Anche quest’estate è tornato “Flussi“, miracolo della terra mia, che, nel solo giro di sette anni, è riuscito a imporsi come una delle manifestazioni di media art più importanti a livello nazionale e internazionale. Al di là della vasta offerta artistica, Flussi, da sempre, ragiona su cosa abbia senso proporre e come comportarsi con una cultura in costante evoluzione. Se l’anno scorso il concept #selfware avanzava una riflessione sull’autocolonizzazione feroce, inconsciamente praticata dall’individuo che si relaziona con le tecnologie, quest’anno giunge a porti concetti più concreti e “sicuri”: il concept “Rҽαlιτyvιsm” è un’idea di «realismo radicale, di un materialismo spinto in cui l’uomo non è più misura di tutte le cose, e le cose (se prese sul serio) ci rivelano le molteplici singolarità del Reale, un universo –mondo paradossale, selvaggio, contradditorio, che nelle sue pieghe, nei “glitch”, nei mille piani, offre ancora ampi spazi di resistenza ai processi di anestesia e omogeneizzazione prodotti dagli algoritmi del potere» (così si legge sulla home del sito); di nuovo, come per l’anno scorso, le occasioni di resistenza si realizzano nel campo dell’arte, spazio terapeutico e liberatorio, che, operando, per quanto possibile, sulla tecnologia, può sottrarci all’alienazione e mercificazione che questa comporta.
Ieri, 28 agosto, è stato il giorno cruciale della manifestazione.
Fa caldo, ad Avellino sembra esser tornata l’estate all’improvviso. Mi avvio alla Casina del Principe, dove si tiene la prima parte delle esibizioni. Prima dell’inizio, faccio un salto alle installazioni. Me ne rimane impressa una, “Kitchen“, di Rino Petrozziello, dove, tramite un semplice pannello di controllo è possibile far rivivere i suoni tipici della cucina, troppo spesso oscurati dalle dimensioni sensoriali del gusto, dell’olfatto, della vista.
Alle 19.00, mi sposto in giardino per i live set. Si parte subito con i Radford Electronics, duo drone-rock napoletano, composto da due giovani menti interessanti: Aaron Rumore, fondatore dell’etichetta di nastri Körper/Leib ed attivo anche come Bitcoin e Guido “Eks” Marziale, beat maker fra dub e noise estremo. Chitarre non amplificate tradizionalmente, tappeti di no-input, elettronica, gli permettono suoni verticali, ballabili ma al tempo stesso ruvidi e quasi sonicyouthiani.
A seguire, quando comincia a scendere la sera, c’è Michael Vorfeld, il signore della luce. Tedesco, camicia blu scuro, si esibisce nella sua “Light Bulb Music“, performance audio-visiva basata sui suoni generati da differenti lampadine e dispositivi elettrici di azionamento. L’uso di diversi controller produce un cambiamento nel flusso di corrente e di conseguenza nella luce e nel suono. Sembra di osservare una vetreria dall’esterno. Vorfeld è un aristocratico del suono, emana ordine già nel modo di vestire, oltre che nella sua esibizione. I guanti bianchi usati nella performance non fanno altro che confermare questa mia idea.
L’ultimo artista alla Casina è Dave Phillips, attivista sonoro, performer e ricercatore di Zurigo. Il suono attiva emozioni primordiali che ci legano al nostro lato “animale” che l’esperienza civilizzata censura. Phillips propone il suo live set basato su registrazioni di insetti in Vietnam, Cambogia, Thailandia, ricreando un universo oscuro, perturbante, dove emerge, a poco a poco, una carica erotica dovuta al ritorno negli abissi profondi dell’animalesco. Come un Cristo in procinto di essere tradito, Phillips suona sotto l’ulivo al centro del giardino, in una forma di meditazione che essendo erotica, corporea, viva, non può non essere anche astratta e “religiosa”.
Alle 22.00 mi fiondo alla terrazza del teatro Gesualdo, poco distante. Faccio un giro alle installazioni, mi soffermo su una, “Profeticomatico“, di Nicola Pisanti e Antonio Pipolo, una sorta di oracolo ispirato dallo zodiaco, dai tarocchi ma anche da alcuni film comici degli anni ’70 e ’80. Basta premere un tasto per far pronunciare l’oracolo. Sul mio c’è scritto: “Cavalca il bue onesto come se fosse universo”. Che sia un invito a stare sottocassa? Forse sì, visto il finale di serata.
Iniziano, sul palco principale in terrazza, gli Ossatura, avanguardia musicale since 1995. Fabrizio Spera alla batteria, Elio Martusciello all’elettronica e Luca Venitucci alla fisarmonica, si spendono in un live di alta scuola dal sapore quasi free jazz.
Subito dopo c’è il toscano Giulio Aldinucci, classe 1981, compositore da anni attivo nell’ambito della sperimentazione elettroacustica. L’ultimo suo album “Spazio Sacro”, uscito a maggio con l’etichetta statunitense Time Released Sound, pone la visceralità dei paesaggi al centro della sua ricerca. Aldinucci si inserisce in un filone musicale che richiama a tratti il primo Ben Frost, quello di “Steel Wound” (Room40, 2007) per intenderci, e il Bvdub di “The art of dying alone” (Glacial Movements, 2010). Un artista essenziale, quindi, per il panorama ambient italiano.
Subito dopo ci sono i Retina, gli alieni partenopei, di Pompei precisamente. Lino Monaco e Nicola Buono sono due mostri sacri. Li ho visti spesso dal vivo, ma ogni volta è una grande emozione. Nei loro lavori hanno percorso generi diversissimi, dall’ambient, per esempio con “Descending Into Crevasse” (Glacial Movements, 2012), alla techno, esplorando synth modulari e digitali. I Retina hanno calcato palchi importanti con artisti del calibro di Kraftwerk, Matmos, Telefon Tel Aviv, Noto, Apparat e tanti altri. Li ricordo quando lo scorso anno mi capitò di vedere, proprio a Pompei, Sons of Magdalene, il progetto solista di Joshua Eustis, ex membro dei Telefon Tel Aviv, da poco esibitosi al Robot Festival di Bologna… e anche in quel caso, bisognava ringraziare, molto probabilmente, proprio Lino Monaco per aver messo in piedi la cosa. L’altra sera invece i Retina hanno sconvolto il pubblico suonando la loro ultima opera “De Occulta Philosophia” (Semantica Records, 2015), tanto da far tremare la terra spianando la strada all’headliner Kerridge.
Samuel Kerridge attacca a mezzanotte e un quarto circa; l’inglese non le manda a dire, subito chiede di alzare i volumi, incita il pubblico, la scritta “Contort” (etichetta discografica che ha fondato insieme alla moglie) campeggia in bella vista sul suo Mac. Capello tirato Gallagher, Samuelone fa violenza sul palco. Il set è cupo, oscuro, una guerra. Parla a un microfono di tanto in tanto, l’undertaker inglese, come ad annunciare un bombardamento aereo, la macellazione delle carni che spietate cadono via. Noise, industrial, a tratti inquietante, Kerridge mescola sapientemente dal vivo i suoi due dischi: “A Fallen Empire” (Downwards Records, 2013) e “Always Offended Never Ashamed” (Contort records, 2015). Un set bellissimo, con visual azzecatissimi by Kanaka Project.
A fine serata, attendo un po’ per farmi una foto con Kerridge che si dimostra subito disponibilissimo, il mio inglese scadente non mi permette di continuare a lungo la conversazione. Mezz’oretta dopo, sono al Tony a bere l’ultimo Vodka tonic. Domani sarò di nuovo qua dalle 19.00.
Domenico Porfido
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kerridge è fantastico! grazie per questo report di Porfido….. su Uki sempre le cose migliori!
il prox anno non perderò’ questo festival !
adoro kerridge e amo i retina!!! grandiiiii!!!!
bel report!
Dave Phillips è stato qualcosa di speciale!
Grazie al Porfido per questo bel report!
belle cose!
bel report di Porfido, complimenti
questo festival merita davvero……grazie uki!
Kerridge è un grandissimo!!!!
istallazioni davvero affascinanti. uno dei migliori festival di cultura digitale.
la sera kerridge ha spaccato di brutto (anche gli ossatura non sono stati per niente male)