Sembra quasi di poterli osservare, i contadini, mentre nervosamente si tolgono il lurido cappello dinanzi al passaggio paludato degli aristocratici, possessori dei loro destini. Le strade bruciate da un sole impietoso serpeggiano polverose al transito di carrozze stanche, la Sicilia di mezzo Ottocento si presenta così agli occhi vergini dei viaggiatori. Federico De Roberto è stato un grande scrittore, figlio di quel Verismo che conosciamo grazie alle opere di Giovanni Verga e Luigi Capuana. De Roberto viene sovente citato per ultimo, come un ricordo che arriva dopo un po’, fortunosamente recuperato dalle latebre oscure dei ricordi scolastici.
La nostra cultura letteraria deve molto al suo capolavoro, “I Vicerè“. Iniziato nel 1891 e concluso due anni dopo, fu pubblicato a Milano nel 1894; narra, sullo sfondo della storia italiana tra gli anni cinquanta e gli anni ottanta dell’ottocento, le vicende degli Uzeda di Francalanza, aristocratici catanesi di origine spagnola soprannominati i “Vicerè”, in ricordo degli antenati che occuparono quella carica durante il dominio spagnolo. Gli scenari sono quelli di una Italia preunitaria frammentata in tanti piccoli stati che si guardano in cagnesco; il romanzo attraversa le decisive vicende politiche che condurranno alla agognata Unità della penisola.
La saga familiare ha inizio con la dipartita della principessa Teresa e con la lettura del suo testamento. In un mondo arcaico dominato da antichi tradizionalismi, superstizioso e chiuso, si dipanano inesorabili le bassezze dei protagonisti. I personaggi a cui De Roberto dà vita sono infatti avidi, meschini, assetati di potere e carichi di odio gli uni verso gli altri. La loro corruzione morale si manifesta anche nell’aspetto fisico, con una serie di malformazioni dovute ai frequenti matrimoni tra consanguinei. I vizi e le scaltrezze maligne immaginate dall’autore fanno degli Uzeda una famiglia particolarmente attuale per certi versi. Durante la lettura si conoscerà la figura di Consalvo, ultimo discendente della nobile stirpe, il quale non mancherà di ricordare che li loro destino, il loro ruolo storico è quello di comandare, prima con il denaro e la violenza, poi con l’inganno e il tradimento. Emerge il sovvertimento e il pervertimento di quella società, dove il denaro e il potere si innalzano ad assoluto vertice valoriale. Tutto può essere sacrificato all’utilitarismo, persino la dignità di uomini e donne, inscritti in un disegno che elimina le peculiarità superiori presenti nell’uomo, esaltando in sommo grado il miserrimo possesso materiale.
L’attualità di questo romanzo è sconcertante, dopo un secolo e mezzo la politica resta un esercizio che mira alla costruzione di un privilegio personale. Ieri come oggi imperano la corruzione e l’ipocrisia. Uno dei momenti da ricordare è quello in cui Consalvo, che per farsi eleggere deputato ha assunto posizioni liberali, va a conferire con la zia Ferdinanda e gli manifesta le sue vere idee, che sono rimaste reazionarie. È la danza delle maschere e degli infingimenti, tanto cari a chi mostra arsura desertica di potere. Il rapporto degli Uzeda con il resto del mondo è fondato su una concezione usuraia e predatoria, tiranneggiato dalle leggi spietate del dominio. La voluttà inesausta del potere trasforma gli uomini in esseri desideranti paragonabili ad un vaso forato, il quale non colma giammai la misura. L’unica figura positiva dell’opera è quella di Giovannino, che si toglierà la vita. Il suicidio suggella il fallimento di un personaggio che è tra i pochi, se non l’unico, a ispirare il suo comportamento all’autenticità dei sentimenti.
Nell’universo narrativo dei Viceré trionfa chi risponde al rischio di decadenza della famiglia adattando le proprie ambizioni alle mutate circostanze storiche; sotto le mentite spoglie di un demagogo, Consalvo briga e ordisce continuamente, sfrutta il prestigio del casato per fini opportunistici. Un capolavoro del Verismo ingiustamente sottovalutato anche per colpa di Benedetto Croce, il filosofo idealista all’epoca rappresentava il vertice della cultura italiana e un suo giudizio poteva essere decisivo. Croce giudicava il romanzo pesante e incapace di scaldare il cuore, pertanto incapace di assolvere al supremo compito della letteratura. Leonardo Sciascia invece lo considerava il più grande romanzo italiano insieme a “I Promessi Sposi” di Manzoni. Lo scrittore siciliano di questo libro amava lo stile freddo, razionale, la disperazione, la capacità di rappresentare senza pietà il corpo vivo del paese. Ne amava soprattutto la sincerità senza scampo, la denuncia della ignobiltà degli aristocratici, il tentativo di rammentare che i “principi” e le “principesse” altro non erano che sciacalli e iene, che il potere è sempre stato corrotto e senza ideali.
Sulle capacità di scrittore non ci sono dubbi, De Roberto è un grande stilista della lingua, la utilizza da padrone assoluto facendo emergere la ricchezza di vocaboli e lo splendore del nostro italiano. Di seguito riporto l’esordio del romanzo, in grado di comunicare più di qualsiasi spiegazione: «Giuseppe, dinanzi al portone, trastullava il suo bambino, cullandolo sulle braccia, mostrandogli lo scudo marmoreo infisso al sommo dell’arco, la rastrelliera inchiodata sul muro del vestibolo dove, ai tempi antichi, i lanzi del principe appendevano le alabarde, quando s’udì e crebbe rapidamente il rumore d’una carrozza arrivante a tutta carriera; e prima ancora che egli avesse il tempo di voltarsi, un legnetto sul quale pareva fosse nevicato, dalla tanta polvere, e il cui cavallo era tutto spumante di sudore, entrò nella corte con assordante fracasso…».
Giuseppe Cetorelli
sara’ che il verismo che rimane sempre indigesto
Un romanzo viscerale. Gran bel articolo di Cetorelli
scrive bene Giuseppe. e’ una storia ancora attuale nella societa’ di oggi dominata da soldi e potere. cambiano gli aristocratici arrivano i banchieri . gli uzeda sono tra noi