizione. Maurizio cadde. “Dicono che si sia allontanato senza fretta con il fucile a tracolla”. “La madre di Maurizio, la signora Ada, l’ha persino salutato”, ricordarono senza troppa precisione.
“Dopo aver ucciso Maurizio ha aspettato Achille per quattro ore” così diceva Genoveffa. “Quel delinquente voleva completare l’opera”. Ed era vero che lo attese per quattro ore. Alle 9,00 era già sul posto, un’ora prima sotto i suoi colpi cadde Maurizio, lo aspettava vicino al prato al di là del fiume. Fortunato sapeva che il vecchio Achille sarebbe passato di lì prima o poi. Era metodico, preciso e non avrebbe mancato l’appuntamento. “Assaggerai il piombo del mio fucile” pensava l’assassino tra se, uccidendo anche il tempo che lo separava dall’attimo fatale.
“Ha aspettato che si girasse e gli ha sparato alla schiena” disse il quarto figlio, quello che volle vedere il cadavere.
Achille arrivò alla testa del suo piccolo gregge, aveva con se un bastone e camminava lento, tranquillo come sempre. Poi, due colpi riecheggiarono per la vallata sparati a breve distanza, 15/20 metri, non gli lasciarono scampo. Il secondo colpo era di troppo, il primo lo trapassò straziandolo.
“I nuclei speciali lo cercarono per tre giorni dopo il fatto” disse Maria, l’unica figlia. “Si era dato alla macchia nascondendosi chissà dove”.
Le famiglie furono costrette a celebrare funerali blindati, non si sapeva nulla di quel folle, poteva uccidere ancora. Il giorno dopo le esequie ci pensò da solo, si tolse la vita con lo stesso fucile piantandosi un colpo in fronte.

di Giuseppe Cetorelli

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